Nel vento di Fabiana Iacozzilli – la trilogia completa soffia al Teatro Vascello

Nel vento di Fabiana Iacozzilli – la trilogia completa soffia al Teatro Vascello

In occasione del debutto del Grande vuoto, ultimo tassello della sua Trilogia del Vento presentata per il REF al Teatro Vascello, abbiamo intervistato Fabiana Iacozzilli. Nella parentesi di una pausa tra una prova e una replica, abbiamo discusso con la regista i processi creativi che l’hanno portata alle scelte compiute per i suoi tre spettacoli, passando per marionette e grottesco, attraversando il tema della cura, la memoria, fino a cercare di codificare la direzione di questo vento che soffia, tiepido e benefico, nei teatri.

Rispetto alla creazione di uno spettacolo, le diverse tipologie di linguaggi usate per la trilogia, come il teatro di figura, la performance e il video, nascono prima o dopo il tema prescelto?

I linguaggi nascono dopo. Prima mi interrogo su una questione, su cosa voglio interrogare me e il pubblico. Dopo averla messa a fuoco, inizio poi a pensare a quale possa essere la lingua migliore per esprimere la materia artistica su cui sto lavorando.
Mi succede di cambiare linguaggi, forse è una mia specifica. Per esempio fino a La classe avevo sempre lavorato con gli attori, che portavo a una cifra grottesca, tramite un lavoro minuzioso e accurato sull’azione scenica.  Nel momento in cui, per La classe, ho deciso di partire dalla mia biografia e dai ricordi d’infanzia, mi sono interrogata a lungo su quale potesse essere il codice espressivo migliore. 

Mettere in scena dei bambini sarebbe stato patetico, con degli adulti sarebbe stato grottesco, una strada che avevo appunto già percorso, avendo lavorato tanto sul teatro dell’assurdo in una prima fase stilistica. Quando ho avuto l’intuizione di usare le marionette mi è subito parsa l’unica strada possibile da percorrere per quel tipo di lavoro. Prendendo a esempio invece Il grande vuoto, l’ultimo spettacolo della trilogia, ho contaminato il lavoro con il video, ma sono arrivata al video per esigenze precise che hanno a che fare con la drammaturgia. In ogni caso, prima di tutto c’è la drammaturgia e poi il linguaggio che adotto affinché quella drammaturgia possa esplodere.

Ne Il grande vuoto dovevamo raccontare la solitudine di una donna che vive nella sua casa, affetta da una malattia neurodegenerativa di cui non si parla mai esplicitamente in scena; 
avevamo bisogno di far immergere il pubblico in una precisa dimensione e per questo abbiamo utilizzato il video: abbiamo perciò deciso di fare delle riprese live dei movimenti dell’attrice durante lo spettacolo, contaminando anche con del materiale filmato precedentemente in un’altra casa. Anche in questo caso, come già per La classe, l’uso di un linguaggio preciso non è dunque un orpello, ma una necessità.

Iacozzilli
® Francesco Bondi

Come scegli i tuoi attori e le tue attrici? 

In parte continuo a coinvolgere performer con cui lavoro da anni e per me questo è prezioso. Molte di queste persone rappresentano una costola di quella che è stata la mia compagnia storica (Lafabbrica, sciolta nel 2017, n. d. r.) e, anche se non sono più nella compagnia, sono per me le risorse più importanti, sono parte del progetto. Ci conosciamo da anni, parliamo la stessa lingua. Poi, quando devo scegliere altre persone, con gli anni ho imparato a capire cosa mi serviva. Non riesco a concepire l’incontro con l’attore o l’attrice passando per il semplice provino, perché il lavoro che faccio è un lavoro di improvvisazione, un lavoro che si costruisce insieme. 

La materia che io propongo diventa materia comune, gli attori improvvisano sulle suggestioni che io do, perciò tengo molto di loro nella versione finale. Nel momento in cui decidiamo di lavorare insieme ci scegliamo, non è che io scelgo loro. Forse sono loro che scelgono me. Ci scegliamo insieme. Per esempio con Giusi Merli, la protagonista dell’ultimo spettacolo Il grande vuoto, abbiamo deciso di fare un lungo incontro di 9 giorni alla Corte Ospitale e abbiamo lavorato lì, insieme. È stato un privilegio che non accade spesso, lo so. In ogni caso ritengo sia importante cogliere un certo tipo di umanità piuttosto che un certo tipo di bravura attoriale.

Parlando del secondo lavoro della trilogia, Una cosa enorme, ti chiedo: cosa vuol dire prendersi cura oggi? La società di cui parli e a cui parli sente ancora il peso di Anchise, l’accudire i genitori? Ce l’abbiamo ancora come monito per la nostra crescita?

Non lo so se ce lo abbiamo ancora. Sarebbe sicuramente bello se ce l’avessimo. Una cosa enorme è uno spettacolo a rischio retorica, questo è evidente. Nel senso che la storia che io racconto vede una protagonista che si interroga sulla maternità, ma che alla fine si ritrova a prendersi cura di un padre. Partorisce un figlio-padre. Non possiamo allargare la domanda a un noi.

Nella nostra ricerca è evidente che questo punto di attenzione si sposta dal figlio al padre. Nel mio lavoro, prendersi cura è più visto come un atto generativo, come presa di responsabilità e come una riscoperta del senso della cura di sé, ma in relazione al padre. Allargare il discorso a qualcosa o a qualcuno che esce fuori dalla sfera più intima mi risulta realmente difficile. Avrei paura di risultare banale.

Iacozzilli
® Manuela Giusto

Passiamo a Il grande vuoto, che debutta adesso per il Ref al Vascello; vorrei chiederti: questo vuoto è, secondo te, più per chi assiste una persona che perde la memoria o per chi vive la perdita della memoria?

Io credo che il vuoto ci sia per entrambi con modi, forme e pesi completamente diversi. Forse il vuoto più grande lo vive chi assiste. Perché per il caregiver il grado di consapevolezza, il vuoto che si genera dentro, è maggiore. Stando al lavoro che abbiamo fatto, credo che nel momento in cui ti prendi cura di una madre o di un padre che non ti riconosce più, a quel punto, se non sei più riconosciuto da chi ti ha generato, ti viene da chiederti chi sei.

 C’è un momento in cui sei sull’orlo del baratro, per cui ti domandi: “se non sono più nessuno per quella persona, chi sono?” Questo è un passaggio delicato e importante, per cui credo che il vuoto più grande sia per chi assiste perché entra in questa vertigine, in questa voragine. 

Il vuoto più drammatico è invece quello di chi perde i pezzi. In questo spettacolo io però volevo tantissimo che si andasse verso la gioia. Il nostro percorso è passato per La classe, poi per Una cosa enorme, che dei tre è lo spettacolo più duro, più crudo, e volevo veramente lasciare questa trilogia al pubblico, e a me stessa, creando un momento di gioia. 

Il grande vuoto finisce raccontando un grande ricongiungimento, mostrando come questo vuoto possa zampillare, come ci sia un’energia vitale anche lì dentro e come ciò possa accadere nel momento in cui i figli decidono, attraverso il teatro e il gioco, di entrare nel mondo della madre, nel mondo del Re Lear

Accade quando i figli decidono di scivolare verso la madre per continuare ad avere un rapporto con lei, quando decidono di entrare nel mondo del teatro che è l’unico ricordo che lei ha.

In che direzione soffia artisticamente il tuo vento? Dove ti ha portata questa trilogia?

Non era nata come trilogia del vento, lo è diventata. La classe, il primo spettacolo, finisce con l’immagine del vento, nel secondo ci sono degli uccelli minacciosi che continuano a girare sopra la protagonista per consegnarle la creatura, come delle cicogne, e anche questo ha richiamato un’immagine di vento e aria. In realtà mi ha molto colpito questa strana chiusura del cerchio; è stata veramente inaspettata. Quando con Linda Dalisi, la dramaturg de Il grande vuoto che ha fatto un lavoro straordinario, ci siamo rese conto che anche questo terzo lavoro era così fortemente legato al vento, siamo rimaste colpite, perché non lo avevamo deciso. 

La protagonista de Il grande vuoto, Giusi Merli, mentre lavoravamo sulle emozioni, ci ha rivelato che il suo cavallo di battaglia era Re Lear e soprattutto il monologo del Soffiavento a cui era legatissima. Di fronte a questa dichiarazione sono rimasta molto turbata, perché avevo già deciso di lavorare su una trilogia, ma non avevo ancora il titolo, per cui mi sembra che sia stato il teatro a manifestarsi di fronte ai miei occhi. Quindi forse il vento soffia, nella riscoperta delle possibilità che il teatro dà a noi artisti ogni volta. Forse in questo senso il vento soffia in un modo caldo. Lo dico perché prima di concludere questa trilogia stavo anche un po’ perdendo un certo fuoco.

Stavo diventando in un certo modo una professionista, che faceva bene il suo lavoro e basta. Invece ciò che è accaduto di fronte ai nostri occhi mi ha fatto pensare che, alla fine, il teatro, se gli si dà un’occasione, si manifesta. Ti si manifesta sempre. È lui che ti racconta la strada; è lui che ti racconta dove puoi andare.

Le compagnie selezionate raccontano Powered by ref

Le compagnie selezionate raccontano Powered by ref

Nel caleidoscopico universo del Romaeuropa Festival, l’attenzione all’innovazione e al futuro continua a essere una coordinata fondamentale. Su questa traiettoria si muovono i progetti selezionati da Powered by Ref nell’ambito di Anni Luce, rassegna a cura di Maura Teofili, che prevede l’accompagnamento e l’avvio per tre spettacoli di artiste e artisti emergenti, nati tra il 1994 e il 2003, in collaborazione con Carrozzerie | n.o.t, 369gradi srl e con le residenze curate da Periferie Artistiche, ATCL, Teatro Biblioteca Quarticciolo e Cranpi.

Un reticolo di sostegno per far germogliare al meglio dei lavori che verranno presentati al pubblico tra il 28 e il 29 ottobre a La Pelanda – Mattatoio. Un’occasione arricchente e preziosa, di cui abbiamo chiacchierato con i tre gruppi finalisti: Cromo Collettivo Artistico (Andrea Perotti, Valerio Sprecacé, Tommaso Burbuglini), Pietro Giannini, Alice Sinigaglia-Davide Sinigaglia.

Dei tre gruppi, nessuno ha origini propriamente romane: Cromo è formato da artisti provenienti da tutta Italia e ha sede a Poggio Mirteto, Alice e Davide Sinigaglia arrivano da La Spezia e Pietro Giannini da Genova.
Ognuno con una formazione diversa, fra accademie, scuole, corsi di alta formazione, o il conservatorio, come nel caso di Davide Sinigaglia, che partecipa assieme alla sorella al progetto con Concerto fetido su quattro zampe, un concerto-spettacolo che parla di animalità e che si interroga sul senso della ferocia e “su questa nostra maledetta evoluzione”. 

«Partendo dalla musica, io e mio fratello Davide siamo arrivati entrambi, in tempi e modalità molto diverse, all’arte scenica», ci dice Alice Sinigaglia a proposito della formazione del duo, «è da quando abbiamo 8 anni che io scrivo o dirigo spettacoli che poi lui recita. Negli ultimi quattro anni abbiamo fatto tre spettacoli insieme, partecipato a bandi, premi, fatto anche qualche tournée. Questa è la prima volta che siamo in scena solo io e lui. Come sempre le competenze si intrecciano parecchio, lui mi porta verso il tempo, io lo porto verso lo spazio. Durante il “concerto” che porteremo in scena, la parola recitata si ibrida con il verso e con la musica vera e propria costruendo un discorso sonoro sfaccettato e tagliente. Il punto di partenza è semplice: due cani vengono abbandonati in casa e cominciano per noia ad abbaiare agli uomini il loro proclama; ci prendono gusto, si travestono da esseri umani e si ritrovano a cantare come si sente il mondo da quando è stato addomesticato, compresso tra gabbie di plastica e schiavitù di provincia. Siamo a cavallo fra un rap dimenticato e un manifesto politico, siamo bestie che si chiedono chi dunque siamo quando siamo di fronte alle bestie che siamo».

Alice e Davide Sinigaglia © Leonardo Bertucci

Per tutti e tre i gruppi è la prima esperienza in cartellone al Ref e l’entusiasmo e la voglia di mettersi in gioco è palpabile. lo racconta Pietro Giannini, fresco della menzione speciale al Premio Scenario 2023 e ora impegnato con anima e corpo nell’esperienza di ricerca sul campo con il monologo La traiettoria calante: «Ho portato come progetto uno spettacolo sulla tragedia del ponte Morandi del 14 agosto 2018 uno spettacolo che al tempo del bando era a livello embrionale, grossolano, con alcuni problemi interni.

Il tema era chiaro, ma grazie all’operazione artistica curata Maura Teofili e Francesco Montagna abbiamo ricostruito il lavoro partendo da un nucleo centrale, abbiamo diviso lo spettacolo in tre atti e, assieme al mio tutor Lorenzo Maragoni, abbiamo rilavorato la materia poetica. Lorenzo mi ha spinto poi a usare anche il dialetto genovese e di questo io sono felicissimo. Inserire il dialetto in uno spettacolo che porterò a Roma è un’occasione per elevare la mia lingua a un livello artistico nuovo. Rispetto all’idea originale, inoltre, Maura mi ha sfidato a utilizzare anche l’elemento video, permettendomi di lavorare sul qui e ora in un modo nuovo eppure coerente rispetto alla visione dell’idea iniziale. Ho avuto occasione anche di studiare sul territorio, nella mia città, a Genova, sia con un importante lavoro d’archivio sia avendo l’onore e l’opportunità di intervistare i parenti delle vittime e il legale che li rappresenta – conclude Pietro Giannini – il teatro per me è testimonianza. È la possibilità di onorare la memoria di qualcuno che non c’è più. Spero di esserci riuscito».

La presenza di un sostegno costante ha caratterizzato ogni fase del lavoro anche per lo spettacolo di Cromo, Ahmen, che, dichiara il collettivo, è «nato da una serie di riflessioni sulla storia di un nostro amico extracomunitario residente nel nostro paese, Poggio Mirteto, il quale ha dovuto affrontare una serie di sfide a livello sociale, culturale e burocratico per potersi riunire con la moglie attraverso l’iter del ricongiungimento familiare».

Cromo collettivo © Tommaso Burbuglini

Il gruppo ha potuto avvalersi della supervisione di Eva Maria Bertschy, drammaturga e attivista politica svizzera. 
«Il dialogo con lei ci ha dato la possibilità di tornare a riflettere in profondità sulle questioni più urgenti alla base del progetto», dichiara il Collettivo, «rendendo più solide e consapevoli le motivazioni che ci hanno spinto ad affrontare una tematica di questo genere».

Importanti anche le residenze artistiche messe a disposizione dai diversi partner, a Tuscania e ad Arsoli. Proprio sull’esperienza ad Arsoli, Pietro Giannini commenta: «Avevo tutto il teatro per me, da mattina fino a notte fonda, in una cittadina lontana da tutto. Questo mi ha permesso un’esperienza ascetica che ha fatto benissimo allo spettacolo».

Pietro Giannini © Niccolò Alessandro Gossi

I fratelli Sinigaglia ricordano invece che: «A Tuscania, in residenza, abbiamo trascorso due settimane fantastiche, noi due e nostra cugina, Febe Bonini che ha curato la parte tecnica, nel privilegio che quel tempo e quel luogo magico ci concedevano. È stata una sensazione nuova quella di svegliarsi e andare a lavorare davvero e per di più di farlo con parte della famiglia. Siamo cresciuti insieme artisticamente. Grazie a Ref, tutto il nostro lavoro è diventato più concreto e strutturato ed è sembrato davvero di intravedere un pezzetto di una futura impresa familiare».

Powered by Ref è uno spazio di incubazione, attraverso cui si possono mettere a fuoco i punti di forza dei lavori selezionati, ragionando sugli aspetti ancora in maturazione dei progetti. 
Lo spiegano gli artisti di Collettivo Cromo: «Il lavoro si è evoluto cercando di far collimare le nostre tendenze artistiche con le esigenze dettate dalla storia e dal tema. La questione più delicata che è emersa sin da subito, e che ha poi guidato le scelte registiche del progetto, è quella relativa al modo di comunicare del protagonista. Se all’inizio sembrava un limite che ci impediva di proseguire liberamente nel lavoro, più avanti si è rivelata essere un’occasione nella costruzione di un linguaggio scenico essenziale e dal tono grottesco a tratti fiabesco.

La necessità è stata quella di fare uno zoom su pochi elementi della storia, liberando lo spazio per far luce sul protagonista e sugli ostacoli che è costretto ad affrontare per raggiungere il suo obiettivo. Per noi, artisti emergenti, essere calati in un ambiente così vibrante e fertile, che ci consente di interagire attivamente con esperti del settore, rappresenta un’opportunità straordinaria per esplorare le nostre potenzialità e perseguire la ricerca della nostra identità creativa».

Entrare nel tracciato di un dialogo rigenerante, avere la possibilità di scoprire o rivelare un linguaggio, arrivando a creare un prodotto artistico compiuto che si impegni a essere in linea con le istanze dei gruppi coinvolti, rappresenta una pratica virtuosa, a uso e consumo di realtà affamate di acquisire consapevolezza espressiva.
Un progetto per incanalare suggestioni e idee, per farle fiorire, in modo che la resa sia rigogliosa e così che chiunque possa godere dei suoi frutti in teatro e non solo.

Fragile ma non debole: Maria Grazia Sughi tra ieri e oggi

Fragile ma non debole: Maria Grazia Sughi tra ieri e oggi

Quando si deve intervistare un’artista che ha lavorato con alcuni dei più grandi nomi del teatro italiano ed europeo, ci si immagina una personalità altera, elegantemente scostante. Maria Grazia Sughi, che ha calcato e calca con passione e dedizione i palchi dentro e fuori Europa da più di 60 anni, ha invece una cortesia e una luce negli occhi che annullano qualsiasi distanza tra lei e l’interlocutore, con un’umanità rara che addolcisce ogni cosa. Per riflettere su come i professionisti del mondo teatrale si rapportino con le generazioni più “giovani”, abbiamo proposto un dittico: due interviste per due grandi artisti, Andrea Cosentino e Maria Grazia Sughi, che, nella sua luminosa casa di Cagliari, dove vive da tanti anni, ci ha parlato del suo percorso d’attrice e di questo suo presente carico come non mai di collaborazioni (Lucia Calamaro in primis, ma anche Rezza-Mastrella), di insegnamenti, speranze e meraviglia.

Una vita dedicata al teatro. Quando hai capito che fare l’attrice sarebbe stato il tuo destino? 

Beh, che la mia vita sarebbe stata dedicata al teatro l’ho capito a 8 anni. Anche se forse chiamarlo “teatro” è un po’ eccessivo: mi avevano scelto per fare da speaker in una radio per le scuole della Toscana. A 12 anni facevo già un teatro di tipo amatoriale e a 16 sono stata a un festival di Pesaro interpretando “la figliastra” di Pirandello. E mi ricordo che in quell’occasione alcuni mi dissero: “il giorno in cui reciterai come ti muovi, sarai una grande attrice.” Ora, grande non lo sono diventata, però avevo un ottimo rapporto con il mio corpo, il fisico c’era, ma poi chissà come l’avrò fatta questa figliastra! Lo stesso pezzo poi lo portai a 18 anni al provino con Giorgio Strehler, perché volevo entrare nella sua scuola del Piccolo, ma lui, dopo che mi vide, mi disse: “ma quale scuola! Tu sei già pronta. Guardati allo specchio!”. Le gambe mi tremavano dall’emozione, ma alla fine mi scritturò per il suo spettacolo “Estate e fumo”. So che quello fu l’incontro decisivo, veramente un grande incoraggiamento per l’avvio della mia carriera. Io poi sono particolare, ho le mie timidezze, ma dopo certe conferme ho iniziato a lavorare regolarmente, senza mai fermarmi.

Qual è lo spettacolo a cui sei più legata e perché?

Dal cuore mi viene da dire l’ultimo, “Darwin inconsolabile” di Lucia Calamaro. Ci sono tante cose da dire su questo lavoro, ma anche altri spettacoli degli ultimi anni mi hanno lasciato un profondo segno nel cuore. Come “Sonnai”, con la regia di Davide Iodice e un cast composto da attori professionisti e homeless. Un altro a me molto caro è l’“Orestea” con la regia di Valentino Mannias. Tornando a “Darwin inconsolabile”: è uno spettacolo scritto e diretto da Lucia, ma ciò che mi ha colpito è stata la sua capacità di integrare nel testo tutte le improvvisazioni degli attori, perciò buona parte delle battute che dico in scena sono in fondo “mie”. Lucia Calamaro è una grandissima autrice, una delle migliori se non la migliore in Italia. Ha poi un enorme rispetto per gli attori e riesce perciò a metterti sempre nella condizione di portare qualcosa di nuovo. In “Darwin inconsolabile” mi sono veramente stupita della mia interpretazione, che è nata senza sforzi, durante le prove, piano piano, senza mai ragionare con la testa. Per questo lavoro sono emersi tanti aspetti reali della mia vita, sono scaturite quell’ironia e quella drammaticità che sono elementi innati della mia personalità. Una vera sorpresa. Alla mia età, vorrei che ogni spettacolo potesse darmi questo stupore.

Con Lucia Calamaro hai lavorato anche in altri spettacoli, precedenti a “Darwin inconsolabile”. Mi viene perciò da chiederti come sia nato il vostro sodalizio artistico.

Dunque, ci sono stati tre momenti fondamentali: prima di tutto avevo fatto un laboratorio di scrittura con Lucia, per cui avevo scritto una paginetta e mezzo, una sintesi di parte della mia vita. L’ho letta e lei è rimasta molto colpita. Poi ho fatto le prove per un suo testo, “Si nota all’imbrunire”, con cui avevo iniziato a entrare in contatto con il suo modo di lavorare. Dato che lo spettacolo alla fine non si è più fatto, io le ho detto: “Senti Lucia, abbi pazienza, almeno scrivi un monologo per me.” E così ecco il terzo incontro, quando lei ha scritto “Urania d’agosto”, che è stato poi diretto in modo eccezionale da Davide Iodice. Io non amo i monologhi, per fortuna infatti in scena c’era con me un’altra presenza silenziosa, interpretata da Michela Atzeni, che arricchiva il palco di altri personaggi e dinamiche. “Urania d’agosto” è uno spettacolo che ho amato molto, con le parole di Lucia, il grande lavoro di sistemazione e lo stile visionario di Davide. Mi sento di dire che l’incontro con Lucia può essere definito come un incontro “antico”, perché c’è stata un’intesa davvero particolare, sia sul piano professionale che su quello umano. Con lei mi sono sempre sentita libera, ho percepito la sua stima e questo mi ha rassicurato, mettendomi in condizioni poi di poter fare insieme anche “Darwin inconsolabile”. In questo spettacolo siamo quattro in scena e c’è una grandissima complicità fra di noi: siamo quattro protagonisti, ognuno fa il tifo per l’altro, c’è un legame profondo e questo al pubblico è passato. Ritengo che, in qualsiasi lavoro, il senso di unità sia fondamentale per la sua buona riuscita. C’è una definizione buddista: “itai doshin” che significa “tanti corpi e un’unica mente”. Siamo tutti diversi in scena, ma abbiamo un unico scopo: lo spettacolo. Quando avviene questo straordinario miracolo, il nostro lavoro ha un successo speciale.

E con Antonio Rezza? Altro grande regista che ti ha coinvolto in uno dei suoi ultimi lavori, “Hybris”.

Rezza è stato un incontro di simpatia. Era venuto per fare uno spettacolo a Cagliari e ci siamo incontrati a una cena. Eravamo seduti vicini, ci siamo messi a parlare e lui a un tratto ha detto: “ma tu lo faresti uno spettacolo con me?” e io gli ho risposto: “certo che lo farei!”. Quindi l’ho raggiunto ad Anzio, dove vive e crea. “Hybris” è un lungo monologo in cui si evocano delle persone in scena, ma quando sono arrivata Antonio era già molto in là con le prove dello spettacolo. Ho scoperto solo dopo che ci stava lavorando da due anni! Mi ci ha buttato in mezzo e ho trascorso i primi giorni di prove ad ascoltare Antonio e ridevo, ridevo, non riuscivo a trattenermi. Nello spettacolo interpretavo sua madre e il divertimento è stato enorme. In seguito è nata una grande amicizia sia con lui che con Flavia Mastrella. Sono due artisti e amici straordinari.

In questa lunga carriera, c’è un personaggio, o una “maschera”, che vorresti interpretare ma che non hai ancora fatto?

Non c’ho mai pensato. Quello che ho trovato nella mia strada d’attrice con tanti grandi artisti, da Sarah Ferrati, a Tino Buazzelli e Paolo Poli, non mi ha lasciato desideri irrealizzati per quanto riguarda ruoli da interpretare.
Certo, da giovane avevo i miei sogni, ma adesso posso avere delle ispirazioni, niente di più. Quante volte mi hanno regalato copie di “Giorni felici” dicendomi: “la protagonista, Winnie, sei tu!”, ma in fondo “Urania d’agosto” è una sorta di “Giorni felici” moderni. Quelli che sono stati i miei sogni in fondo li ho realizzati. Il comico-grottesco, la leggerezza, l’essere un po’ astratta, questa è sempre stata la mia cifra stilistica come attrice teatrale.

Se devo esser sincera, mi piacerebbe fare il cinema. Ho avuto qualche piccola esperienza, ma vorrei fare di più. Anche un piccolo personaggio, adatto a me, non ho pretese particolari. Forse, come ispirazione, mi piacerebbe interpretare personaggi simili a quelli di Giulietta Masina, ecco. Mi resta questo desiderio perché quando ho iniziato a recitare, nel secolo scorso, coloro che facevano teatro non venivano minimamente considerati per il cinema. Si diceva non fossero naturali. Oggi invece i registi hanno finalmente capito le potenzialità degli attori e delle attrici teatrali anche sul grande schermo. Abbiamo dimostrato che chi fa teatro ha una sensibilità e una tecnica che permette di recitare nei film senza problemi.

In quanto attrice, senti un divario generazionale, un approccio lavorativo diverso rispetto al modo di preparare uno spettacolo? 

La prima cosa che mi viene da risponderti è che siamo concretamente in un altro secolo. I ricordi degli attori e dei registi del passato sono per me meravigliosi e molti di quegli artisti avevano un modo di recitare modernissimo, altri no. La stessa identica cosa accade però oggi: ci sono attori che sembrano attori del ‘900 e che recitano in un modo che non ha più senso. Certamente qualcosa è cambiato e bisogna stare al passo con i tempi. Il pubblico deve sentirci, riconoscersi, si deve creare un’empatia. Inutile riproporre qualcosa che era già vecchio decenni fa. Io credo che il ‘900 abbia avuto gli attori e le attrici più grandi d’Europa, nel cinema e nel teatro, alcuni di fama mondiale. Sarah Ferrati è citata in tutte le antologie teatrali, per esempio. Per cui mi chiedo, perché continuare a recitare in quel modo superato? A me questa contemporaneità piace tanto, e contemporaneità non vuol dire recitare come in una fiction scadente, perché la televisione fa cose anche bellissime, ma in un modo coerente con l’epoca in cui viviamo. L’approccio al teatro è notevolmente diverso oggi, questo sì.

Prima c’era un rigore estremo, cosa che è stata ed è alla base della mia vita. Facendo teatro io sono cresciuta come persona, sono stata educata alla vita. Mi sembra che in molti casi oggi ci sia meno disciplina, a volte molta superficialità. Detto questo, vedo giovani preparatissimi, che si formano con scuole, stage, che sanno fare di tutto, pieni di talento. Purtroppo però la richiesta è molto inferiore in confronto al numero di chi si propone, quindi questo è un momento estremamente difficile per fare teatro rispetto al passato. Ai miei tempi eravamo pochi, era più facile lavorare con continuità in questo ambiente.

Cosa è cambiato invece nella tua routine di preparazione agli spettacoli?

Io per prima sono diversa, perché, al di là dell’età, sono cresciuta come persona. La mia ora è una condizione di ascolto. Parlo pochissimo durante le prove, è accaduto in tutti gli ultimi spettacoli che ho fatto. In nome della mia esperienza potrei intervenire di più, ma parlo solo quando è strettamente necessario. Perché ogni volta voglio essere una pagina nuova, pulita. “Ricomincio da adesso”, questo è il mio nuovo approccio. Naturalmente l’esperienza del passato conta, però sono in sostanza una persona tranquilla, che è felice di fare teatro.

Hai sempre avuto questo atteggiamento durante le prove? Mi par di capire di no.

Infatti, no. Da ragazzina ero terrorizzata all’idea di andare in scena. Somatizzavo fisicamente, con sfoghi, febbre. Mi auguravo che accadesse di tutto per non dover recitare. Avevo paura del giudizio. In seguito ho trasformato il mio punto di vista. Non penso più al giudizio. O meglio, un complimento fa sempre più piacere di una critica, ma la critica non mi sposta, non sposta il mio centro. Non rimugino più sui commenti alla mia interpretazione. Quando ero giovane invece mi sentivo molto spaventata. Anche se, appena entravo in scena, dopo tre minuti di forte batticuore, poi passava tutto. Cominciava il gioco. Questo entusiasmo sul palco è rimasto uguale.

Stai lavorando con registi importanti, anagraficamente più giovani di te. Qual è l’aspetto più positivo nell’affidarsi a professionisti “contemporanei”? Cosa ti spinge a metterti in gioco ogni volta?

Il divertimento e l’emozione. La gioia di stare con questi artisti mi fa sentire legata allo spettacolo. Una volta sconfitte le paure della giovinezza adesso mi godo questo “premio” ogni volta che recito. La memoria per fortuna funziona ancora e mi piace studiare, ma la verità è che ho una grande fiducia nell’essere umano. Un grande amore per le persone. Non è complicato. Io mi sento una persona semplice. Ovviamente ho le mie complessità, ma nelle relazioni sono semplice e sincera. 

Che consiglio daresti ai teatranti e alle teatranti più giovani?

Bisogna avere un grande coraggio e una grande tenacia per costruirsi una propria identità artistica, un’autostima fondata, senza però diventare troppo arroganti. È necessario commettere errori, si deve sbagliare. Ma la perseveranza, unita alla passione, permette di superare le insicurezze e mostrare il proprio valore. Un motto che ripeto spesso a tutto il cast di “Darwin inconsolabile” è: “fragili, ma non deboli”.

Un clown nichilista: Andrea Cosentino tra ieri e oggi

Un clown nichilista: Andrea Cosentino tra ieri e oggi

In un soleggiato pomeriggio di quasi estate, abbiamo incontrato Andrea Cosentino, artista poliedrico, difficilmente incasellabile in una sola categoria artistica, con all’attivo un ricco repertorio in giro per l’Italia. Recentemente lo abbiamo visto nello spettacolo Uno spettacolo di fantascienza – quante ne sanno i trichechi di Liv Ferracchiati, nel film Astolfo di Gianni di Gregorio e lo rivedremo presto con la ripresa del suo nuovo spettacolo Rimbambimenti. Abbiamo parlato di identità artistica, del suo rapporto con il passato, con il presente e con il futuro del mondo teatrale.

Nel mondo teatrale si parla spesso di definizioni, ma sappiamo che definirsi di fronte a un multiforme ingegno come il tuo è spesso arduo. In questo momento della tua vita, come prediligi descriverti? 

Dipende dai contesti: per il contesto accademico-storico-critico sono principalmente un attore-autore, ovvero uno che scrive i testi che recita. In realtà la mia pratica artistica si opporrebbe a questa definizione, dato che una delle mie direttive di ricerca sia teorica che performativa è proprio di mettere in discussione questo trattino di demarcazione tra attorialità e autorialità, e con essa tutto un sistema di divisione di ruoli e valori che ci deriva dal teatro letterato borghese. Un teatro che persiste in gran parte ancora oggi persino nelle forme performative che si vorrebbero più evolute, ma che non è mai esistito nelle forme di spettacolo popolari e subalterne che mi hanno sempre interessato, dai buffoni medievali ai clown circensi fino all’avanspettacolo del primo novecento e oltre, ovvero quello che mi sono sempre divertito a definire il teatro che “non fa testo”. 

Ma, insomma, sono ormai sufficientemente maturo e disincantato da essermi abituato al fatto che molte delle cose più sottili che cerco di fare, che a volte riescono a volte meno, non debbano per forza essere comprese dalla critica, la quale peraltro, sia detto per inciso, non ho mai voluto che fosse il mio spettatore ideale né il destinatario privilegiato del mio teatro. Comunque, per farla breve, tecnicamente sono quel che viene chiamato un attore-drammaturgo, anche se in contesti meno istituzionali mi piace definirmi un comico d’avanguardia o, in alternativa, un clown nichilista. 

Fra i tuoi tanti lavori qual è lo spettacolo a cui sei ora più legato e perché? 

Non saprei. Molti degli spettacoli che ho fatto in 25 e passa anni di carriera sono stati importanti per la mia evoluzione artistica, a cominciare dagli esperimenti giovanili nelle piazze della provincia abruzzese, passando per spettacoli più strutturati, sempre nel loro obiettivo di destrutturazione narrativa, come La tartaruga in bicicletta…, L’asino albino e Angelica, con i quali mi sono sdoganato nei festival del teatro di ricerca una ventina di anni fa. Posso dirti quali sono quelli che mi diverto di più a fare ora. Prima di tutto direi l’ultimissimo, Rimbambimenti, perché avendo debuttato da poco devo ancora capire come funziona, e, dato che i miei spettacoli si evolvono e si focalizzano con le repliche, ciò mi costringe a mettermi in costante ascolto del pubblico. L’ascolto è a mio avviso il vero specifico dello spettacolo dal vivo. Per questo motivo sono molto affezionato anche a Kotekino Riff, più che uno spettacolo un dispositivo comico aperto, che è fatto di presenza sghemba e improvvisazione, il che per me equivale alla vera relazione teatrale, come per altri versi era anche la mia storica Telemomò (premio Ubu speciale 2018). 

Questi ultimi in particolare sono lavori che critici malevoli liquiderebbero come “cabarettistici”, ma  sono il centro della mia ricerca da comico sperimentale, incentrati come sono sull’improvvisazione, sulla relazione, sul “qui e ora” e sul divertimento, e tutto questo passa al pubblico, che per una volta può non solo guardare, ma sentirsi a sua volta guardato, e presente: il teatro per me deve essere questa roba qui, altrimenti non ha più ragione di essere. Poi c’è lo spettacolo che ho fatto più volte in assoluto, credo di essere arrivato a 500 repliche in oltre dieci anni di vita, ed è ormai un mio piccolo classico, ovvero Primi passi sulla Luna. In generale è una mia punta di orgoglio tenere in repertorio a lungo i miei lavori, in un sistema che invece non solo non prevede, ma ostacola questa possibilità, tutto puntato come è sulla sovrapproduzione di spettacoli e la loro programmata e precoce obsolescenza.

Ultimamente ti  abbiamo visto in scena nello spettacolo di Liv Ferracchiati, “Uno spettacolo di fantascienza- quante ne sanno i trichechi.” Come sei entrato in contatto con Liv Ferracchiati? Ho letto un aneddoto in proposito, vuoi raccontarcelo?

Certo. Liv aveva scritto sul suo profilo Facebook che cercava un attore anzianotto per il suo nuovo spettacolo, in realtà credo avesse scritto semplicemente over cinquanta, ma mi piace raccontarla così. Io un po’ scherzosamente devo aver scritto nei commenti qualcosa come “sono il tuo uomo”, e da lì ci siamo poi sentiti ed è realmente nata una collaborazione.

Per te che sei abituato ad autodirigerti, come è stato mettersi nelle mani di un altro regista? Un regista più giovane, magari con una poetica diversa da quella a cui sei abituato, o forse no.

La cosa stramba è che, per la maggior parte degli attori, quella di farsi scritturare è la loro normale condizione lavorativa. Per me è qualcosa di relativamente nuovo, o che comunque non vivevo da più di 20 anni. La mia partecipazione allo spettacolo di Liv è nata innanzitutto dalla curiosità di conoscere meglio un artista che stimo, ed è un modo per entrare in contatto in maniera attiva e per così dire dall’interno con la creatività di generazioni successive alla mia, per capire che logiche usano, cosa fanno, che domande si pongono e che risposte si danno. Potrei dirti a posteriori che il lavoro di Liv è simile al mio, per quanto riguarda la destrutturazione delle logiche drammaturgiche, e molto diverso a livello di scrittura. D’altro lato, iniziare a fare l’attore scritturato alla mia età mi consente, banalmente e a livello di sussistenza economica, di non essere costretto alla sovrapproduzione come autore, come molte compagnie sono costrette a fare, il che come ti accennavo credo sia una delle malattie mortali del sistema teatrale italiano. 

A me sembra giusto, per rispettare i miei ritmi e la mia voglia di fare e non fare, creare un lavoro nuovo ogni tre-quattro anni, allora nel frattempo ho deciso di mettermi in gioco in un ruolo che all’inizio della mia carriera ho disdegnato: l’attore puro e semplice. Ovviamente è completamente diverso dallo stare in scena con i miei spettacoli, in cui posso consentirmi l’improvvisazione al massimo grado. Essendo inserito dentro un lavoro altrui, sento di non dovermi permettere di “inquinarlo” con i miei deragliamenti. È chiaro che poi in sede di prova, come spesso succede nel teatro contemporaneo, c’è un’influenza degli attori nel lavoro di scrittura e di costruzione  dello spettacolo. Ma una volta che questo è definito, sento di dover stare all’interno dei binari che mi sono stati assegnati, anche se per esempio Liv è abbastanza intelligente da dare agli attori binari sufficientemente laschi da poter farci crescere dentro la vita replica dopo replica. 

Ma la cosa che forse mi è piaciuta di più di questa esperienza è stata di poter condividere il palco con altri attori, dato che nei miei spettacoli sono il più delle volte da solo, o al massimo con un musicista. Se la mia drammaturgia è aperta al massimo grado nella relazione con il pubblico, quello che mi manca è la relazione orizzontale. Giocare al teatro con Liv, nel vivo del suo testo e della sua performatività stramba ed efficace, e con Petra Valentini, che è un’attrice bravissima, è stato un vero godimento.

Penso allo spettacolo di Liv, in cui deve risultare evidente una differenza di età fra te e gli altri personaggi, e penso a Rimbambimenti, in cui giochi a fare un vecchio con l’Alzheimer. Anche se da pubblico non ti ci percepiamo come “anziano”, come ti diverti a interpretare la maschera del senex a teatro? 

È lo stesso motivo per il quale mi diverte raccontare l’aneddoto di Liv che cercava un “attore anzianotto”. La società contemporanea ha orrore della vecchiaia, ci pretendiamo tutti eternamente giovani, e a me sembra sano non cadere in questa fobia, al punto da esagerare persino la mia età. Trovo giusto e anche assurdamente provocatorio, rispetto alle rimozioni del contemporaneo, fare uno spettacolo che comicizza una dimensione di disfacimento fisico e/o intellettuale, che di norma al massimo viene trattata in modo pietistico. Il sottotitolo di Rimbambimenti è “un TED-talk senescente in salsa punk”. 

Da ragazzino ero o facevo il punk, era una delle mode degli anni ottanta tra le quali scegliere. Direi che oggi, a 55 anni, pur senza cresta, borchie o giubbotto di pelle, lo sono ancora e forse più di allora. Credo di essere ruvido e anti-sistema in un modo meno modaiolo e sbandierato, ma forse più profondo e agito a livello di scelte di vita e artistiche, spesso persino mio malgrado. Nel modo in cui abito la scena, nel mio teatro spigoloso e buttato via, spesso abbozzato e volutamente sciatto, mi piace vedere il riflesso del mio continuare a essere orgogliosamente punk.

Sia in Rimbambimenti che, in un certo modo, anche in “Uno spettacolo di fantascienza”, fai la parodia di quello che ci si aspetta tu debba interpretare e ciò crea un’ironia disarmante.

Permettimi di citarti un breve passaggio testuale proprio di Rimbambimenti: “Mi è sempre piaciuto di fare il vecchietto, fin da piccolo, sono anni che mi esercito. All’inizio devo dire poco convincente, ma già adesso niente male. Ancora una ventina d’anni di esercizio e lo faccio perfetto il vecchietto”. Ecco, indossare un ruolo come una maschera ti consente ogni paradosso e salto mortale linguistico e semantico. In generale è la distanza che permette il gioco ed è una precondizione per l’autorialità. Devi avere una coscienza artistica di quello che stai rappresentando, persino e tanto più quando giochi a rappresentare te stesso.

Senti un divario generazionale? E lascio a te specificare se con gli artisti più giovani o con quelli più âgé. 

Parto con l’aneddotica. Quando vado in giro a fare spettacoli, ho ancora questo “riflesso”: chiedo spesso al tecnico del teatro o agli organizzatori: “ma come è il vostro pubblico? Ci sono un po’ di giovani?” Sia perché in genere i giovani sono la fascia meno rappresentata nel pubblico teatrale, sia perché continuo in qualche modo a considerarli il mio pubblico ideale. Deve essere un riflesso di quando a poco più di vent’anni ho iniziato a fare i miei assoli, questa sorta di pregiudizio pro-giovani. Oggi guardo fra il pubblico e mi capita di pensare: “oddio sono tutti vecchi!”, mi ci vuole un tempo prima di realizzare che a volte si tratta semplicemente di miei coetanei. Parlando di chi il teatro lo fa, molti di quelli della mia generazione, ma anche di quelle precedenti e successive, quando raggiungono una qualche forma di visibilità, quei pochi che ce la fanno, finiscono spesso per fossilizzarsi, non tanto per colpa loro, quanto di un sistema teatrale superficialmente assetato di novità, che tende a spremerli velocemente come limoni. Allora finiscono col creare rapidamente una “maniera” di quello che all’origine magari era una ricerca poetica e stilistica originale, e così tutto diventa meno interessante. Come ti dicevo prima, il mio è un teatro sciatto, però di una sciatteria che rivendico: cerco di mettermi davanti a sfide artistiche ambiziose, ma una volta che mi sembra di aver trovato una risposta, qualcosa che funziona, non sto lì a limarlo per i successivi 10 anni fino a farlo diventare un oggetto rifinito e ben confezionato. 

La confezione per me è la ricerca che degenera in estetismo e poi in logo e marchio di fabbrica, a misura di mercato e di società dello spettacolo. Quindi quella che chiamo la mia sciatteria, che è indifferenza verso la levigatezza dello spettacolo come opera chiusa e come prodotto, è ciò che negli anni magari mi ha precluso alcuni tipi di scene e festival particolarmente à la page, ma credo mi abbia garantito una certa eterna giovinezza artistica. Per venire ai giovani quelli veri, devo dirti che mi interessano molto. Mi sto impegnando per la prima volta in esperienze non tanto didattiche, quanto di tutoraggio e ascolto di compagnie emergenti, come la residenza che conduco con l’Università di Roma La Sapienza dal titolo “Vestiti della vostra pelle”. Sono incuriosito dai nuovi modi di sentire e di pensare la scena.  Vorrei solo dir loro “attenti a non farvi sfruttare e poi buttare in un cestino”, perché c’è un sistema di vecchi che ha bisogno dei giovani solo per prenderli, masticarli un po’ e sputarli via. Sbandierare il sostegno del nuovo per il teatro finanziato e istituzionalizzato è spesso solo il pretesto per conservarsi uguale a sé stesso.

Mi pare che per te il problema sia con lo “stantio”, piuttosto che con la diversità anagrafica.

Troppo spesso nel teatro contemporaneo accade che non si cerchino “nuove forme per nuovi contenuti”, che era un po’ la ragione di essere o almeno l’ambizione delle avanguardie artistiche del novecento, ma solo una superficie stilistica che abbia “il sapore del nuovo” e questo mi annoia, peggio, lo trovo regressivo. Ti faccio un esempio: quando ho iniziato a 25 anni, oltre al teatro, mi è capitato di fare qualche programma di cabaret televisivo e questo mi avvicinava troppo al “comico” e al “popolare” per farmi prendere sul serio dal mondo ammantato di prosopopea del teatro di ricerca. Oggi molti giovani vogliono fare stand-up comedy. A me questo interessa, ci rivedo il teatro povero di Grotowski o lo spazio vuoto di Peter Brook. Buttare fuori dal teatro la stand-up perché puzza di comico o di americano sarebbe l’ennesima ingiustizia. 

Bisognerebbe smetterla di avere la puzza sotto il naso verso le nuove forme comunicative e, al contrario, imparare a comprenderne le ragioni e valutarne le sottigliezze e le differenze. Finché questo non accadrà, io trovo normale e sensato che un giovane autore e attore ambizioso al giorno d’oggi sia più interessato a entrare nel mondo della stand-up che in quello elitario e distante del teatro, in cui si continua a tessere l’elogio elegiaco del contemporaneo e del performativo e del post-drammatico e del post-qualunque cosa, ma nel quale in verità ben poco è cambiato da almeno trent’anni.