Sicilia di scena 2023/2024: una nuova Luna per Astolfo 13

Sicilia di scena 2023/2024: una nuova Luna per Astolfo 13

Il Teatro Biondo di Palermo con Sicilia di scena porta avanti un progetto rivolto ai giovani drammaturghi di tutta l’isola. È un bando aperto sia a singoli che a collettivi che possono presentare opere appartenenti a qualsiasi genere e linguaggio scenico. Una volta nominato, il vincitore viene prodotto e distribuito nelle sale del teatro per un minimo di dieci repliche.. Il teatro si impegna a coprodurre e/o ospitare altri quattro progetti particolarmente rilevanti e: L’arte della resistenza di Barbe à Papa Teatro; The Yalta Game della compagnia Saveria Project; Felicia della compagnia Quintoequilibrio; Butchers di Gloria Dorliguzzo. 

In questa seconda edizione 2023/2024, Astolfo 13 di Giulio Musso e Federico Pipia è andato in scena al Teatro Nuovo Montevergini di Palermo dal 21 al 23 dicembre e poi dal 27 al 30 dicembre 2023. Interprete del suo stesso testo è Giulio Musso, che attraverso l’intenso lavoro con l’attrice Francesca Melluso, viene preparato al palcoscenico per vestire i panni, ideati da Dora Argento, ora di Rodomonte ora del mago Atlante e di altri mitici personaggi dell’Orlando furioso.

Alla sua destra Michele Piccione suona numerosi strumenti, alla sua sinistra Federico Pipia si esibisce in live electronics, dopo aver firmato la regia, le musiche, il sound design e le video scenografie, proiettate alle spalle di Musso e su un piccolo schermo di computer in proscenio sulla destra (tutto curato in scena da Andrea Trona). Si raccontano tante storie dentro una storia: vengono evocate immagini del poema ariostesco la cui epicità sposa bene frasi dialettali del cunto e movimenti spezzati da pupo siciliano, con basi ritmiche contemporanee.
Astolfo 13 è un’immersione sensoriale in un ambiente già di per sé pittoresco (quello del Teatro Nuovo Montevergini, una chiesa seicentesca ormai sconsacrata), premiato per uno sguardo registico maturo. Ne abbiamo parlato con Musso e Pipia.

Qual è la genesi dell’opera?

Federico Pipia: Il progetto è nato nel 2016 come lavoro musicale, con l’idea abbastanza “semplice”  ma al tempo stesso inedita, nel senso che non mi risulta che siano stati fatti lavori del genere datati fino al 2016 nè dopo. È una riscrittura di alcuni episodi dell’Orlando furioso su musica elettronica. All’inizio lo intendevamo come lavoro discografico, non per fare una pubblicazione discografica importante ma un lavoro personale da portare in giro in forma di lettura su musica. Abbiamo fatto un piccolo EP che raccoglieva i primi episodi su cui avevamo lavorato, ovvero Orlando che entra nel castello incantato del mago Atlante, Astolfo che viaggia nello spazio, la furia di Orlando e un proemio. Tre su quattro episodi direi sono rimasti e sia le musiche che parti del testo compongono quest’ultima edizione. Negli anni si sono aggiunti degli episodi, ne abbiamo modificati altri e gradualmente abbiamo cambiato idee oppure quella che poteva essere la visione.

Giulio Musso: Sia la scrittura che la composizione che l’evoluzione di tutto il progetto è cresciuta insieme a noi, parallelamente alle nostre esperienze comuni e diverse e nella nostra testa cominciavamo ad immaginarlo sempre più in una dimensione spettacolare,  teatrale, con una veste sempre più performativa. Tant’è che nel 2019 abbiamo anche vinto il premio letterario Alberto Dubito, sempre proponendo uno studio di due, tre episodi singoli sotto forma di lettura performativa: hanno premiato l’originalità del progetto e questo è stato un momento abbastanza importante perché abbiamo capito che esisteva un riscontro anche transregionale, nonostante magari l’apparente ostacolo del dialetto in alcuni punti o della specificità della materia trattata, che è quella dei paladini di Francia, che appartiene sì all’Orlando furioso, però che chiaramente fa capo alla nostra formazione culturale, a partire da quello che succede a Palermo con il cunto, con il teatro dei pupi. È stata un’evoluzione graduale che ci ha permesso con delle diverse risorse di trasformare questo progetto in grande scala, più o meno come ce lo immaginavamo.

FP: Rimane lo spirito modulare di questo lavoro. Ogni giorno è sempre uno studio diverso su quello che  stiamo facendo e ogni mese, ogni settimana cambiano delle parti. Adesso si sono aggiunti anche dei livelli in più con il discorso fisico dei costumi, del movimento, dello spazio, della scena, del rapporto con il pubblico, delle luci, dei video, quindi a maggior ragione ci sono tante cose che possono cambiare costantemente, in una ricerca infinita di quello che potrebbe essere.

GM: Non è una specie di ricerca della perfezione, della rotondità ma un processo continuo in cui cerchiamo di spremere sempre più quello che siamo in grado di fare con il linguaggio musicale, verbale, scenico.

Astolfo 13
© Ivan Di Vita

Come avete lavorato alla  stesura del testo?

FP: Inizialmente forse i primissimi passi li abbiamo mossi separatamente, però comunque  abbiamo entrambi responsabilità che vanno anche al di là delle nostre firme. C’è sempre stato un dialogo drammaturgico per cui prima di scrivere sia musica che testo c’è stato uno sforzo immaginativo di entrambi, sempre un dialogo sulle idee, su quello che può succedere. Ci sono tante cose inedite sempre nel rispetto di quello che sono i personaggi, i rapporti all’interno del testo originale perché comunque specialmente Giulio si rifà filologicamente a tutto l’apparato mitologico e letterario dell’Orlando furioso, però c’è una reinvenzione costante e in questo c’è molto confronto. Nell’atto di scrivere singolarmente musica e parole c’è un momento di solitudine, ma poi nel confronto  tagliamo parti di testo, cambiamo parti di musiche: c’è un legame molto forte su questo aspetto.

GM: Il rispetto filologico, la filigrana dell’Ariosto è sempre presente. In realtà quello che, ritornando alla genesi del lavoro, ci ha spinto a farlo è l’ammirazione, la sorpresa, lo stupore costante che ci provoca leggere questo testo. Per me l’Ariosto è sempre stato geniale nella sua leggerezza, nella sua ironia, nella sua capacità di costruire immagini, creature, incantesimi, personaggi straordinari. È sempre stato lì, un luogo familiare. Per me la scrittura in versi dell’Ariosto e di tante altre opere letterarie che si studiano a scuola risultavano già di per se affascinanti. Se io mettevo una base sotto, andando a tempo, le leggevo e ne veniva automaticamente una lettura performativa, poetica, con una base di musica elettronica o hip hop. I testi così acquisivano per me sempre molto più senso e le capivo meglio in qualche modo, prendevano vita e diventavano comprensibili e questo ovviamente immagino che abbia un ruolo nella nascita dello spettacolo.

Ogni personaggio ha il proprio “costume” sonoro. In che modo ha avuto inizio il dialogo tra parola e musica?

FP: Gli episodi che sono rimasti dal progetto originario sono forse tra i più affascinanti, ovvero l’allucinazione di Orlando nel castello del mago Atlante e tutta la scrittura elettroacustica del viaggio di Astolfo nello spazio; sono anche i primi a cui abbiamo lavorato. Sono tutti temi, suoni che sono venuti semplicemente da un atto di immaginazione, anche sonora e armonica, che ha prodotto queste miscele di elettronica tra il dance e lo sperimentale, la musica tradizionale popolare da un lato e echi di musica medievale. Alcune cose sono andate perdute col tempo e poi ritrovate. All’inizio è stata veramente una sorta di magia, scavare in un’immaginazione inconscia.

Invece negli anni successivi c’è stata un’idea sempre più precisa della direzione da prendere. L’imprevisto musicale, in senso positivo, viene sempre fuori, la divergenza, lo straniamento rispetto a quello che è l’orizzonte d’ascolto c’è sempre però è stato fatto in maniera più consapevole, più mirata. Ad esempio un episodio come quello di Rodomonte o come quello del mago Atlante sono ideati in maniera più consapevole come qualcosa che deve dare un’idea sonora e musicale lasciando comunque spazio alla parola, mentre invece i primi episodi, quelli che ho citato prima, sono molto più avvolgenti, invasivi ed è una cosa che abbiamo voluto mantenere. Poi l’arrangiamento dal vivo era la cosa che mi interessava di più, perché è bella la relazione che si può creare tra due musicisti sul palco.

Mi piaceva mantenerla quindi ho preso i brani e li ho riarrangiati in modo che si potessero eseguire tutti dal vivo. L’elettronica rimane pura in alcuni momenti però poi per il resto è una continua relazione tra strumenti. È un arrangiamento che accompagna le parole ma che crea anche un contrasto, un dialogo soprattutto con il testo, con il personaggio. In quest’ora si sentono cose diverse, si mettono in relazione sullo stesso livello, ma anche su piani diversi, suoni che normalmente stanno in contesti differenti come appunto la musica di ricerca, elettroacustica, l’improvvisazione, la techno, la trap. Tutti questi non sono solo generi ma proprio mondi anche sociali, perché sono paradigmi di fruizione che vengono associati a certi contesti e ascoltati da certe persone in certe situazioni.

C’è molta differenza di solito tra queste cose, anche se l’operazione di portare la musica contemporanea “pop” all’interno del teatro ovviamente viene fatta spesso. Eppure questa fluidità nel passare tra una cosa e l’altra come se fosse un unico evento, discorso sonoro e musicale è più rara con questo grado di approfondimento all’interno di uno spettacolo, dal punto di vista dell’esecuzione musicale. Di solito si tende a trovare uno stile o comunque un tipo di musica e mantenerlo per dare coerenza.

Astolfo 13
© Ivan Di Vita

Qual è il vostro rapporto con il teatro? E cosa vorreste vedere?

FP: Il mio rapporto con il teatro è partito dalla primissima infanzia. Mia madre è costumista quindi dagli zero ai dieci anni ero sempre in teatro a vedere prove su prove tra Catania, Roma e Palermo e questa cosa mi ha formato. Ho visto un  certo tipo di teatro, anche quello più tradizionale, che mi ha aiutato a riconoscere le cose che funzionavano meglio e quelle che funzionavano di meno. Poi con il tempo in adolescenza è nato soprattutto l’amore per la musica e negli ultimi anni si è trasferito in una visione teatrale di quello che è la musica: un’idea di teatro che è al confine con tutto ciò che è il senso del suono, della musica, della ricezione fenomenica, di quello che avviene, un’idea musicale del teatro, anche in “assenza di musica”. Durante gli anni al conservatorio di Bologna mi sono avvicinato al teatro contemporaneo, soprattutto dopo aver studiato musica elettroacustica.

Uno degli ultimi maestri che ho avuto è stato Luigi De Angelis che è regista, light designer, compositore, sound designer di Fanny & Alexander e il rapporto con lui è stato abbastanza importante per permettermi di accedere all’idea di fare del teatro, di varcare quella soglia che va oltre il concerto performativo e superarla. Per quanto riguarda cosa voglio vedere: tutto quello che posso, non ho pretese su quello che fanno gli altri. Sono abbastanza aperto a esperienze diverse da quello che faccio io.
In teatro, più che certe opere, mi piace una certa visione del teatro e la difficoltà maggiore con Astolfo 13 è stata ed è tutt’ora riportare un equilibrio tra quella che è una visione artistica più profonda e invece la necessità e la volontà anche di divertirsi, di avere una comunicazione diversa anche più divertente. Non di intrattenimento ma comunque di una relazione a più livelli con il pubblico e questa forse era una delle cose più stimolanti, più interessanti di questo lavoro, di applicare un’idea di sperimentazione sia letteraria che musicale e performativa su un progetto che comunque non riesce a non essere in qualche modo trasversale.

GM: A me a teatro interessa ovviamente divertirmi, emozionarmi, essere interrogato da quello che vedo ma soprattutto mi interessa entrare a contatto con dei testi che conosco o che non conosco e quindi studiare e imparare. Il teatro è un posto sacro, il palcoscenico diventa una piattaforma, un luogo sempre altro che assume un’aura. A me non frega niente di questa cosa però proprio perché non me ne frega niente rispetto moltissimo le convenzioni che esistono, il perimetro e la grammatica di questo posto che sto iniziando a conoscere adesso che lo sto guardando dal di dentro. Questo forse mi dà un po’ di incoscienza, la spinta per fare bene, per essere energico.

Mi piace stare a contatto con il pubblico perché per me non è una trasmissione unidirezionale ma è come quando sei in classe. Per qualche tempo ho fatto l’insegnante e ho maturato quest’idea: è un rapporto di educazione paritaria ed orizzontale, io ti racconto qualcosa, tu mi rispondi, mi fai cambiare idea, ti diverti, io mi diverto. Mentre quello che desidero vedere è proprio Astolfo 13, non lo posso vedere perché lo faccio io. Vorrei vederlo e siccome non l’ho mai visto abbiamo detto: «Facciamolo noi, allora!».

FP: Bisognerebbe saper educare sia il pubblico sia le persone che il teatro lo fanno. Ho avuto la fortuna di instaurare un gran rapporto con i miei maestri al conservatorio di Bologna, è stato veramente molto stimolante. Ero immerso in un contesto vario e molto interessante di approfondimento di ciò che è il suono in senso lato, poi quando mi sono approcciato al teatro ho riportato lì tutte queste conoscenze. Giulio ha un’altra esperienza di approfondimento sulla letteratura che non è assolutamente di tutti, un approccio letterario che poi è diventato drammaturgico: Se si vive, si cresce, si studia in un contesto meno ricco e che tende ad approcciare il teatro in maniera esclusivamente tradizionale o semplicistica, non si riesce a recuperare ciò che di ottimo c’è nella tradizione del passato, ma soprattutto è sempre più difficile guardare al contemporaneo ovvero a guardare al futuro. Tantissime persone a noi sconosciute che sono venute a vederci sono tornate due o tre volte: ciò ci fa molto piacere, ma poi, al di là di noi, è un segno che anche persone che non vanno spesso a teatro vogliono rivedere un prodotto che ha una sua complessità.

Rezza Mastrella: l’umanità al Fotofinish

Rezza Mastrella: l’umanità al Fotofinish

Dal 12 dicembre 2023 al 14 gennaio 2024 il Teatro Vascello di Roma ospiterà tre opere di Antonio Rezza e Flavia Mastrella: Amistade, Fotofinish e Hybris. In particolare, Fotofinish andato in scena dal 19 al 31 dicembre; uno speciale quello di Capodanno, dove al pubblico verranno riservate altre sorprese, a condire la già peculiare esperienza di visione sulla quale i due artisti da tempo pongono la firma.

Sulla scena regna il bianco di strutture verticali, sferiche, composte da teli, attraversate e rette da scheletri di metallo.

 La maggior parte sono oggetti apparentemente astratti, che Rezza riconverte e indossa per narrare la solitudine che attanaglia il suo personaggio, che corre da una parte all’altra del palcoscenico a petto nudo, con calzoni, stivali e una fascetta attorno al collo, altrettanto bianchi. 

Un fotografo inganna la monotonia dei suoi scatti immaginando un mondo post 11 settembre, fatto di successo anelato, scrivanie soffocanti, filosofia della cura di sé (fisica e mentale), di potere da esercitare su fantomatici concittadini. 

Diventa sindaco della città, eletto chissà da chi, posizionandosi nell’occhio di bue al centro del palco, tenendo uno degli oggetti ideati da Mastrella, un’asta con quello che sembra essere un vessillo, di un partito, di uno stile di vita o forse di se stesso, mentre si impegna in vari comizi. 

Nel suo delirio di onnipotenza costruisce una città, con il suo ospedale, i suoi cittadini, i suoi vari appartamenti nella metropoli e in campagna che a turno lo stancano. Si improvvisa tecnico, scienziato, studioso spiegando al pubblico i suoi modellini raffiguranti palazzi e uffici a prova di attentato terroristico. 

Ivan Bellavista (anche lui il petto nudo, calzoni e stivali bianchi), soggiogato dalle solite parole di Rezza, graffianti, violente, divertenti e senza dio, si tramuta a piacimento in un cane che difende le sue proprietà, in uno scagnozzo che esegue gli ordini ora per portarlo dall’ortopedico, ora per infliggergli dolore con uno strano oggetto che usa per flagellarlo. 

Eppure Rezza è costantemente sincero: d’altronde il pubblico è ben conscio di assistere al delirio di un folle, come lui stesso ripete. Nella corsa sfrenata della sua sofferenza chiede agli spettatori di seguirlo, di correre con lui, arrivando sì al traguardo, ma della sua pazzia.

Ciò che davvero viene eretto durante la performance è una prigione. Il pubblico ancora non sa a quali torture verrà sottoposto. Rezza nel delirio,  non è solo e con lui trascinerà la platea, letteralmente.

Lo spettatore è spacciato: appena entrati, mentre si prende posto, le maschere indicano la pedana bianca al centro tra le prime file, creando un corridoio che culmina in un cerchio per terra anch’esso bianco che fa presagire un’intrusione. Su questa pedana Rezza corre, coi suoi piedi o spinto su una carrozzina da Bellavista, lì ambienta alcuni dei suoi comizi e presentazioni di nuovi prototipi. 

A questa altezza dello spettacolo il coinvolgimento richiesto è ancora innocuo: l’interprete  fa mangiare dei pomodorini ad uno spettatore a caso, che erano destinati a Bellavista-amante che però ne ha già fatta una vera scorpacciata, oppure quando strattonandoli urla contro ad altri malcapitati nei suoi ancora paradossalmente timidi deliri. Porta il cane (sempre Bellavista) a passeggiare sin lassù, quando d’un tratto si sbarazza del compagno e inizia a interpretarlo lu

i stesso. A quattro zampe si avvicina ad alcuni in particolare, abbaiando, ad uno morde la spalla e ad un’altra lecca la faccia. Ma quando la sua immaginifica città entra in guerra è nel pubblico che rintraccia il suo nemico.

Sputa i suoi ordini a Bellavista mentre lo aiuta a prelevare ostaggi dalla platea. Soprattutto donne, dice. Le afferra, i loro cappotti gettati sugli astanti dall’altra parte rispetto a dove sono sedute; mentre è di spalle, qualcuno gentilmente prova a riportare indietro uno dei tanti soprabiti per permettere alla proprietaria di ritrovarlo al suo posto alla fine della replica, ma Rezza se ne accorge e gli urla contro di lasciarlo lì dov’è, «Ti tengo d’occhio, stronzo!». 

Chiede poi ad altri due uomini di dare una mano a lui e Bellavista nella razzia, spogliandoli dei loro maglioni e lasciandoli a petto nudo, per uniformarsi ai compagni. Le nuove reclute iniziano a girare per cercare altre vittime, mentre alcuni invocano pietà facendo leva sul fatto che fino a qualche secondo prima erano anche loro semplici spettatori, ma niente; «Non quelli della prima fila! A loro un destino ben peggiore». 

Ci si domanda quanto ancora il palco si dovrà riempire di cadaveri, la vita in loro seccata da colpi di pistola che riecheggiano in sala. D’un tratto la prima fila è costretta ad alzarsi di scatto: dei petardi sono scoppiati sotto i loro sedili simulando i bombardamenti.

Finalmente soddisfatto della quantità, ora Rezza si getta su i corpi ammassati sul palco, salta pericolosamente tra di loro, li dissacra ballando nudo sopra le loro teste e come se non bastasse scopre le forme femminili che il suo personaggio, apparentemente omosessuale, non conosceva. Così sfiora insieme a Bellavista e alle due reclute sederi di donne e il membro di uno dei pochi uomini vittime della carneficina.

È su questa violenza che lo spettacolo si conclude, tutt’intorno il solito odore che lascia lo scoppio dei petardi. È un’imboscata che Rezza e Mastrella hanno architettato nei confronti del pubblico, composto ormai da affezionati fan. 

Si gioca con la responsabilità di essere spettatori, con il potere che chiunque su un palcoscenico esercita e a quanto difficilmente si possa riuscire a sottrarsi. Filmati di repertorio documentano che il coinvolgimento del pubblico è parte integrante della scrittura originale, così è grande il desiderio di sapere come all’epoca del debutto, vent’anni prima, il pubblico abbia potuto reagire. 

Un pubblico che sicuramente non era sensibile come adesso al concetto stesso di abuso. L’interazione con gli spettatori non è di certo nuova nella storia del teatro, ma quella di Rezza è ben diversa. La coppia artistica ha creato in tutti questi anni un linguaggio che parte proprio dalle brutture di una società intera, che restituisce con violenza ad un pubblico che proprio per questo apprezza, che addirittura ne ride e applaude. 

Avviene un cortocircuito in cui Rezza insulta chi ha di fronte: un patto che si redige acquistando il biglietto di un loro spettacolo, che diventa un’occasione per rispecchiarsi nella propria stupidità, una denuncia collettiva.

Rezza in scena è libero come forse chiunque al mondo dovrebbe essere. Basta infilare la testa dentro al buco di uno dei tessuti di Mastrella per divenire personaggio, uomo o donna, medico o ingegnere, basta spogliarsi per essere nudo. È nudo e folle nella sua superbia di artista, che lui stesso si arroga ancora prima che chi guarda possa concederglielo, insieme al compito, altrettanto superbo, di portare su di sé il fardello di un’umanità alla deriva. 

Perché allora solo lui deve essere nudo e folle, ridicolo e potente? Come un odierno Prometeo costringe il pubblico a sporcarsi le mani insieme a lui, quindi prendersi il palco, agire e violare insieme a lui. Si ride mentre si assiste alla violenza, mentre donne e uomini sotto il giogo della finzione sono costretti ad essere palpati (tranne qualcuno che riesce a distendersi sulla schiena per nascondere il sedere o che ha il coraggio di rifiutare il tocco davanti alla platea e al performer stesso) e nessuno dice nulla. 

Sarebbe bello un mondo vergine e scevro da pensieri e azioni violente, in cui un concetto come l’abuso di potere sia alieno. Eppure non è così. E chissà se uno spettacolo così divisivo  nella struttura è quello che alla fine dei conti ci costringe a ritornare nella routine più confusi di prima. Sempre che sia rimasta questa sensazione nelle anime degli spettatori: di essere stati testimoni paganti e omertosi di un abuso di potere.

© Giulio Mazzi

Fotofinish va in scena per la prima volta nel 2003 non dimostrando i suoi vent’anni in scena al Vascello. Al di là dei chiari riferimenti storici del tempo (a cui ne vengono aggiunti altrettanti contemporanei), la cui gravità ha di certo segnato il mondo di oggi, Rezza e Mastrella continuano ad animare in teatro ciò che caratterizza l’umanità intera, che inspiegabilmente ancora riesce a portare il peso della sua immorale condotta. 

Come in una risacca, riporta indietro i costumi, le politiche, il dramma moderno ai suoi artefici, il pubblico, che comunque si diverte e chissà se ci si rivede; che interrompe i ritmi e i tempi comici applaudendo, e Rezza infastidito: «Dài, veloci che così continuo»

Rinascere da una risata, il Finc Festival a Taormina

Rinascere da una risata, il Finc Festival a Taormina

Dall’1 al 10 dicembre a Taormina, un comune in provincia di Messina, si è svolta la seconda edizione del Festival Internazionale di Nuovo Clown, in collaborazione con il comune e il  Parco Archeologico di Naxos.

Ad occuparsi della direzione artistica e organizzativa è il Theatre Degart, il duo composto da Daniele Segalin e Graziana Parisi (in arte Dandy Danno e Diva G), presenti da tempo nel territorio dove, oltre alla loro indipendente ricerca artistica, conducono laboratori e workshop coinvolgendo gli abitanti della città e delle province vicine.

Focalizzandosi questa volta sui temi dell’autoironia, della clownterapia e del clown donna, portano il loro contributo per ravvivare nel periodo invernale una città conosciuta per il turismo estivo. Il programma è fitto e ricco di contributi di grandi personalità nazionali e internazionali del teatro muto e del gesto, tra questi Nola Rae, Hilary Chaplain e The Umbilical Brothers.

Il Palazzo dei Congressi di Taormina ha ospitato prime nazionali e repliche di celebri spettacoli, workshop e il convegno Donne in scena, tra gli ospiti Mattea Fo, presidente della Fondazione Fo Rame. Il recupero del gesto, della risata, dell’immediatezza del linguaggio è la cifra stilistica del Theatre Degart e del loro festival, che analizza e cerca di comunicare con un pubblico contemporaneo; ma prima di tutto con i loro concittadini. Li abbiamo incontrati nel bel mezzo del festival.

Come e quando nasce Theatre Degart e come mai avete scelto questo nome?

Daniele Segalin: ”Degart” sta per “Daniele e Graziana art”!

Graziana Parisi: Nasce durante il Covid per stabilirsi dopo tanto peregrinare in Sicilia, dove sono nata, quindi dove ho espresso il desiderio di tornare anche insieme a Daniele, per costruire un’identità artistica teatrale e proprio nel mio piccolo paese che si chiama Giardini Naxos. Questo progetto è nato dalla volontà di far conoscere il nostro stile teatrale, quello che abbiamo appreso con esperienza in tutti gli anni in giro per il mondo e in tutte le nostre varie esperienze tra il teatro, la strada e il circo e anche dietro le quinte: io nasco come costumista, quindi il lavoro dello spettacolo lo vivo da tutte le parti, adesso anche come organizzatrice del festival. Il territorio è un po’ carente di proposte teatrali, se non quelle bellissime amatoriali. Il desiderio è quello di fare approcciare al teatro le giovani generazioni del territorio e quindi creare un pubblico futuro.

DS: Parlando però il linguaggio di quel pubblico, ecco: questa è una cosa a cui noi  teniamo moltissimo.

Cosa vi ha spinto a fondare il Finc e qual è stata la risposta del territorio sino ad ora?

GP: Noi studiamo ancora molto e quindi da qui nasce l’idea del festival, un altro mezzo per  creare maggiormente pubblico e avvicinarlo a un teatro comunque leggero ma che tratta temi importanti, come la cura per se stessi, l’autoironia e la felicità, creare bellezza, prendersene cura e mantenerla.

DS: Noi avevamo un’idea: dato che abbiamo girato tanto il mondo volevamo invece stavolta che il mondo venisse qua da noi: tutto quello che abbiamo incontrato durante gli anni, i nostri amici, i nostri colleghi che abbiamo conosciuto. Abbiamo pensato di fare il processo inverso, così è nato il Finc. Io sono veneto, sono sempre stato attratto da questa terra che mi ha adottato; ormai sono quindici anni che è qui il mio punto di riferimento. Quando siamo arrivati qui mancava la gente che apprezzasse il bello che c’era. Purtroppo c’è poco tempo per farlo, poco tempo per se stessi, per crescere emotivamente: se ne dedica troppo per cercare la comodità del denaro seguendo i ferrei ritmi del turismo ma molto poco magari per vivere il mondo verso l’interno. Noi volevamo creare meraviglia, vogliamo creare meraviglia e continueremo a farlo, sperando che sempre più persone comprendano che le persone più importanti della loro vita sono proprio loro stesse.

GP: Sono partita da qui a diciott’anni e poi sono tornata pochi anni fa. Adesso mi sono ricordata perché ero andata via, poi però in effetti tornare ha senso, perché maturando esperienze anche in due adesso ci stiamo creando una piccola comunità di persone che si sorprendono ogni giorno. Proponiamo un mondo diverso, proponiamo un mondo teatrale diverso, un mondo di artisti che viene qua e vive la giornata insieme eventualmente anche con il pubblico, facendo workshop, laboratori, incontri. [..] Penso che questa nostra attività ci darà ragione sul lungo termine.

DS: Durante questa edizione la partecipazione è alta, è stupendo anche se manca un po’ il pubblico taorminese, eccezion fatta per le scuole; mentre sono tanti i partecipanti stranieri. Secondo me il più grande problema è la mancanza delle istituzioni, che invece aiuterebbe molto. Qui la gente vorrebbe anche venire, ma costa di più parcheggiare l’auto che andare a vedere uno spettacolo, diventa quasi un controsenso.

Perché avete sentito la necessità di focalizzarvi sul clown donna? In che modo la discriminazione di genere influisce sulla categoria? È qualcosa che tu, Graziana, senti in prima persona?

GP: Le decisioni per il Finc ma come anche per il Theatre Degart le prendiamo insieme. Però il tema della donna certo che lo sento mio, in particolar modo forse perché un po’ in parte anche io ho vissuto quello che hanno vissuto le donne di teatro. Immagino che fare un focus sulla figura della donna nel teatro nella modernità, nella contemporaneità è giusto perché può in qualche modo, anche se in minima parte, influenzare un’opinione pubblica e dire che anche una donna può fare ridere, può essere autoironica, può andare oltre gli schemi classici della bellezza. Una donna può anche ridere dei propri difetti, non ha per forza necessità di passare giornate intere per piacere agli altri. 

È un doppio binario: nel teatro ci sono state pochissime donne considerate star al livello degli attori, si contano sulle dita di una mano quelle che si ricordano, ma comunque sono sempre state affiancate alla figura di un uomo. Noi prendiamo sempre l’esempio di Franca Rame: con Mattea Fo, con Jacopo Fo abbiamo potuto passare del tempo, abbiamo potuto parlarne anche tanto. Proprio Franca Rame era una donna autoironica e un’attrice formidabile e che sapeva gestire anche una compagnia. Focalizzarsi sulla donna clown serve anche oggi all’opinione pubblica, serve ai bambini e ai grandi vedere la donna non più dietro un grande uomo, come si dice; una frase classica. 

Mi ricordo questa intervista che fece Franca Rame: naturalmente il giornalista diceva: ”Allora è vero, dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna!”, lei rispose intelligentemente: ”A questo punto direi a fianco”. Stare dietro vuol dire stare un passo indietro. Dobbiamo fare tantissimo ancora per fare in modo che questo uomo e questa donna camminino a fianco, ne dobbiamo fare tanta di strada e in tutti gli ambiti lavorativi, compreso l’ambito del teatro dove ci sono ancora dei piccoli gap. Continueremo in modo tale che questo festival non sia di soli uomini e neanche di sole donne, ma di uomini e donne che sanno ironizzare su se stessi, che sanno mettersi in gioco, che danno l’esempio anche nella vita di tutti i giorni.

Perché il Centro di Cardiochirurgia pediatrica dell’ospedale San Vincenzo di Taormina rischia la chiusura nel gennaio 2024? Come sta andando il vostro progetto di sensibilizzazione all’interno del festival, con workshop dedicati alla clownterapia?

GP: Pare che la regione Sicilia abbia fatto un appalto con un altro ospedale, con il Bambin Gesù di Roma, e pare che sposteranno tutto a Palermo chiudendo la sede a Taormina.

DS: Non è solamente la gente della zona che usufruisce del servizio, ma anche gente che viene dalla Calabria, dalla Puglia.

GP: È un presidio di eccellenza perché fanno delle operazioni molto delicate e hanno salvato davvero tantissime vite. Se il centro specialistico è su Palermo, se stai male su Giardini Naxos devi percorrere mezza Sicilia per raggiungerlo.

DS: Molti dipendenti verranno licenziati. Vogliamo fare questo focus perché vogliamo che entrambi siano aperti. Le eccellenze vanno moltiplicate non vanno cancellate o selezionate. È davvero triste perché quando una realtà diventa un pregio viene distrutta. Siamo rimasti basiti, dovevamo fare qualcosa. Sicuramente non freneremo le istituzioni e probabilmente ci andranno anche contro ma non ci importa perché stiamo facendo qualcosa di buono. Abbiamo centrato il workshop di Hilary Chaplain sulla clownterapia: Chaplain è a tutt’ora forse la massima rappresentante del mondo del clown dottore.
Addirittura l’ospedale ci ha mandato quattro dottoresse di nazionalità diverse a fare il corso qui con noi perché si possa creare una continuità.

Athletes Bologna – prima azione, traslare i linguaggi

Athletes Bologna – prima azione, traslare i linguaggi

Ateliersi è un punto di riferimento per la produzione e attività teatrale bolognese. Sede dell’omonimo collettivo artistico, la cui direzione è curata da Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi, è spazio di incontro e creazione, dal grande teatro, al cortile al piano terra sino ad arrivare alla caffetteria al primo piano. Ponendosi come obiettivo l’ibridazione delle culture e dei linguaggi è un’accogliente sede di residenza artistica. 

Simona Bertozzi, danzatrice e performer, vi ritorna con il progetto Athletes Bologna – prima azione, la cui restituzione al pubblico avviene il 5 dicembre.
Undici donne entrano nella sala teatrale che si trasforma presto in uno stadio: il pubblico è seduto tutt’attorno, abbastanza numeroso da creare due file di spalti. Le donne corrono a piedi nudi delineando il perimetro della sala e tendendo la mano al pubblico per ricevere forza, chiedendo di aver fede in loro durante la performance, di diventare tifosi.
Tutte diverse per età, carnagione, altezza, indossano abiti sportivi di vari colori: ginocchiere, pantaloncini, magliette, fasce e lunghi cerotti variopinti per proteggere i muscoli dopo allenamenti intensi. Si alternano in coreografie individuali e di gruppo dove sono chiari i riferimenti a sport come il lancio del martello e il rugby, alle volte sembra anche di scorgere delle posizioni da pallavolo.
C’è chi sta in panchina mentre un trio racconta ciò che lo sport può essere, ovvero performance, fatica, gioco, lotta, suono. Suoni di sforzo, di presa di coraggio, di scarica di adrenalina sono prodotti dalle stesse attrici in scena ma anche dalla traccia audio montata per l’occasione;  si insinuano tra brani originali e non che variano nel genere.

Si assiste ad un allenamento-partita, dove gli stessi ruoli e competenze di ciascuna delle donne si mescolano a tal punto da non essere riconoscibili nella riuscita coreografia che richiama dinamiche di un gioco di squadra. Il trionfo di un movimento che non ha età è celebrato dalle giocatrici quando si intona il ritornello de Il mondo di Jimmy Fontana, che appunto «non si è fermato mai un momento», proprio come loro.

Ed è in un fermo immagine, in un movimento, anche se bloccato e senza tempo, che si conclude l’azione: insieme formano la touche, azione del rugby che consiste nel sollevamento di un giocatore, da parte dei compagni, per cercare di afferrare il pallone. Un ergersi elegante e di una forza quasi ultraterrena, che vede la realizzazione proprio attraverso una comunità, che sia una squadra o un corpo di ballo.
Come spesso accade negli spazi di Ateliersì è previsto un incontro con il pubblico, che stimola un coinvolgimento grazie all’informalità che lo caratterizza. Il pubblico è commosso e numeroso resta in teatro rompendo gli spalti, avvicinando sedie e cuscini alle atlete e ai loro allenatori. Tihana Maravic, che all’interno del collettivo bolognese si occupa della progettualità e della comunicazione, media l’incontro raccontando la genesi della residenza.

Athletes è frutto di un intenso lavoro di quattordici giorni che ha visto Bertozzi lavorare con Ester Balassini e Erika Morri, ex campionesse Azzurre di lancio del martello e di rugby, le danzatrici Arianna Brugiolo, Federica D’Aversa e Valentina Foschi e le cittadine che hanno risposto alla chiamata per il progetto ovvero Adriana Bernardi, Luana Checchia, Elisa Tinti, Daina Pignatti, Marieva Vivarelli, Carolina Yerovi.

«Questo in realtà» specifica Maravic «è un episodio pilota, un esperimento di un progetto più lungo, itinerante, che vorrà poi dopo svilupparsi in altri territori con altre atlete del gesto, con altre donne». Il punto di partenza del processo artistico è un mosaico del IV secolo d.C. che si trova nella Villa del Casale di Piazza Armerina, comune siciliano: nel mosaico sono rappresentate delle donne in tenuta sportiva dell’epoca che con vari strumenti si allenano in gruppo.

La ricerca di Bertozzi verte proprio sul racconto di un corpo femminile atletico poco rappresentato nella storia, spesso all’ombra di una più celebre e convenzionale iconografia maschile. L’atletismo indagato ha più assonanze con l’idea di una padronanza del corpo più che con l’agonismo. Un prestanza fisica lontana da stereotipi fisici e di genere che vede appunto undici corpi di donna esprimersi e dialogare in gruppo e singolarmente con uno spazio, interpellati da capo a piedi, che rivendicano anche una voce, una sua sonorità.

Ne viene fuori una coreografia che non smette mai di esprimere la necessità umana di un movimento. Bertozzi:«Il mio primo innamoramento è stato la ginnastica artistica, l’atletica, il salto in alto, sono stati parte della mia formazione, poi dopo la danza ha prevalso. Comunque l’esattezza del gesto atletico sportivo è sempre stata una grande poesia, è quello che deve essere in quel momento ed è creatività nell’esattezza che va cercata e quindi sono molto affascinata da questo aspetto.
In qualche modo mi interessava capire come ritrovare un momento in cui potevo osservare una dimensione coreografica anche da un’altra prospettiva rispetto a quello che ho praticato magari in maniera più approfondita fino ad adesso e quindi questa idea di intrecciare la prospettiva, la dimensione dell’atletismo come un crocevia fra sport e coreografia e vocalità è diventato un po’ la direzione su cui andare a immaginare come pensare, come lavorare intorno a questo progetto».

® Olivia Magnani

Continua Maravic:«Per ogni artista in residenza noi di Ateliersì immaginiamo quale potrebbe essere uno sguardo da appoggiare, la figura di un tutor. Questa volta quando Simona ha cominciato a raccontare di Athletes abbiamo pensato di aprire le porte al mondo dello sport e abbiamo pensato che forse proprio un’atleta sarebbe potuta essere la scelta migliore e poi ne sono arrivate due ovvero Ester Balassini e Erika Morri, una figura di uno sport individuale e una di uno sport di squadra». Le due atlete portano in scena una testimonianza territoriale e femminile di un gesto, che ancora prima della restituzione pubblica, hanno descritto e illustrato in sede di prova; portatrici di un «vocabolario», come lo chiama Bertozzi stessa, da analizzare, scomporre e riadattare. Balassini:

«Quando ho ricevuto il messaggio da Simona per partecipare al progetto, ho pensato:”Chissà, ma sa bene quello che sta scrivendo questa donna? Lancio del martello e teatro? È colmo di pregiudizi e di stereotipi. Impossibile”. Però ho letto questo testo e incorporava una energia pazzesca e ho deciso di seguirla. Dopo ho chiamato Erika, ci siamo incontrate in un bar e siamo rimaste credo affascinate dalla magia comune di questi due mondi. Ci siamo affidate talmente tanto a questa onda energetica che non poteva secondo me non uscire qualcosa di bello, non fosse altro per l’esperienza che ci ha fatto conoscere e ci ha dato questa sintonia. Sono tornata a vent’anni fa, con questa sensazione del lancio.

Meike Clarelli (preparazione vocale e direzione del coro, autrice delle creazioni musicali originali, insieme a Davide Fasulo) ha stirato, estrapolato l’urlo del mio record italiano, l’ha tipo stretchato e ha creato musica e l’ho detto a tutti i miei compagni e compagne di nazionale:”Voi non capite niente, noi per degli anni abbiamo urlato sempre come degli animali in gabbia e invece c’abbiamo una roba dentro che solo adesso l’ho scoperta”. Sto ancora vivendo di emozioni di questa esperienza che credo che me la porterò per tutta la vita». 

Aggiunge Morri: «Faccio parte delle pioniere del rugby, siamo state tra le prime in Italia a giocare ed eravamo considerate delle pazze. Ho pensato che trent’anni fa mi hanno detto: ”Giochi a rugby? Ma va a danzare!”. C’ho messo un po’ di tempo però sono arrivata alla danza e al fatto di scomporre il rugby in danza contemporanea. La cosa che mi è piaciuta moltissimo e che ho trovato tra danza e rugby è la libertà, l’espressione della libertà c’è una cura del gesto tecnico esattamente uguale, maniacale, Abbiamo già traslato tutto, abbiamo le tre capitane, le allenatrici, è già tutto “rugbizzato”. Io sono la founder di un progetto che si chiama “Women’s Sport Land of Freedom” dove noi sosteniamo che il mindset è un grandissimo rafforzativo per la vita quotidiana e ho intervistato settanta donne da tutto il mondo chiedendo come il rugby avesse impattato nella loro vita e la stessa cosa ho fatto con le mie compagne, ho chiesto:”Come la danza ha impattato sulla vostra vita?”, e nel rugby come nella danza, la danza le ha rinforzate».

Tra collettività e coralità, Clarelli racconta il suo progetto sonoro, che vede anche lei esibirsi vocalmente dal vivo insieme alle altre durante la performance: «È stata una bellissima esperienza. Le voci di Ester e Erika hanno un bellissimo baricentro, esprimono un bellissimo principio di realtà, mi colpisce la loro sostanza, la loro densità, molto bene aderenti al corpo. Sulla coerenza dei linguaggi io e Simona ci siamo trovate molto bene.
Lei ha un linguaggio e uno sguardo sull’essere coerenti con il proprio corpo nelle geometrie dello spazio, per me questo vale sulla voce. Sono stati pochi giorni, sono state velocissime e molte delle composizioni che avete sentito hanno parti vocali, a volte ci sono proprio brani costruiti con le voci, con i respiri, siamo andati da Vivaldi alla techno. Simona che è una grande contemporanea ama profondamente l’ibridazione. Anche io amo l’ibridazione perché quando il contemporaneo è troppo contemporaneo non racconta più una storia per me, rimane nell’astrazione concettuale e in questo lavoro dove c’è una ibridazione, innesti tra danza atletismo e gesto portato dai corpi indipendentemente dalla loro postura e collocazione professionale, per me è meraviglioso».

Le tre danzatrici si sono ritrovate unanimemente nella possibilità in questo progetto di azzerare la loro tecnica, di dimenticare il loro corpo allenato per crearne un altro, a servizio del gesto della sportività. Ciò che però le ha più intimorite è stato l’aspetto della vocalità che, una volta imparato a padroneggiare:«ci ha aiutato tutte a usare invece la voce come un qualcosa di potente e di necessario e non decorativo, qualcosa che era proprio necessario nel gesto e non dà paura, ma anzi dà forza».
Anche le partecipanti al laboratorio sono invitate a condividere la loro esperienza da neofite e una di loro aggiunge un tassello necessario:«Un interesse, una passione, uno scoprire quanto mettere in gioco le proprie capacità nella maniera più semplice ci ha permesso grazie a tutte loro di venir fuori.
Sentire e abbracciare un’idea di stare insieme, di fare delle cose insieme, di voler trasmettere un pensiero, qualcosa che viene più dall’anima che dal movimento e questo ti permette probabilmente di metterti in gioco anche con i propri limiti, le proprie capacità. Il desiderio di dire qualche cosa attraverso il corpo, come ne sono capace io».

Elizabeth-Spattini: il potere è donna?

Elizabeth-Spattini: il potere è donna?

All’interno della programmazione di quest’anno dell’Emilia Romagna Teatro Fondazione, va in scena Elizabeth I – Sorry for what? della danzatrice Giulia Spattini, membro permanente della compagnia Balletto Civile, allestimento inserito nella rassegna Carne focus di drammaturgia fisica. 

La data del debutto avviene il 23 novembre e le repliche si protrarranno sino al 26, nel Teatro del DAMSLab, spazio satellite del Dipartimento delle Arti di Bologna, al cui interno si svolge,  a fianco  delle normali lezioni curriculari,  un programma fitto di incontri ed iniziative con artisti e accademici di tutti i linguaggi e le culture. A danzare con Giulia Spattini c’è  Paolo Rosini,  a lungo suo collaboratore oltre che membro della compagnia di Balletto Civile, anche lui coreografo e danzatore, che contribuisce al cantiere drammaturgico dello spettacolo. 

Il perimetro della scena è tracciato da uno scotch rosso, delimitando il quadrato di un ring. Appare Elizabeth al centro, illuminata da un occhio di bue. È in tenuta da boxeur, con tanto di stivaletti e guanti a fascia, eppure il tessuto della camicetta a collo alto tradisce una certa regalità, come il trucco e la pettinatura. 

Con in bocca il paradenti legge qualche riga dal suo quaderno. Una citazione, tratta da Donna vuol dire natura selvaggia di Abi Andrews (Atlantide, 2020): “La selvatichezza appartiene esclusivamente al maschile, capace anche di domarla; su una donna è sintomo solo di follia”. Rivolge mute occhiate di complicità agli invisibili spettatori, che non possono trattenere le risate a commento di affermazioni così retrograde. 

© Barbara Carioli

Conclusa la lettura ripiomba nel buio e ancora, per qualche istante, è visibile soltanto in piccoli fermi immagine, intervalli dal buio sempre schiariti da occhi di bue. Si guarda intorno mentre dalla quinta di destra arriva un uomo in tuta, la maglietta con il logo rivisitato della cover del singolo dei Sex Pistols, God Save the Queen, un cappello con sotto una lunga parrucca, un asciugamano intorno al collo. 

Inizia una danza-allenamento, in sottofondo le originali composizioni di Guido Affini, unite a sonorità di musica da camera dell’epoca, al celebre inno inglese e al rumore degli stessi performer e degli oggetti in scena. Entrambi sono microfonati e il suono dell’esercizio fisico e della borraccia che si lanciano per affinare i riflessi è amplificato e in delay.

Le luci (Francesco Traverso) che circondano la scena ricordano quelle di un incontro di pugilato, sottolineandone l’epicità. Elizabeth non smette di guardarsi intorno, di guardare l’allenatore che non sembra ricambiarla, intento a forgiarla, a ricordarle un dovere. L’uomo si prende una breve pausa sedendosi sulla sedia azzurra capovolta, posizionata in fondo alla scena a sinistra: è proprio un trono. 

La donna, dopo aver riproposto i passi specularmente nel duetto-allenamento, si scatena in un vero e proprio monologo, dapprima verbale, citando un celebre discorso alle truppe tratto dal film Elizabeth: The Golden Age (Shekhar Kapur, 2007), per poi passare a un linguaggio corporeo. Si sfoga in ampi movimenti, spaccate, in cui sembra invano di voler affermare il suo volere, scrollandosi di dosso la coreografia che dovrebbe insegnarle a regnare. 

Deve di nuovo intervenire l’allenatore che la prende di peso, la rivolta, ne fa un corpo inerme da rigirarsi intorno e infine, dopo non poche lotte, la fa sedere, proprio nel luogo in cui deve stare. Sulla sedia azzurra la spoglia della sua tenuta da boxeur, giusto il tempo che Tenco impiega  a cantare la sua Una vita inutile. Elizabeth ormai stanca rimane in mutande, il seno coperto da una fascia reggente, lo sguardo interrogativo, pronto a recepire tutto ciò che è intorno a lei. L’allenatore la porta di nuovo al centro della scena, le luci si spengono, ne rimane solo una fioca su di loro. 

Dalla sua borsa sportiva tira fuori un sinistro ed ampio vestito nero di un tessuto ambiguo, che le infila dalla testa, come successivamente una cuffia altrettanto nera, che le nasconde la capigliatura, rendendola un’unica inquietante figura. Un poco di cipria ed è pronta. L’uomo esce di scena mentre Elizabeth si palesa effettivamente come regnante, ritornando frontale rispetto agli spettatori. 

Dopo poco sempre dalla quinta di destra un uomo completamente nudo lentamente giunge dietro di lei subito scomparendo. Finalmente l’incoronazione: Elizabeth avanza ma questa volta sembra elevarsi, cresce a dismisura, tenendo l’ampia e lunga gonna tra le mani sembra una montagna. Nella fioca ed epica luce di una ascesa, il suo capo viene decorato da una regale corona composta dalle sue stesse dita intrecciate. Da ora in poi niente sarà più come prima: lei non sarà più come prima.

È lungo e caloroso l’applauso che accoglie i danzatori alla fine della performance, tra le file stretti amici e collaboratori e semplici spettatori; c’è anche una scolaresca. Come in altri appuntamenti è previsto un incontro e scambio con gli artisti, aperto anche al pubblico. Questa volta con la presenza di un mediatore ovvero Maria Luisa Villa, per conto di ERT. 

Spattini è da quasi due anni ormai che dedica il suo studio alla mitica figura di Elisabetta I.  All’inizio era nato come un solo di una decina di minuti, il primo di tre piccoli atti, come tre sono i round che scandiscono un incontro di boxe. Con Alessandro Pallecchi Arena, altro storico componente di Balletto Civile, giunge ad un’altra conclusione ovvero «inserire un lavoro di relazione. Ci è venuta l’intuizione di avere la figura di questo allenatore-coscienza» ovvero Paolo Rosini. Continua Spattini: «Abbiamo lavorato insieme per tanto tempo e abbiamo una complementarietà molto interessante per la scena. Io ho una forza, un’energia maschile molto forte e lui ha una forte energia femminile, una grazia del movimento molto interessante e quindi è stato abbastanza naturale decidere di rendere questo lavoro non un solo ma un duetto». Dal loro discorso scaturisce l’immagine di «un rapporto atleta-allenatore», di un processo di crescita e di consapevolezza che sicuramente non si conclude, nel momento in cui l’analisi scenica è pregna di umanità. Michela Lucenti stessa definisce la coreografia «una presa di coscienza».

Perché proprio Elisabetta I? «L’ispirazione di solito non è sempre filologica. Credo che in questo caso sia proprio la fascinazione per una figura femminile così forte di un certo passato, che ha saputo mantenere un potere che in quel momento nessun uomo le avrebbe mai legittimato. 

Lei l’ha avuto nella casualità della successione, le è successo di ereditare questo potere e definirlo in rapporto al suo essere donna, pagando ovviamente un prezzo  molto alto: hanno provato ad ammazzarla, hanno provato a farla sposare con tutti i principi, duchi che c’erano intorno per toglierle questo potere ma lei ha trovato un modo per lottare e per mantenerlo. 

Quindi ho trovato sempre molto affascinante la sua figura e forse era arrivato il momento di usarla per parlare di una cosa che secondo me è estremamente contemporanea che è il rapporto della donna con il potere. Abbiamo un ideale del potere che chiaramente storicamente è un potere maschile e abbiamo molta poca esperienza di che cosa significa il potere femminile. Quindi cosa significa gestire un potere? Ci trasformiamo necessariamente in dei mostri nel momento in cui dobbiamo gestirlo? Sono tutte domande e lo spettacolo ne ha create altrettante. E questo significa che il materiale è interessante».

Sviluppare il personaggio di una donna regnante di metà Cinquecento difficilmente può prescindere da un discorso di genere, da una egemonia maschile sulla stessa rappresentazione e creazione di una donna potente. Così è complicato per una parte degli spettatori non leggere tutta la parabola drammaturgica del personaggio dell’allenatore come un costante sguardo maschile che plasma, che sottomette e che quindi è il solo a poter legittimare. D’altronde è grazie a lui che Elizabeth diventa montagna al termine della pièce, seppur nudo, invisibile sotto l’ampia gonna. 

È un fraintendimento che Spattini fa presto a correggere :«Nell’idea originale lui non dovrebbe vedersi. [..] Se è lui a sollevarla è perché io e lui siamo la stessa cosa. [..] Abbiamo lavorato su dei personaggi e chiaramente ciò rende ambiguo in alcune parti dello spettacolo il rapporto tra me e lui, [..] per noi l’ultima scena è chiarificatrice in questo senso: questa unione, questo allenamento alla presa di posizione. [..] Elisabetta è una figura femminile con una componente maschile molto forte tant’è che nella sua storia lei rinuncia a sposarsi, ad essere madre, rinuncia ad una componente femminile molto importante e quindi ha una componente maschile legata alla sua figura di potere. 

[..] Mi sono chiesta: “Forse sarebbe meglio un’altra donna? No”. Secondo me era giusto che la figura maschile ci fosse proprio perché se noi pensiamo che io e lui siamo lo stesso essere, all’interno c’è sia la componente maschile che quella femminile, quindi per noi era importante che non fossero due uomini o due donne, ma che fossero un uomo e una donna. Però ovviamente io sono una donna e sono vestita da donna e lui è un uomo ed è vestito da uomo, quindi questo anche solo a livello visivo e di percezione è inevitabile che possa creare la domanda sul loro rapporto. [..] L’obiettivo era di creare una personalità liquida, al di là della definizione dei personaggi, a favore della nostra particolarità come interpreti: essere alti uguali è fondamentale, è un’idea di parità e ciò crea anche un’immagine esterna che ci aiuta a lavorare in questa direzione».

Spattini Elizabeth I se la immagina così: «Una grande lottatrice nella sua epoca, una che ha lottato, […] una che si è battuta parecchio per restare lì dov’era», inscindibile dallo spazio di un ring. Dove il ring non simboleggia soltanto una corte cinquecentesca piena di insidie, ma un contemporaneo status quo che esige, con o senza gli strumenti di una tradizione maschilista, di essere qualcuno. La pena? Una vita inutile, come diceva proprio Tenco. Che il potere allora sia un’aspettativa più che una sincera presa di coscienza? Se fosse la stessa parola potere che tutti noi dovremmo rifuggire, nell’intimo dei discorsi tra noi e il nostro allenatore-coscienza?