Femina – Abbondanza Bertoni: restituire lo sguardo sulla condizione femminile

Femina – Abbondanza Bertoni: restituire lo sguardo sulla condizione femminile

La compagnia Abbondanza/Bertoni conferma la sua presenza al Festival Mosaico Danza Interplay con il suo ultimo lavoro, Femina, presso la Casa del Teatro Ragazzi e Giovani di Torino. Lo spettacolo è il secondo episodio del progetto triennale della compagnia sull’identità (Io è un altro) ed è stato nominato nella categoria di Miglior Spettacolo di danza del premio Ubu. 

Il titolo è già un manifesto: femina, feminae è il sostantivo appartenente alla prima declinazione latina, e come, la declinazione che esprime le funzioni logiche di un nome e le cui desinenze individuano le varie forme che quel nome può assumere, Femina è a tutti gli effetti uno spazio di traduzione di possibili profili e denominazioni del femmineo propri del mondo contemporaneo.

In una platea ancora pienamente illuminata, ad una ad una le quattro danzatrici (Sara Cavalieri, Eleonora Chiocchini, Valentina Dal Mas, Ludovica Messina Poerio) riempiono lo spazio bianco e spogliato da ogni riferimento e connotazione. Le performer indossano una parrucca biondo platino, chiaro rimando all’iconico caschetto di Raffaella Carrà, e più strati  accumulati di biancheria intima color carne. 

Lo spettacolo ha origine dal gesto dell’applauso a rievocare quello tipico del pubblico, che, per lo più, sancisce invece il termine di una rappresentazione teatrale. Poi le luci si affievoliscono e, a poco a poco, l’atto, insieme con il suono prodotto, sfumano fino a scemare.
Qui, il battito di mani è sottratto dal suo significato di celebrazione e di consenso e prepara lo spettatore alla progressiva de-significazione dei corpi, a cui sta andando ad assistere. 

Femina
© Andrea Macchia

Lo sguardo delle danzatrici è vitreo, fisso verso gli astanti, ideato programmaticamente da Antonella Abbondanza e Michele Bertoni per far sperimentare al pubblico la condizione che il corpo femminile subisce costantemente. 
Questi occhi inscenati non sono altro che la restituzione di uno sguardo concreto e quotidiano che la donna sente su di sé. 
Uno sguardo che contiene giudizi e pretese culturali  e sociali che, nonostante costruite e indotte, sono spesso credute un riflesso naturale. 

I corpi assumono movenze meccaniche e pulsanti, accompagnate dai suoni sintetici dell’ album Dysnomia di Dawn of Midi, che aderiscono con armonia a tutta la coreografia. Il movimento è serrato e continuo e da esso scaturiscono gestualità minime e precise per l’intera durata di 50 minuti. Dalla scrittura coreografica, per lo più in sincrono, nascono alcune lievi sfasature, attraverso un canone o un piccolo momento solistico. Nel momento in cui una delle danzatrici sembra rompere l’unità in una di queste azioni individuali, le altre tendono quasi sempre a riassorbirla, come a dimostrare che quella deviazione, seppur concepita nella partitura, non è fino in fondo realizzabile.

Nella coreografia si susseguono gestualità femminili e tipiche (almeno per la società contemporanea) del suo bagaglio di movimenti: controllare la carne in eccesso su braccia e gambe; la camminata tipica del runway inframmezzata da cadute goffe e de-femminilizzanti; sorrisi oltremodo forzati, che inevitabilmente si situano in contrasto con uno sguardo pungente e fisso. Gioia, sofferenza, gioco, alienazione, resistenza e bellezza si alternano, sovrapponendosi. 

Femina
© Andrea Macchia

«Abbiamo voluto creare piccole azioni, gesti e partiture che fossero una scrittura del femminile nella nostra società a rigenerarsi e generare bellezza anche all’interno di queste precondizioni costringenti e alienanti». 

Sul finale, le danzatrici lasciano la scena e un profondo taglio verticale che ricorda le tele di Lucio Fontana si apre al centro del fondale, donando al pubblico la visuale di una slabbratura erotica, ma anche la possibilità di fendere, seppure solo materialmente, questa condizione ancora invariata e invariabile. 

Femina evoca l’impossibilità di ogni abbozzata ribellione, come se, per queste giovani, la meccanica dell’imposizione sia emanata da e per loro stesse. Smarrendo l’idea di emancipazione finisce per perdersi  anche la possibilità stessa di individuare ogni forma di coercizione. Un abbozzato sentore di collera sembra affiorare sulle battute finali del lungo quadro coreografico caratterizzato dalla svestizione ironica di parte della lingerie, fatta roteare a tempo di musica o messa in bocca quasi a volerla celare. 

Femina è una scrittura corporea dell’idea del femmineo insito nella società occidentale odierna. È denuncia e celebrazione del ruolo della donna e del suo corpo, troppo spesso osservato, abusato, giudicato.

Cecità di Virgilio Sieni al TPE per una rieducazione alla vista

Cecità di Virgilio Sieni al TPE per una rieducazione alla vista

Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che, pur vedendo, non vedono.

J. Saramago

Cecità è la nuova produzione di Virgilio Sieni che ha debuttato nella sua prima assoluta, con sei repliche, nell’omonima stagione 2023/24 del TPE, presso il Teatro Astra (Torino). Lo spettacolo rimanda liberamente al romanzo premio Nobel di Josè Saramago in un invito alla ricerca di una nuova vista, di rinnovate lenti con cui vivere il mondo. 

Quando l’intera umanità viene improvvisamente colpita da un virus che rende tutti ciechi è necessaria una rieducazione alla vista, a un nuovo modo di sentire.

Le luci della platea si spengono e dietro ad un telo bianco del proscenio si manifestano una prolungata serie di macchie cromatiche e illusioni ottiche dai colori rosso, giallo e blu, riproducendo quell’effetto di fotofobia per l’occhio di chi osserva. 

Accanto a questi giochi di luce, fanno la loro comparsa differenti ombre tra cui è possibile individuare figure umane ed oggetti (delle forbici, una valigia, un banco per una citazione del romanzo di Saramago). In questo puntuale disegno luci di Andrea Narese si susseguono ombre e figure incomplete, sempre in movimento.

Quando il telo si alza, dietro se ne svela un altro interamente velato, che sfoca e confonde l’intera visione. Così, appaiono i sei corpi degli interpreti (Jari Boldrini, Claudia Caldarano, Maurizio Giunti, Andrea Palumbo, Emanuel Santos, Lisa Mariani) in uno spazio chiuso da larghi tendaggi, ancora bianchi. 

La scena che si presenta restituisce un paesaggio apocalittico, con vestigia di corpi sparsi a terra, accovacciati, arresi. Le prime movenze del corpo proposte tentano di restituire l’incapacità dell’essere umano di esistere, di stare in piedi, in una danza franta e tendente sempre al suolo, accompagnata da lamenti. In questa seconda parte dello spettacolo, viene restituita tutta l’inquietudine di chi si è perso, buttando un occhio a quel cannibalismo indotto nel romanzo di Saramago. 

La terza porzione che chiude Cecità introduce sulla scena la figura di un Arlecchino completamente bianco e senza volto: una lunga asta in mano che termina con un microfono che, risuonando nello spazio circostante, raccoglie senza precisione rumori fastidiosi di un mondo che non ci è possibile vedere

® Andrea Macchia

Immediatamente, la figura carnevalesca viene circondata da animali, di cui è possibile intuire la vittoria sulla specie umana attraverso la persistenza del personaggio sulla scena con cui cala il buio. Le tre sezioni di Cecità si presentano divise e autonome, prive di continuità narrativa, come tre capitoli di uno stesso poema ma a cui mancano fondanti connessioni drammaturgiche. 

In questa danza di Virgilio Sieni il corpo e le sue parti divengono il punto di ripartenza per un percorso di iniziazione al gesto: si procede con un lento camminare e strisciare, per poi  usare le mani libere per toccare, per vivere, per interagire con l’altro. A cosa serve dunque vedere? Cecità cerca di dare forma a questa domanda in uno spettacolo dove i corpi cercano gesti nuovi, toccano lo spazio e ne sono toccati, ascoltano tracce e onde sonore che vagano nell’aria. In quel mare di latte nel quale sono costretti, gli esseri umani riscoprono la propria natura e comprendono di essere ancora vivi. In che modo? aprendo semplicemente gli occhi tutte le volte che vorranno vedere di nuovo.

PeepingTom chiude Torinodanza con una perfetta dicotomia tra ironia e trauma

PeepingTom chiude Torinodanza con una perfetta dicotomia tra ironia e trauma

Per le serate conclusive del 24 e il 25 ottobre 2023 Torinodanza, in collaborazione con il Festival delle Colline Torinesi, ha ospitato la prima nazionale della compagnia belga PeepingTom con la produzione S 62° 58′, W 60° 39

Quando il sipario si alza lo spettatore si trova di fronte ad una scena apocalittica: un veliero, di cui è visibile solo la poppa, giace incagliato nel ghiaccio, presso Deception Island (Isola della Delusione), luogo a cui corrispondono le coordinate GPS riportate nel titolo. Un uomo tenta invano di spostare la carcassa, un bambino in canotta e pantaloncini si fa cullare da questo moto, qualcuno pesca con una canna che si agita al ritmo di note classiche, una donna viene rimbalzata da una parte all’altra della barca, mentre un anziano si sorregge ad un tavolino. 

La linea narrativa appare chiara: una piccola comunità è rimasta intrappolata in mezzo a una massa di ghiaccio. Altrettanto riconoscibili sono gli elementi drammaturgici identitari  della compagnia belga: la scenografia curata nei minimi dettagli, ideata da Justine Bougerol e PeepingTom, in grado di restituire un paesaggio bianco, illimitato e glaciale; nonché una lampante e impeccabile bravura degli interpreti sulla scena (Marie Gyselbrecht, Chey Jurado, Lauren Langlois, Yi-Chun Liu, Sam Louwyck, Romeu Runa, Dirk Boelens). 

Quando però il pubblico è ormai pronto ad affondare nell’immaginario creato da Chartier , un colpo di scena trasforma radicalmente la dinamica narrativa. Se in principio infatti lo spettacolo sembra dotato di una linea drammaturgica stabile, chiara e ben definita, la morte del bambino protagonista della scena (che scivola tra i ghiacci della scenografia) sembra essere motivo scatenante di una rottura decisiva per l’intero impianto scenico. 

Il papà del bambino, interpretato da Romeu Runa, a lato della poppa, confessa i propri tormenti, in una più ampia riflessione sulla figura del padre e sulla genitorialità (intento  già dichiarato sul foglio di sala che recita  «a tutti i padri che ho portato sulla scena»). 

A parlare da adesso è dunque il papà del bambino ma forse sarebbe meglio dire lo stesso Runa, che esprime la propria amarezza per i sacrifici nel dedicare la vita all’arte, rinunciando ai compleanni del figlio e trascurando i propri cari. Preso da un momento di totale sconforto e rivolgendosi direttamente al pubblico, decide quindi di lasciare la scena, abbandonando non solo il palco ma la stessa sala grande delle Fonderie Limone

L’intenzione metateatrale è confermata dalla successiva entrata in scena di Marie Gyselbrecht interprete storica della compagnia (nei panni di Mimì, la mamma del bambino) che raggiunge il palco dal fondale in qualità di persona (Marie) e non personaggio (Mimì), scusandosi per il suo ritardo causato da un problema alla macchina e da un malore del suo cagnolino,  lamentandosi del fatto che a prescindere da ciò che accada nella sua vita personale, l’attore debba essere sempre in scena, pronto ad interpretare un nuovo personaggio

Il monologo di Marie, causa delle prime di diverse risate tra la platea, è interrotto dalla voce del regista Franck che con tono pacato chiede a tutti gli interpreti di ritornare in sé e riprendere le prove da dove erano state interrotte. Però, l’attrice si ribella: «Non sono Mimi, sono Marie! Da quindici anni faccio quello che mi chiedi e ora non so più chi sono!». 

A partire da questo momento, tutta la struttura narrativa diventa un intreccio tra mondo reale e mondo immaginato, creando una miscellanea di esperienze personali e finzione che si mescolano fino a sovrapporsi.

A più riprese il regista interviene con la propria voce nel tentativo di calmare gli animi degli interpreti che si esibiscono inscenando momenti di liberazione e sfogo nel loro essere artisti e nelle loro condizioni all’interno dello stesso spettacolo. A essere portato sul palcoscenico sarà allora il desiderio di non voler morire in quel determinato punto della scena; di voler far cambiare il copione per non uccidere il pesce pescato all’inizio, ma anche, come nel caso del personaggio anziano, che dovrebbe piangere la morte della sua amata compagna, la decisione sofferta di smettere di  disperarsi e di morire, con estrema veridicità.

A tutti gli effetti, S 62° 58′, W 60° 39 è una prova aperta (circa a metà assistiamo anche a 5 minuti di pausa) di uno spettacolo apocalittico e drammatico, ricco di richiami al mondo contemporaneo afflitto da devastazione, cambiamento climatico, violenza e morte. 

Ma a partire dall’espediente del teatro nel teatro questi temi intensi e gravi  si mescolano con l’ironia e la vita quotidiana, restituendo una miscela perfetta di dramma vero e dramma ideato, che permette a chi assiste di piangere e ridere, ridere e piangere, o piangere mentre si ride. 

La performance, in cui la parola ha un ruolo decisamente più importante rispetto al movimento, diviene così un microcosmo dove le identità della persona e del personaggio si confondono, dando vita ad uno scambio continuo di ruoli e personalità, creando un intricato ma impeccabile labirinto di significati. 

© Sabine Greppo

Lo stesso regista ha dichiarato che per la creazione, insieme con gli attori-danzatori sono partiti da traumi personali e momenti complessi in qualità di artisti che lui stesso ha poi ri-utilizzato e inserito all’interno di questa prova artistica. 

Definendo il lavoro «Un’operazione a cuore aperto dell’artista sulla scena, in questo senso lo spettatore vedrà il cuore e l’interiorità dell’artista, senza sapere se si tratta della persona o del personaggio, che sono vicinissimi.»

La pièce è ricca di riferimenti ironici e autoreferenziali, come Chey Jurado che interrompe una scena lamentandosi dell’eccessivo vento: «Basta con questo vento! Lo hai messo in Vater, in 33 rue Vandenbranden… adesso è troppo!» o  Romeu Runa che sottolinea l’aspetto narcisistico intrinseco nel ruolo del coreografo, riferendosi a Chartier come «Castellucci di Lavapies» (famoso quartiere multiculturale di Madrid).

A chiudere lo spettacolo sarà l’impeccabile Romeu Runa con un monologo a due voci: una più profonda e minacciosa della bestia che nasconde in sé e una più squillante riconducibile all’identità dell’attore stesso. 

Mentre in scena l’attore-danzatore, nudo, incalza un dialogo tra le due parti in cui si sente scisso, si accendono le luci sul pubblico. Si dimena, rannicchiandosi su se stesso e si rivolge al pubblico con varie provocazioni («Vorrei scoparvi uno a uno»), finché non sfonda la quarta parete. Runa chiede aiuto perché vuole uscire, in modo più o meno metaforico, dal teatro, e quando qualcuno si alza e lo prende per mano, accompagnandolo fuori dalla sala, lo spettacolo finisce. 

Con S 62° 58′, W 60° 39 Chartier propone una magistrale riflessione sulla creazione artistica, sulla condizione degli interpreti e sul successo che spesso si fa sinonimo di rinuncia personale. Così, la prova di sopravvivenza di un equipaggio bloccato tra i ghiacciai diviene metafora di un tentativo di restare in vita nonostante le condizioni proprie dell’artista. 

Seppure la performance porta sul palco l’atto metaperformativo di inscenare uno spettacolo, essa è ancora tuttavia un messa in scena impeccabile nella sua cura di tempistiche, interpretazione e scenografia. Quanto diverso sarebbe stato invece assistere ad una vera prova di PeepingTom? 

Torinodanza chiude la sua programmazione 2023 senza la danza, con uno spettacolo in cui la parola ha prevalso decisamente su di essa, ma con una prova magistrale di PeepingTom che ha portato sulla scena una puntuale dicotomia tra trauma e ironia, collocata in una scena apocalittica ma oltremodo credibile. 

Con Piergiorgio Milano il mare arriva a Torinodanza

Con Piergiorgio Milano il mare arriva a Torinodanza

Entrando nel foyer delle Fonderie Limone a Moncalieri durante le giornate di Torinodanza, non si può fare a meno di respirare un’atmosfera dinamica e vibrante. Il 13 ottobre, alle repliche di Vague nella sala grande si affianca di Tiny Uppercase-Bestiario Virtuale una delle performance realizzate con il BTT- Balletto Teatro di Torino, a cura di Carlo Massari, un progetto di sperimentazione per 5 spettatori e 5 danzatori, in cui i linguaggi performativi incontrano le nuove tecnologie. 

Con Vague risulta evidente sin da subito che ad andare in scena non è una tradizionale rappresentazione teatrale, né tantomeno coreica. Sulle note di Follow the sun di Xavier Rudd, il pubblico viene fatto accomodare su delle sedie disposte ai tre lati dello spazio, al centro del quale si trova una struttura bianca alta un paio di metri, che ricorda una barca a vela. Il rimando a un’ambientazione portuale è istantanea: sul palco abbondano cavi, corde, ferrame, ganci e ancore.

A decretare l’inizio dello spettacolo è Steeve Eton che entra definendolo «un viaggio dalla durata di 30 minuti», per poi giungere alla sua postazione musicale ricca di strumenti: un flauto, uno sassofono, una console, un computer, un microfono su di un’asta, una campana e un recipiente trasparente pieno d’acqua.

Il viaggio di Vague inizia con una musica elettronica accompagnata dal rumore dell’acqua. Poi due performer, Viviane Miehe e Piergiorgio Milano, si avvicinano alla struttura e iniziano la loro danza aerea, fluida, sospesa, in bilico. Tra e in mezzo alla struttura-nave vengono eseguite acrobazie capaci di definire una gentile esibizione di parkour non tra le barriere architettoniche che offre una città, bensì tra quelle del mare. 

Vague si costituisce di immagini e suggestioni che si avvicendano tra loro, ruotando attorno al macrotema che rimane sempre il mare e le possibili storie che lo riguardano. Scenografia, costumi, poesie riportano allo stesso tema semantico: il mare come motivo e via di fuga; come pericolo e speranza, il mare come elemento naturale che per antonomasia rende l’uomo felice e pago, Il mare che può salvare e distruggere.

© Andrea Macchia

In questa azione performativa parole, danza, musica, scenografia e circo si bilanciano perfettamente attraverso l’azione dei tre interpreti sulla scena: il musicista-narratore non accompagna solo le movenze, attraverso  le sue poesie, intermezzi musicali e vocali, scrive e definisce la struttura narrativa insieme con i due performer. 
Piergiorgio Milano, ritornando ancora ad approfondire  il rapporto tra essere umano e natura, trasla lo scenario protagonista dalla montagna (come è stato con “White out” e “Au Bout des doigts”) al mare. 

Vague è nato nel corso dell’estate passata come performance site-specific su alcune spiagge liguri, diventate poi, di fatto, parte integrante del lavoro.
Così, partendo da un primo studio sui litorali della Liguria, in cui tre interpreti emergendo dalla sabbia danzavano per poi scomparire in un’immersione sottomarina, in equilibrio tra superficie, profondità e orizzonte, la sperimentazione si è spostata sul palcoscenico di Torinodanza. 

Vague fa parte della vetrina Art-Waves per la creatività dall’idea alla scena, bando lanciato nel 2021 dalla Fondazione Compagnia di San Paolo, nell’ambito della missione Creare Attrattività | Obiettivo Cultura. Torinodanza seguendo l’intero percorso dei lavori coinvolti ha attivato  all’interno del cartellone del Festival, una vetrina che restituisce uno spaccato delle diverse creazioni vicine o attigue al mondo della danza.

Sono inseriti nel progetto Art-Waves Dust of Dream, di Eva Frapiccini, Daniele Ninarello, AlbumArte Codeduomo; Earthart. Il cuore della terra di Raphael Bianco per e con la Compagnia EgriBiancoDanza; Bello! di Francesco Sgrò, Cordata F.O.R. e, Tiny Uppercase-Bestiario Virtuale con il Balletto Teatro di Torino, a cura di Carlo Massari. 

Fra gli intenti dello spettacolo non è da trascurare l’intenzione di sensibilizzare il pubblico alle tematiche ambientali, in vista degli obiettivi dell’Agenda climatica 2023. Il progetto, perché di esso si tratta e non di una performance isolata che trova la sua conclusione con il buio e gli applausi, desidera compilare protocolli per calcolare l’impronta ecologica dello spettacolo pre, durante e post-produzione. 

Dal punto di vista tecnico il disegno luci, a cura di Gianni Melis, sfrutta un sistema di illuminazione wireless a batteria che può essere alimentato a energia solare, permettendo così di ridurre al minimo l’impatto sull’ambiente e di replicare lo spettacolo anche in luoghi immersi nella natura, senza stravolgere nè intaccare alcun ecosistema naturale. 

Con Vague il 13 e il 14 ottobre a Torinodanza è arrivato il mare, portando con sé una riflessione su cosa esso stesso abbia da offrire all’uomo. Piergiorgio Milano prende lo spettatore per mano nell’intento e lo  accompagna in un viaggio di cui, ancora, non è dato sapere  la meta. Quando gli interpreti abbandonano la scena si rimane soli, ad osservare le onde d’un mare limpido ed i suoi rumori, ammantati della responsabilità di  decidere se e come continuare l’avventura appena intrapresa. 

Sciarroni e Sidi Larbi, a Torinodanza due creatori di mondi fluttuanti

Sciarroni e Sidi Larbi, a Torinodanza due creatori di mondi fluttuanti

Il 29 settembre 2023 alle Fonderie Limone (Moncalieri) si è svolta la terza serata della 23esima edizione di Torinodanza Festival, diretta da Anna Cremonini, composta da due performance: Dialogo terzo: In a Landscape, con coreografia di Alessandro Sciarroni, e Ukiyo-e di Sidi Larbi Cherkaoui.
Poco prima delle 19.30 la Sala Piccola delle Fonderie apre le sue porte per accogliere il pubblico e dare il via all’esercizio meditativo che nel 2020 Sciarroni ha composto per il CollettivO CineticO (Simone Arganini, Margherita Elliot, Carmine Parise, Angelo Pedroni, Francesca Pennini e Stefano Sardi). 

Sceso il buio in sala, cinque performer si dispongono sul palco (con tappeto e fondale bianco), mentre uno, Stefano Sardi, si accomoda alla tastiera e così il brano coreografico può avere inizio. Come in altri lavori dell’artista marchigiano, In a Landscape, che prende ispirazione dall’omonimo brano di John Cage, individua un’atmosfera leggera e misteriosa sottesa in un’ostinata ripetizione di un dato movimento. 
Gli interpreti, infatti, interagiscono con un hula hoop di colore azzurro che viene fatto roteare per l’intera durata di 35 minuti, modificando varie volte l’asse di rotazione: su di un braccio; sul collo; su una mano posta verticale rispetto al suolo con la gamba opposta piegata. Il centro di rotazione viene di volta in volta spostato più in alto o più in basso, verso destra o sinistra in un gioco per cui uno per uno i performer in camicia, gonna e mocassino mostrano le proprie abilità con l’attrezzo e, in risposta, gli altri tentano di imitarlo/a. Le alterazioni a questo moto perpetuo sono individuabili nella relazione tra i danzatori e dal numero di questi che agiscono, rispetto a quelli che si mostrano in una stasi. Un solo interprete fa roteare l’oggetto e gli altri lo guardano seduti; tutti fanno uso del hula hoop, ma con assi differenti; due interpreti, uno di fronte all’altro, muovono a rallentatore l’oggetto senza alcun perno, ma solo spostandolo nello spazio ancora seguendo una traiettoria circolare. 

Torinodanza
Ph Alessandro Sciarroni

In un esercizio meditativo che coinvolge non solo chi lo esegue ma anche chi lo guarda, con In a Landscape Sciarroni ha trasformato il concetto di ripetizione in leggerezza, rendendolo capace di evocare sentimenti e avviare alla serenità, trasportando anche lo spettatore in mondo altro fluttuante. Usciti dalla sala, molto altro pubblico è già nel foyer in attesa dello spettacolo di Sidi Larbi Cherkaoui, presente in questa edizione di Torinodanza in qualità di coreografo del Ballet du Grand Théâtre de Genève, di cui ha assunto la direzione l’anno scorso. 

La sala eccitata trova il silenzio. Il sipario si alza e l’immagine di un coro dagli ampi vestiti neri su di una scalinata ci accoglie. Il palco si presenta delimitato da tende la cui composizione ricorda quella della carta velina e, proprio per questo, risuonano ad ogni passaggio dei danzatori e lasciano intravedere cosa si trova dietro la struttura, ovvero i due musicisti Szymon Brzóska per il trio d’archi e pianoforte e Alexandre Dai Castaing per le creazioni ritmiche percussive ed elettroniche. 

Subito si leva il canto profondo e dai toni orientali di Shogo Yoshii poi, come per magia, la scalinata su cui si trovano i diciotto danzatori viene mossa per definire un’inedita e del tutto inaspettata architettura dello spazio, individuando una certa somiglianza con le scale più famose del cinema fantasy, quelle di Hogwarts, che cambiano a loro piacere. La possente struttura, ideata dallo scenografo Alexander Dodge, è una rete di scale impossibili e viene utilizzata per l’intera durata (75 minuti) per creare paesaggi ed immaginari sempre mutevoli e labirintici. 

Il dispositivo coreografico di Ukiyo-e presenta più linguaggi sovrapposti. Al canto, alla musica dal vivo e alla mutevole scenografia, si sovrappone una danza fluida, ben eseguita anche se a tratti esageratamente estetizzante. Anche quando gli spazi sono stretti perché gran parte del palco è occupato dalle scalinate, i corpi si muovono in modo sempre fluido, respirato e dalle movenze ondulate, senza però dimenticare un attento e peculiare utilizzo delle mani, nel segno della tradizionale danza indiana. I performer salgono e scendono le scale, si lanciano da esse, attraversano il palco, eseguono sequenze corali o individuali o in piccoli gruppi. Nella convinzione che la danza sappia portare con sé un senso di comunità e di interconnessione, ma anche di individuazione e di ricerca di sé, il coreografo ha dichiarato di aver cercato una risposta danzata alla sensazione di solitudine, da tutti esperita durante il periodo pandemico. 

In questo complesso disegno coreografico è stata altrettanto rilevante l’evoluzione dei costumi di scena: agli ampi vestiti neri è stato aggiunto un kimono, poi tolto; qualche interprete è rientrato in scena senza il pezzo di sopra del vestito originale. Successivamente, questo abito si è rilevato double face, colorando la scena con tinte floreali e orientaleggianti. Verso il termine della performance il cambiamento è netto: tutti i danzatori nudi (o meglio con culotte e top color carne) ed un macchia rossa sul cuore. Questa metamorfosi estetica conclusiva è forse portatrice di una definitiva presa di coscienza e-o un cambiamento ormai avvenuto?

Ph: Gregory Batardon

L’immaginario portato in scena da Sidi Larbi è dichiarato già nel titolo. Ukiyo-e è un termine giapponese che significa letteralmente “immagini di mondi fluttuanti” ed è stato un movimento pittorico del periodo Edo, tra l’inizio del XVII e la fine del XIX secolo che ha influenzato la storia dell’arte e della società giapponese, privilegiando soggetti ed immagini riferiti al carattere evanescente della vita. Avendo privilegiato un’espressione di uno stile di vita fugace e leggero, ma non per questo non melanconico, il coreografo lascia ancora viva la possibilità di una speranza che giunge da un ulteriore linguaggio concepito, ovvero la parola, per mezzo dei versi della poesia di Kae Tempest Hold you own

But, when time pulls lives apart/ Hold your own/ When everything is fluid, nothing can be known with any certainty/ Hold your own Hold it till you feel it there/ As dark and dense and wet as earth/ As vast and bright and sweet as air/ When all there is is knowing that you feel what you are feeling/ Hold your own/ Ask your hands to know the things they hold I know, the days are reeling past in such squealing blasts/ But stop for breath and you will know it’s yours […]

Con due proposte che non potevano essere più diverse, la direttrice di Torinodanza è stata in grado di erigere per la serata del 29 settembre 2023 un mondo ultraterreno, in cui la forza di gravità si è fatta da parte, accettando la sfida del corpo umano. Sciarroni e Sidi Larbi: due creatori di mondi distanti, forse paralleli, ma entrambi certamente fluttuanti