Lo spazio del silenzio, le donne di Ginzburg per Deflorian

Lo spazio del silenzio, le donne di Ginzburg per Deflorian

Dal 31 ottobre al 5 novembre, all’Arena del Sole di Bologna è andato in scena Diari d’amore, la prima prova teatrale di Nanni Moretti che rispolvera a teatro due esempi del corpus drammaturgico di Natalia Ginzburg. Sceglie Dialogo del 1970 e Fragola e panna del 1966 per riaccendere l’attenzione su una drammaturga d’eccezione, grande innovatrice della lingua drammatica italiana.

Nei due pezzi il cast si mescola agitandosi tra le mura domestiche, confusi sui loro sentimenti perché troppo pieni di debiti o impegnati a salvare la dignità borghese. Il talamo viene dissacrato tra le sue stesse lenzuola e a queste si attaccano uomini e donne soprattutto, che sembrano aver dimenticato di avere un cuore.

Dialogo vede una coppia nella sua routine sin dalle prime ore del mattino, che in poco tempo si disintegra e si rimette insieme, perché alternative sembrano non esserci. Le voci si moltiplicano in Fragola e panna dove una visita inaspettata turba un precario equilibrio di un altro fantasma di una coppia.

Sono personaggi inetti, allucinati dall’Italia della seconda metà degli anni Sessanta, che promette e conquista (forse) un progresso economico e sociale di cui però non tutti riescono ad appropriarsi. Ed è su queste donne che l’attenzione drammaturgica di Ginzburg si pone. Ne abbiamo parlato con l’interprete di Tosca in Fragola e panna ovvero Daria Deflorian, attrice, autrice e regista teatrale.

Ginzburg a teatro c’è capitata per caso, subito dopo aver dichiarato nella celebre inchiesta su Sipario del maggio 1965 di non riuscire a prendersi sul serio nella scrittura di una drammaturgia. Insieme a tanti altri accusava il teatro italiano di non avere una lingua e effettivamente riesce a rinnovarla, la rende viva sul palcoscenico e anche divertente. Quale è il suo rapporto con l’autrice e da attrice, ma anche da autrice e regista, cosa vede nei suoi testi, che risentono molto della sua provenienza dalla prosa?

Daria Deflorian: Non conoscevo bene Natalia Ginzburg. È stato un viaggio recente e interessante legato a questa produzione. Avevo un preconcetto nei suoi confronti, come se si trattasse di una cosa un po’ salottiera, come se fosse un teatro poco impegnato. Invece studiandola ho scoperto una figura molto interessante, da leggere assolutamente, prima di tutto per la sua lingua.

Il teatro non è la sua vocazione però proprio per questo, proprio in queste “rotture grammaticali” lei oggi ci può parlare. Sono testi brevi, non vogliono avere la compiutezza del testo articolato in più atti, sono quasi (e questo li avvicina un po’ anche a quello che faccio) dei racconti teatrali, degli scenari sì, ma scenari prima di tutto narrativi dove si usa la trama come una specie di ponte sospeso tra chi scrive e chi ascolta, per dire altro.

L’assenza di didascalie è un altro tratto fortemente narrativo: non c’è una descrizione dei personaggi, non ci sono annotazioni che raccontano reazioni, toni. Domenico Scarpa, che ha curato l’opera della Ginzburg, quando ha visto una prova ci ha fatto notare che c’è sempre un momento più avanti nel testo in cui quella figura dice qualcosa che spiega perché prima ha detto o fatto un’altra cosa, e che quindi ci sono righe che si possono leggere come “didascalie segrete”.

E un’altra cosa interessante che ci ha detto Scarpa è che per la Ginzburg ci sono “le randagie”, come Barbara (Arianna Pozzoli) in Fragola e panna, donne libere da una parte, perse dall’altra, poi ci sono le donne che restano, quelle che – questa è una definizione mia – sono “inchiodate”, come Flaminia. E mi sembra di poter dire, ci sono infine quelle che pur rimanendo hanno lo spirito di quelle che se ne possono andare in ogni momento, sono quelle del futuro, sono noi oggi, quelle che non hanno bisogno di diventare randagie per trovare una propria strada.

E per me Tosca, la serva, orgogliosa di esserlo, è una donna un po’ così, una che se non si trova se ne va. Capace di mettere al mondo una figlia da sola. Di ridere e protestare.

Diari d’amore è composto di lettere dal carcere che sono le relazioni. Marta (Alessia Giuliani) di Dialogo rifiutata dall’amante, che simboleggiava la sua realizzazione e la sua libertà, torna dalla malsana sicurezza che le infonde il marito Francesco (Valerio Binasco). Flaminia (sempre Alessia Giuliani) di Fragola e panna non riesce ad abbandonare il tetto coniugale seppur separata. La prospettiva di vita di questi personaggi è agghiacciante. Che fine fa l’amore? Di questo è fatto l’apparente ineluttabile destino femminile?

DD: A questa domanda dovrebbe rispondere Moretti, è lui che ha dato questo titolo, quindi io posso solo dare una mia impressione alla scelta di qualcun altro. Quello che mi piace della Ginzburg è che fa vedere le relazioni amorose oltre l’innamoramento, nella loro difficile tenuta.

Di quel tentativo di durata mostra la complessità, le contraddizioni, i piccoli e grandi orrori quotidiani. Ma fa intravedere meccanismi che potrebbero essere evitati o ribaltati. Nelle figure di Marta e di Barbara vediamo innamoramenti che fanno intravedere cambiamenti di vita che poi non avvengono, desideri di ribaltamenti che invece procurano dolore, delusione, risultati molto opposti a quelli cercati perché si è proiettato sull’altro qualcosa che in realtà va risolto personalmente.

Quello che manca a Barbara è una solidità, un “senso di sé”, lei dice «A me non ha insegnato mai niente nessuno, come faccio ad essere responsabile rispetto a mio figlio?». Come spezzare questa catena di non responsabilità e prendere in mano la propria vita? La Ginzburg si ferma sulla soglia, mostra baratri e non fa intravedere salti fuori dal cerchio, noi oggi sappiamo quanto possono fare le donne sia nel privato che in una dimensione pubblica, ma quelli erano anni in cui raccontare la realtà delle donne aveva ancora quelle sfumature. Quindi, in sintesi, certo, è un testo malinconico, sono diari d’amore non realizzati.

® Luigi De Palma

La fotografia della locandina dello spettacolo è composta da sguardi: quelli di Flaminia e Letizia (Giorgia Senesi) e di Valerio Binasco (che interpreta anche Cesare, il marito di Flaminia) che si intercettano, poi c’è Moretti che guarda apparentemente Tosca che insieme a Barbara sono le uniche che si rivolgono dritte negli occhi dello spettatore. Tosca si definisce sempre una serva, non una signora, mentre Barbara è praticamente una bambina gettata nel mondo terribile degli adulti. Date queste premesse non sembrano salvarsi dalla disperazione degli altri personaggi femminili eppure, come hai anche sottolineato tu prima, c’è una alterità. Cosa hanno in comune questi due tipi? E durante la lavorazione, voi due interpreti avete percepito lo stesso legame invisibile?

DD: Nella sua apparente casualità questa fotografia racconta qualcosa che ha a che fare forse anche con un tipo di teatro abitato e frequentato. Non so per Arianna, ma io sono abituata da sempre a rompere la quarta parete, a triangolare il dialogo includendo anche il pubblico. Questa quarta parete in Diari d’amore è assolutamente rispettata: il pubblico guarda una realtà che è altrove.

Ma credo che l’allenamento di anni favorisca un respiro ampio in cui quello che avviene è fatto con il pubblico e non solo per il pubblico. Poi rispetto alla figura interpretata da Arianna Pozzoli credo si aggiunga una sintonia tra figure, non a caso l’unica carezza che Barbara riceve in tutto il suo cercare un appoggio è Tosca a dargliela.

Le altre due donne la aiutano ma non la toccano. Poi per fortuna la Ginzburg non idealizza nessuna figura, per cui anche Tosca ha i suoi inevitabili, umani limiti: si preoccupa per Barbara, però di fronte al fatto che ha cucinato una buona pizzaiola subito questo cancella in un attimo la sua empatia. Non si salva nessuno anche se le differenze ci sono.

Sono drammaturgie scritte da una donna su dei personaggi femminili che non riescono ad essere indipendenti, a stare da sole, a valere qualcosa. Per l’epoca era lo specchio di una comunità femminile che arrancava a stare dietro al progresso dei costumi e dei diritti civili perché troppo pesante l’eredità di un femminile succube, vecchio di secoli. Adesso a che donne parla questo testo? Siamo ancora in quella fase di mezzo?

DD: Per fortuna assolutamente no. Non lo era nemmeno la Ginzburg che le scriveva. Anche se sicuramente la crescita non è mai paritaria, per cui ci sono luoghi del mondo, condizioni, storie singole che sono a quel punto se non ancora più arretrate. La crescita, i miglioramenti non sono distribuiti in maniera uniforme.

Sì, ci sono delle avanguardie, ci sono delle dimensioni diffuse e poi ci sono delle situazioni che purtroppo non cambiano, che continuano a essere complesse e irrisolte. Ci può essere la violenza di un marito che ti stringe le mani attorno al collo, ma c’è anche la violenza di un marito che ti dice: «Non è possibile, come ha fatto a innamorarsi di te? Te non sei bella, quell’altra sì che è bella», anche quella è violenza.

La violenza apparentemente gentile di Francesco nei confronti di Marta è un esempio della violenza che, ahi noi, serpeggia in tante relazioni. Una violenza che avviene ogni giorno in rapporti che vengono definiti intimi, tra persone che considerano intimità il calpestare lo spazio dell’altro, ma questa non è intimità.

L’intimità è quel luogo dove io elevo l’altro, ma lo vediamo, viviamo in un mondo feroce che ha eternamente bisogno di crescere. È un problema stare insieme, è un casino rispettarsi anche tra persone apparentemente evolute. Cesare e Flaminia sembrano una coppia “moderna” ma tra loro c’è qualcosa di mostruoso.

La vicenda nel testo mostra un caso tipico di un’Italia prima della legge sul divorzio, ma racconta più in profondità di un disimpegno verso l’altro, di una mancanza di responsabilità all’interno di una relazione. Nanni Moretti è stato molto attento a non fare chiavi di lettura univoche: ha cercato di lasciare che fossero le parole a parlare.

Ce l’ha detto tante volte: stare nel testo in modo che le parole respirassero delle diverse complessità della situazione. Ma certo, personalmente penso che noi non siamo più quelle donne, ma le abbiamo nel nostro dna emotivo. Essere donna oggi è una risorsa in più, non perché siamo migliori ma perché abbiamo sofferto di più. Non solo individualmente, ma a livello culturale noi veniamo da una lunga storia di sofferenze. Mi auguro che il femminile non perda questa sensibilità nel trovare spazio nel mondo e nel prendere posizioni di potere. Che non perda il silenzio, la pura comprensione, il tempo del non fare, risorse che abbiamo sviluppato perché non avevamo alternative ma che rimangono risorse.

Frankenstein dei Motus: rivendicare la mostruosità

Frankenstein dei Motus: rivendicare la mostruosità

Lo spettacolo Frankenstein della compagnia dei Motus rianima la trama e la struttura del celebre romanzo del 1818 di Mary Shelley adattandolo alla contemporaneità attraverso l’operazione drammaturgica di Ilenia Caleo.
A muoversi in scena sono le tre prospettive di Shelley (Alexia Sarantopoulou), di Victor Frankenstein (Silvia Calderoni) e della Creatura (Enrico Casagrande) alternandosi in uno spazio in costante metamorfosi, ma che mantiene una razionalità coerente. 

Due grandi teli traslucidi diventano leggerissimi, manovrati a piacimento per costruire i diversi ambienti in cui si svilupperà la trama. L’azione è suddivisa in veri e propri capitoli, la cui nomenclatura viene proiettata con un numero e un’epigrafe estratta dal romanzo su un altro telo opaco, al centro tra i due. 
Ogni personaggio, attraverso il  suo percorso narrativo che supera la trama del romanzo, sono dei caratteri paralleli tra di loro ma autonomi. Sul palcoscenico in basso a destra campeggiano le iniziali della scrittrice, sembrano plasmate  nel ghiaccio, una firma su un quadro. 

Sarantopoulou fin dalla sua entrata in scena dissacra le lettere sgranocchiandole: al termine dello spettacolo non saranno più visibili. 
La scrittrice viene colta mentre annota suggestioni sulla sua futura opera, inforcando  un paio di occhiali.  Shelley/Sarantopoulou disegna lo scienziato e la sua mostruosa progenie, venute fuori dalla sua giovane immaginazione, reclusa in un corpo di donna dell’Ottocento, nati durante un ritiro con il marito ed altri celebri autori dell’epoca. Scomparendo dietro le quinte lascia spazio   alla viva voce di Frankenstein e della Creatura, che abitando lo spazio iniziano a raccontare la loro storia. 

Prendono piede suoni di tempesta, pioggia, vento, di una natura che pare ribellarsi all’empietà del gesto dello scienziato, che gioca a fare dio. Le luci si spengono nel momento in cui la la storia assume  tinte di un atto d’amore, che scaturisce dall’atto della creazione.
Shelley si spoglia delle sue vesti leggere e provocanti, mostrando il suo corpo nudo per poi ingessarsi un’ampia gonna verde smeraldo con le maniche a sbuffo. 

© Ilaria Depari

Dietro a quest’armatura ottocentesca  si cela: un corpo nudo con indosso dei pesanti stivali neri, nella solitudine di un maniero che non c’è, a fare i conti con la sua fervida fantasia che la società tenta di imbrigliare. 
Shelley è ossessionata da sogni e dai immagini di una femminilità generatrice che ripudia programmaticamente. Ad essere rivendicata è una forza creatrice altra,Mary aspira a qualcosa di più grande perché sa di averne le capacità. Un compito gravoso, quello che si autoimpone  e che  deve fare i conti con una società che si aspetta ben altro da lei, di certo non un mostro, non un romanzo.

Frankenstein in scena spinge oltre i suoi sogni di creazione, Silvia Calderoni si presenta al pubblico con la maschera di Boris Karloff, imitando la classica camminata spezzata del mostro. Fa qualche metro, saluta il pubblico che ride della tenerezza dell’immagine e con un brusco movimento del busto se la sfila senza mani. 

Anche Frankenstein è ossessionato, dalla possibilità di un’altra via, di un altro tipo di creazione: tante membra che creano un corpo solo, che lo scienziato trasfigura nelle notti negli obitori, tra le lapidi dei cimiteri, per ritrovare la vita in corpi inermi. 
Ma proprio come un bambino, una volta dato alla luce il frutto dei suoi macabri incubi lo abbandona. Non stanco, ma terrorizzato dallo stesso fuoco che lui ha donato agli uomini. Il suo corpo e la sua voce sono in perenne fremito, mentre disseziona cadaveri, aziona ragni meccanici, percorrendo tutto il perimetro del palcoscenico, per poi accasciarsi al centro In fuga dalla sua creatura che lo perseguita.

C’è chi il proprio nome se lo mangia, c’è chi non lo possiede nemmeno. La Creatura compare finalmente alle spalle dello scienziato che trema di paura,. Il suo desiderio tutto umano di scorgere la mostruosità, magari tra le dita della mano che nel frattempo copre lo sguardo, non verrà saziato. 

L’alterità allora si traduce in una inquietante figura tutta avvolta da una specie di palandrana che si fa strada nel gelido ambiente. La voce di Casagrande sembra giungere da un abisso di curiosità e di sofferenza. 
Il telo di destra diventa una piccola grotta di ghiaccio dove la Creatura si rifugia dall’umanità che lo ha generato, istruito, educato e ripudiato. Racconta la sua storia di solitudine che nasce da una necessaria presa di coscienza delle leggi che regolano la società: potere e bell’aspetto sono i lasciapassare per una vita soddisfacente nella collettività. 

La consapevolezza di non essere stato creato  era per rientrare in quegli stessi canoni, non riesce a toglierle la voglia di ballare,  indossando la solita maschera, con un grande girasole tra le mani. 
La mostruosità di questa Creatura è solo da immaginare, andando oltre la vivida realtà del corpo nudo di Casagrande. Le cuciture, i bulloni, il patchwork di carne da cui è composta nell’immaginario fantascientifico non sono sempre a vista, anzi, quasi a suggerire un’alterità celata e condivisa. Frankenstein (a love story) è la storia di una gestazione, della metamorfosi che il corpo ospitante subisce. 

La genesi  di un’idea, di una creazione artistica da cui scaturisce  un essere vivente. La creazione è un atto d’amore, l’alchimia di due geni che ne creano un terzo unendosi. Shelley-Sarantopoulou conosce l’equilibrio fra fascino e disgusto che caratterizza il momento della nascita , mentre attacca al seno la maschera in plastica di Karloff. 
In uno spazio senza tempo i Motus creano un altro essere umano, la Creatura, un perfetto Adamo (o forse Eva) della nostra contemporaneità. spermatozoo e utero, papà e mamma non esistono più, lasciando spazio ad una disforia che si scopre essere la forza di questo futuro superuomo. 

L’umanità riparte dalla voce profonda di Casagrande che chiede allo scienziato altri suoi simili per formare una comunità. Sorge un’alba alle spalle di Sarantopoulou, mentre al centro del palco siede per terra con le gambe aperte, ricordando l’Origine del mondo di Courbet 
Il pubblico accoglie con un caloroso applauso gli interpreti alla fine della messa in scena.  Silvia Calderoni con un piccolo gesto del braccio presenta la maschera di gomma della Creatura abbandonata sul palcoscenico. Lasciando anche a lei il meritato riconoscimento.