Itaca per sempre – Intervista a Woody Neri e Maura Pettorruso

Itaca per sempre – Intervista a Woody Neri e Maura Pettorruso

Itaca per sempre di Andrea Baracco e TrentoSpettacoli è uno spettacolo che trova la propria linfa poetica nell’epica dell’Odissea, così densa di significati e simbologie, con il preciso intento di raccogliere i suoi protagonisti, Ulisse e Penelope, per sottrarli da quel mondo mitologico e consegnarli al teatro solo come due vecchi amanti, che dopo venti anni si rincontrano.

Itaca per Sempre

Itaca per Sempre

Il progetto nasce dall’incontro tra due realtà diverse: insieme a TrentoSpettacoli, una piccola compagnia in espansione, formatasi nel 2010 e con base logistica allo Spazio Off di Trento, la produzione di Itaca Per Sempre si è arricchita grazie all’intervento registico di Andrea Baracco, regista romano di grande esperienza, che affonda le radici del proprio lavoro nei grandi classici della letteratura come in quella contemporanea. Il ponte che ha permesso il contatto fra questi due nomi, così lontani per background e luoghi di provenienza, viene fuori grazie alla decennale amicizia tra Woody Neri e Maura Pettorruso, che abbiamo intervistato dopo essere stati in scena al Teatro Argot Studio di Roma dal 12 al 17 marzo con Itaca per sempre.

Maura PettorrusoLa compagnia TrentoSpettacoli di cui io faccio parte e con la quale ogni tanto Woody, che conosco da dieci anni ormai, collabora da freelance, è una realtà che ha sede in Trentino e che spesso si appoggia a professionisti esterni e ad altre persone fuori dalla regione. La compagnia ha una decina di anni di vita, è una compagnia ministeriale e quindi stiamo seguendo un percorso. Per questo è molto importante poter aprire a professionalità come nel caso di Andrea Baracco. Noi lavoriamo quasi sempre sulla drammaturgia contemporanea e su testi scritti da autori contemporanei; l’incontro con Maria Teresa Berardelli, la drammaturga, rientra in questo genere di operazione. 

Woody Neri: Conosco Andrea dal 2014, quando abbiamo fatto insieme Hamlet. Questo è il quinto spettacolo che faccio con lui. Ci piaceva l’idea di fare una cosa diversa rispetto al suo standard abituale di grandezza, sia per quanto riguarda il testo sia per gli allestimenti. Ci piaceva l’idea di lavorare su una drammaturgia che ci sembrava più intima, lavorare su un progetto più piccolo. Questa ci è sembrata l’occasione giusta!

Itaca per Sempre

Itaca per Sempre

Itaca per sempre è un adattamento teatrale, ad opera della drammaturga Maria Teresa Berardelli, dell’omonimo romanzo di Luigi Malerba

Nel libro, l’autore si poneva come obiettivo quello di umanizzare le figure epiche di Ulisse e Penelope, prendendole in uno dei momenti più toccanti dell’Odissea: il ritorno a Itaca dell’eroe ed il ricongiungimento con la sua sposa.

Malerba apporta delle modifiche rispetto all’XIII libro dell’opera di Omero. Non solo un Ulisse meno eroico e molto più insicuro, ma anche una Penelope che, nonostante l’immediato riconoscimento del marito, elemento questo del tutto assente nel testo epico, si ritrova combattuta sui propri sentimenti di fronte a un uomo ormai sconosciuto. In scena non più due grandi archetipi della letteratura occidentale, ma due persone che vivono il dramma dell’incomunicabilità e dell’incomprensione. Gli attori ci parlano della difficoltà non solo nel vestire i panni di due figure così grandi, ma soprattutto quella di vivere un dolore e un’angoscia così umane e drammatiche sulla scena.

M: Penso sia stato il lavoro più complesso in assoluto. Sono due personaggi, oltre che epici, archetipi di un’intera cultura. La necessità della drammaturga, ma anche quella di Andrea, era di accompagnarci in qualcosa di più profondo: qualcosa che dovesse parlare all’umano. Questo vuol dire calarsi drasticamente e faticosamente, cercando di mettere in conflitto quello che è il mito con qualcosa di molto più piccolo che deve appartenere a noi. La strada più difficile è stata sicuramente trovare questo accordo.

W: Quando affronti dei personaggi di questo tipo che sono degli archetipi quasi freudiani, l’errore che puoi fare è partire dal piedistallo, mettendoli sull’altare. Da lì invece devi toglierli, come poi fa Malerba: umanizzarli e portarli a una dimensione quasi domestica. In questo terreno, dove ci sono due esseri umani che si rincontrano dopo venti anni di lontananza, risiede il nocciolo centrale del discorso, da qui devi partire: da due solitudine che si incontrano. 

Itaca per Sempre

Itaca per Sempre

I due sposi separati dal Fato si portano con loro un conflitto di simboli profondi: Ulisse il mare, l’instabilità e il viaggio mentre Penelope la Terra, la stabilità, l’attesa ma anche la fertilità

Lo svolgimento è quello dell’epos, ciò che cambia però è il rapporto tra i due. Entrambi per ragioni diverse sono insicuri e confusi di fronte all’altro. Il tanto atteso ricongiungimento ora assume una piega inaspettata, amara.

Penelope non riconosce più l’uomo che la lasciò venti anni prima e invece di accoglierlo lo affronta, armata di profondo risentimento per la lunga attesa. Ulisse, che dopo aver affrontato incredibili imprese in mare ed aver sterminato i proci nella sala del trono, si ritrova incapace di decifrare i comportamenti della moglie; né la sua astuzia, la quale gli si ritorce contro invece di favorirlo come nel mito, né le cicatrici e neppure i suoi ricordi riescono a ricucire il rapporto con Penelope. L’eroe, dopo tanto penare nella propria Itaca, deciderà infine di abbandonare il mare, compagno e nemico nelle proprie avventure: cederà la propria natura eroica ed irrequieta per la stabilità ma anche per la maturità. Solo così potrà veramente ricongiungersi con la sua sposa.

MQuesto testo parla in particolare di solitudine, di lontananza, di tempo sprecato ma soprattutto di incapacità di comunicare. Banalmente, dopo venti anni si cambia e non ci si riconosce, anche per la vita che ti porti addosso. Come ci si riconosce? Come davvero io posso sapere che tu sei tu? Stante il fatto che siamo quello che viviamo. Credo sia questa la potenza dei miti: essi non rimangono staccati ma continuano a risuonare.

W: Quello di Ulisse non è semplicemente un ritorno a casa. Il difficile non è sgominare i proci, perché quello ha a che fare con il mito, rientra nell’Ulisse classico, l’Ulisse che conosciamo e che tutti vogliamo vedere. La conquista è tutta un’altra: la partita è tutta un’altra ed è su un piano più intimo che c’entra con il riconoscimento. Il riconoscimento ha a che fare con l’identità.
Ulisse non è più quell’Ulisse del cavallo, della guerra, l’eroe multiforme. Deve scegliere. Scegliere vuol dire essere maturi perché bisogna scegliere di essere mariti, compagni, padri. Sceglie di essere quell’Ulisse. Sceglie Itaca. Da un certo punto di vista sceglie di smettere di fuggire, sceglie di stare. Questa è la sua vera battaglia.

Itaca per Sempre

Itaca per Sempre

La cura della dimensione spaziale

Prestigiosa la messa in scena, fatta di vasche d’acqua dove nuotano oggetti e tende, elemento apparentemente casalingo dove Penelope si rifugia, ma che con Ulisse si gonfiano di vento come vele in tempesta.

Uno spazio scenico suggestivo dove i personaggi si muovono come persi in quello che assume le sembianze di un labirinto, tanto per attingere a un altro mito e a un’altra coppia, quella di Teseo e Arianna. Il labirinto delle vasche dove i due sposi si affrontano e si ritrovano è quello dell’Io, fatto di ricordi, di esperienze, ma anche di irrazionalità e di paura.

Ulisse spesso si bagna nell’acqua delle vasche, come per ritrovare sé stesso nella rocciosa spiaggia di Itaca. Il massacro dei proci è la dimostrazione di questo: Ulisse colpisce l’acqua con cieca feroce inondando il palco, la manifestazione della sua forza che ne sancisce il ruolo di eroe tornato dalla guerra di Troia. L’acqua simboleggia il sangue ma quello stesso sangue che inonda la sala è l’affermazione del sé attraverso la violenza; Penelope però, in questa interpretazione del mito, rifiuta il gesto, reagendo con orrore. Non importano le cicatrici, la violenza del massacro e neppure i ricordi: Ulisse non avrà la sua sposa fino a che non ammainerà la vela della propria nave decidendo di rimanere a terra.

M: Nella mia suggestione quest’acqua, queste vasche, sono come delle sfere di ricordi dove galleggiano dei mondi che oramai sono chiusi in loro stessi; in questi però c’è tutta la divisione fra loro due. Questi acquari sono anche il confine che io come Penelope non posso varcare e la decisione fondamentale per la quale lui deve abbandonare il mare. È stato un lavoro complesso quello con la scenografia perché è molto suggestiva. Trovare la concretezza dentro questo mondo evocato è stata una sfida grande. Non si tratta di un’installazione ma è come se fosse un terzo personaggio in scena.

W: Innanzitutto appena le ho viste mi è sembrato una sorta di museo paleontologico: mi è sembrato un po’ il museo di Ulisse, con quello che si è portato dal viaggio, con i suoi ricordi, le sue cose, il suo mito, che però ora, lì ad Itaca, non vale più. L’acqua è l’elemento in cui lui è sé stesso, il mare è il suo compagno di tanti anni, mentre adesso lì sulla terra ferma, in casa, non sa più chi sia. Come i grandi campioni che hanno la teca con le coppe. C’è un rapporto d’affetto di quegli oggetti, ma anche di timore: come se stessero lì a ricordargli che lui non sarà più il suo mito. Questo è il processo decisivo per abbandonare l’eroe Ulisse e arrivare ad essere l’uomo Ulisse.

InvisibilMente e Perdere la Faccia di Menoventi. Intervista al regista Gianni Farina

InvisibilMente e Perdere la Faccia di Menoventi. Intervista al regista Gianni Farina

Un bizzarro scherzo del destino: è questa la definizione migliore sia per InvisibilMente, spettacolo della compagnia Menoventi, andato in scena al Teatro Argot Studio di Roma il 27 e il 28 febbraio, sia per il successivo Perdere la faccia, cortometraggio – o presunto tale – del regista Daniele Ciprì.

Un progetto binario che affonda le radici nel teatro dell’Assurdo a cura del regista Gianni Farina, intervistato a caldo dopo il grande successo ottenuto nel teatro storico di Trastevere.

InvisibilMente - Compagnia Menoventi

InvisibilMente – Compagnia Menoventi

In InvisibilMente ad accogliere il pubblico solo uno schermo nero sullo sfondo, con un’unica scritta in bianco: “Benvenuti”

Gli attori, nelle vesti di due maschere malcapitate, cercano di rabbonire il pubblico prima che lo spettacolo cominci; vengono però inesorabilmente schiacciati dall’incapacità di gestire la situazione. Nel frattempo, una presenza incombe alle loro spalle, come un dio burlone il cui potere sui presenti rimane etereo e incomprensibile.

La compagnia nasce nel 2005, dalle tre persone viste in azione oggi: Alessandro Miele, Consuelo Battiston ed io alla regia – ricorda Gianni Farina. Adesso Alessandro vive a Lecce e ha formato un suo gruppo, Crocco/Miele e diciamo che il nucleo della compagnia è costituito da me e Consuelo, però in tutti i progetti ci avvaliamo di collaborazione esterne. Questo spettacolo è del 2008 e ha quasi undici anni: noi lo sentiamo ancora vivace, non molla e continuiamo a farlo.

Nasce però da tutt’altre premesse: noi volevamo fare uno spettacolo sul Giudizio Universale. Abbiamo provato a lungo cose legate a quella tematica e abbiamo focalizzato la nostra riflessione su un testo di Hillman che parlava della rivelazione, ovvero cosa accade quando c’è l’epifania di un’entità: il rischio è che a volte questa rivelazione venga presa alla lettera e quindi il confine tra la rivelazione e la paranoia sia sottilissimo.

Durante le prove eravamo un po’ bloccati e così, per gioco, Alessandro e Consuelo hanno improvvisato quello che poi sarebbe diventato il nostro spettacolo: i principi di questo lavoro sono nati da una loro improvvisazione che a me era piaciuta e che comunque rimaneva legata al Giudizio, all’epifania ma anche alla paranoia e, al controllo. Andando a rileggere Orwell abbiamo ovviamente messo le mani su quella improvvisazione, rimodellando molte cose. Però la linea guida a quel punto era 1984 di Orwell e non più il Giudizio Universale.

InvisibilMente - Compagnia Menoventi

InvisibilMente – Compagnia Menoventi

Metodo di lavoro della compagnia Menoventi

Uno spettacolo simile si deve anche all’iniziale metodo di lavoro che ha contraddistinto la compagnia Menoventi nel percorso di ricerca e sperimentazione: una costante messa in discussione di qualsiasi elemento, come il testo a cui si fa riferimento, un’idea da cui si era partiti o l’intero spettacolo, a vantaggio invece della spontaneità dell’improvvisazione sul palcoscenico.

Il nostro metodo di lavoro inizialmente era una sorta di scrittura scenica portata all’estremo: all’epoca si saliva sul palco proprio senza aver scritto nulla, magari avendo letto tante cose ma senza avere un’idea precisa di quello che saremmo andati a fare. Un tema, un filo conduttore, un’atmosfera c’è ma anche questi assunti di base vengono traditi da un’improvvisazione felice capace di farci cambiare bersaglio. È un termine che non utilizziamo più adesso, un tempo però parlavamo di metodo stocastico dagli studi di Bateson. Stocastico significava scagliare una freccia verso un bersaglio: se la freccia colpisce un altro bersaglio e non quello verso il quale miravi, forse è il caso di cambiare obiettivo e quindi di prendere un tiro particolarmente infelice come invece un tiro particolarmente felice.

La compagnia, contraddistinta da una grande libertà espressiva, si cimenta in una rappresentazione incentrata sul controllo dei sentimenti provocati agli spettatori. Ogni movimento, ogni sussurro dei due attori verrà dato in pasto al pubblico, senza possibilità di salvezza. Ma è veramente così potente il pubblico o anche questo è uno strumento dell’azione scenica il cui unico burattinaio è proprio lo schermo? Sicuramente l’elemento elettronico dello schermo rapisce lo sguardo dello spettatore facendogli a volte perfino dimenticare della scena e degli attori.

Il pubblico si sente osservato, catturato da questa entità invisibile – dice Gianni Farina – questa mente invisibile finora ha controllato solo i protagonisti di questa sfortunata tragicomica vicenda, ma nella seconda parte il pubblico viene chiamato in causa. C’è un piccolo lavoro statistico: lo spettacolo è cambiato un po’ dopo il debutto perché abbiamo cercato di raffinare le due o tre slides che prevedono le azioni e i pensieri del pubblico. Replica dopo replica, abbiamo capito, per esempio, che in certi punti ridevano sempre, e quando noi lo scrivevamo nelle volte successive il riso spariva.

InvisibilMente - Compagnia Menoventi

InvisibilMente – Compagnia Menoventi

E così si passa dall’ironia alla tragedia in un colpo. Inoltre abbiamo capito quando il pubblico concede l’applauso di incoraggiamento ai tecnici e quando no. Questa piccola statistica ci ha permesso di lavorare delle strategie di inclusione dello spettatore dentro questa vicenda. È stato abbastanza semplice in realtà perché ci siamo resi conto che la massa, anche la piccola massa o il gruppo è facilmente manipolabile.

Basta poco affinché i ruoli si scambino, e chi pensa di essere vittima diventi ben presto carnefice. Il pubblico, che ride delle due povere maschere umiliate dallo schermo, è sia complice quanto vittima dello stesso beffardo gioco che viene inflitto sulla scena.
Alessandro Miele e Consuelo Battiston, presenti sulla scena, sono a stretto contatto con il pubblico e questo permette di cogliere al meglio l’unica forma di protesta che gli rimane: l’espressione facciale.

Questa viene calcata fino a diventare quasi una smorfia orribile di dolore, unica manifestazione di insofferenza rispetto al peso della situazione o della propria condizione. È interessante come quest’arma della smorfia, spesso più sfruttata cinematograficamente, possa essere preservata nel suo potenziale espressivo grazie alla struttura stessa dello spettacolo.

 

Perdere la faccia 

Sempre la compagnia Menoventi al Teatro Argot Studio di Roma, nei giorni seguenti a InvisibilMente, ha presentato Perdere la Faccia, cortometraggio – o presunto tale – del regista Daniele Ciprì. Anche in questo spettacolo la compagnia gioca con lo spettatore sfruttando e sconvolgendo quelle meccaniche basilari dell’intrattenimento. Perdere la Faccia viene presentato come la proiezione di un cortometraggio con tanto di telo abbassato e telefonata al regista Daniele Ciprì. A presentarlo ci sono gli attori Alessandro Miele e Consuelo Battiston. Non ci vuole molto a capire, fin dai primi minuti, e soprattutto con la telefonata al regista, che qualcosa non vada, come se non fosse reale. Poi buio.

Nessun cortometraggio. Appena si riaccendono le luci, la presentazione viene ripetuta in maniera automatica, con una meccanicità angosciante. Via via però si accumulano errori e imperfezioni. La telefonata svanisce e con esso anche il telo, ma da dietro a questo compare un elemento di disturbo nuovo: Rita Felicetti nei panni di una persona qualsiasi, che senza volerlo distrae il pubblico, invitando al tempo stesso a seguire i presentatori. Questo Puck contemporaneo, continua a prendersi gioco dei presenti in loop, prima invitando il pubblico a festeggiare un compleanno, poi modificando la situazione a suo piacimento, facendogli prendere sempre più un aspetto imperfetto e inquietante.

Perdere la Faccia è un climax ascendente che parte dall’entusiasmo della presentazione di un lavoro straordinario e discende fino a riflettere intorno alla frustrazione, alla sofferenza e al disagio. L’intera situazione prende tinte surreali, sia per tutti quegli elementi di disturbo, sia per le dinamiche registiche che contraddistinguono il lavoro della compagnia come in InvisibilMente.

Entrambi gli spettacoli portati al Teatro Argot Studio ricalcano il gusto di sperimentare della compagnia Menoventi, soprattutto nella loro capacità di giocare con la grammatica teatrale e dello spettacolo più in generale, ma anche per l’uso attivo della regia, quasi come ci fosse un terzo attore, una mano invisibile sempre presente sulla scena.

DRAMMATURGIA:  Un Tramezzino Tautologico di Mauro Tiberi

DRAMMATURGIA: Un Tramezzino Tautologico di Mauro Tiberi

Un tramezzino tautologico Di Mauro Tiberi

Un tramezzino tautologico Di Mauro Tiberitr

Vincitore del premio come Miglior Drammaturgia nella VII edizione del Fringe Festival di Roma, Tramezzino Tautologico di Mauro Tiberi è un’opera le cui parole pesano come cemento sulle corde della nostra sensibilità. In scena un uomo e la propria abitazione, spartana e fatiscente, dove è presente il minimo indispensabile per la sopravvivenza dell’artista: una libreria ricca di titoli si contrappone a un tavolo e a un piano cottura desolati e spogli su cui prepara il suo spuntino, grottescamente composto da un tozzo di pane raffermo e da una sottiletta di formaggio, recuperata dal frigo assieme a una bottiglia d’acqua, uno dei segni salienti di un beffardo ritratto della solitudine. Una telefonata e poi una registrazione; la lettura di una fiaba alla propria nipote, che si trasforma nell’urlo disperato di un uomo senza prospettive.

Mauro Tiberi, autore ed interprete di questo toccante monologo, interpreta un autore di teatro scontroso, burbero e volgare, anzi volgarissimo, che non si fa problemi ad aprirsi con tutto sé stesso alla propria nipotina, forse da lui considerata come l’unica anima pura rimasta rispetto ai suoi simili che lo hanno confinato nell’inferno dell’incomprensione e nel dolore di un amore non ricambiato. E, come se non bastasse, uno spettro aleggia nella conversazione: la depressione.

Tramezzino Tautologico è la dimostrazione di un teatro le cui parole e la cui scena sono una spaventosa diapositiva della nostra condizione fragile e indifesa: un essere umano piccolo e mediocre, fatto di velleità, di volgarità e di capricci e, purtroppo, anche di dolore. Una rappresentazione dell’essere umano così viva e vera sulla scena da prendere alla gola lo spettatore battuta dopo battuta.

 

 

Intervista a Mauro Tiberi

Sono nato a Roma il 28 luglio del 1989 ma abito a Pomezia. Questo credo che basti a racchiudere un po’ tutte le questioni. Aggiungerei anche un appunto sulla mia menomazione alla mano destra e sui miei problemi di balbuzie. Ecco, ora il profilo del personaggio è completo.

Mi sono sempre un po’ sentito ai margini di ogni cosa pur facendone parte.

C’è chi dice che la marginalità sia uno degli ingredienti fondamentali dell’arte come anche la sofferenza, la cirrosi e la gonorrea. Per quanto riguarda le ultime due ci sto ancora lavorando.

Quando ho scoperto il mondo del teatro nel 2006 le mie prospettive e la visione d’insieme di me stesso sono drasticamente cambiate. Mi sono fin da subito reso conto che in scena non balbettavo e che la mia mano non si notava. Poi, nel corso degli anni, anche Pomezia è diventata una valida alleata. Una sorta di punto di riferimento da osteggiare e combattere con la lama tagliente dell’ironia.

E’ stata un’esplosione di vivacità espressiva. Ho iniziato a scrivere e ad aver bisogno di un palco in un rapporto di totale dipendenza da esso.

C’ho messo un po’. Sono anche una persona molto lenta. Nel 2016 mi sono iscritto a Teatro Azione e ho scelto, in un ritardo massimo, di dedicarmi esclusivamente alle mie velleità artistiche perché per me il teatro non è solo un luogo in cui esprimere qualcosa. E’ l’unico luogo in cui non mi sento a disagio, dove il disprezzo che nutro a livello molecolare verso me stesso viene meno.

L’essere umano è l’unico a percepirsi nel mondo che lo circonda. E’ l’unico a dire “che fame! Ho bisogno di cibo ma prima devo calarmi un lexotan perché la vita è indubbiamente intollerabile sotto ogni punto di vista”. Per me quel lexotan è il teatro. Mi rasserena, paradossalmente interrompe quel moto di dissociazione dalla realtà e mi fa tornare la voglia di avere rapporti sessuali al limite dell’indecenza.

 

Leggi un estratto di Tramezzino Tautologico

La Classe, un docupuppets per marionette e uomini. Intervista alla regista Fabiana Iacozzilli

La Classe, un docupuppets per marionette e uomini. Intervista alla regista Fabiana Iacozzilli

Al Teatro Argot Studio di Roma, dal 12 al 17 e poi dal 22 al 24 febbraio, è andato in scena La Classe di Fabiana Iacozzili alla regia insieme al collettivo CrAnPi. L’opera è contraddistinta da una grammatica complessa e poliedrica che assume le forme di un docupuppets, in cui i ricordi della regista, vengono portati sul palcoscenico attraverso l’ausilio di marionette.

La narrazione drammatica è incentrata sull’esperienza della regista e dei suoi compagni di classe alle elementari, all’interno dell’Istituto Suore di Carità e della loro maestra: Suor Lidia.

“Si tratta di un processo lungo, quasi di analisi, perché il mio lavoro è iniziato due anni fa con l’idea di raccontare questo episodio dell’infanzia all’interno di questo istituto di suore. All’inizio sapevo l’argomento ma non sapevo ancora come svilupparlo. Così, in prima battuta, ho sentito l’esigenza di andare a ricreare quella comunità che era la mia classe: ho contattato tramite Facebook buona parte dei miei compagni di scuola, di cui solo una parte ha accettato di essere intervistata. È interessante come alcuni si ricordassero delle cose, mentre altri avevano dimenticato le più importanti e dolorose. Ho avuto modo di riflettere sul senso della memoria: ognuno di noi decide di ricordare o decide di abbandonare i propri ricordi nel luogo oscuro del proprio sé. Una volta intervistati, ho accumulato tutto questo materiale ed ho iniziato a pensare alla messa in scena. Sono arrivata al teatro di figura per due necessità fondamentali: la prima è che avevo bisogno di un linguaggio che non mi facesse cadere nel rischio del sentimentalismo, era molto rischioso vista la materia in questione; l’altra ragione è perché mi serviva qualcosa che universalizzasse un episodio invece biografico. Sono arrivata all’intuizione della marionetta che per così dire porta in sé qualcosa di assoluto, senza patetismo, e mi sembrava la giusta strada da percorrere per uno spettacolo che parla di bambini vessati. Sempre perché volevo cercare degli agganci che mi facessero uscire dal fatto autobiografico ho iniziato a studiare molto I Cannibali di Tabori e a prendere spunto da La Classe Morta di Kantor.”

Fiammetta Mandich è la scenografa e la realizzatrice delle marionette, create a immagine e somiglianza dei suoi compagni grazie a vecchie fotografie. Le marionette si muovono su banchi su ruote, su una scena che alterna luci soffuse e momenti di buio profondo. Nel buio, come fantasmi, si odono le voci registrate di quei compagni di classe ormai cresciuti: ridono, commentano aspramente, ricordano nostalgicamente o con rabbia e qualcuno non potrà dimenticare mai la sofferenza e l’umiliazione. Echeggiano come fantasmi, dove invece le marionette esprimono un’umanità con cui è impossibile non empatizzare. Merito anche del talento degli attori e marionettisti, che gestiscono alla perfezione una scenografia complessa e in costante evoluzione per tutto il corso dello spettacolo.

“Ovviamente quando sono partita ho avuto il bisogno di chiamare dei professionisti: io fino a questo momento avevo fatto tutt’altro. Ho studiato moltissimo ma avevo comunque bisogno di qualcuno che mi mostrasse la strada. Loro sono cinque: tre di loro sono dei professionisti della figura (Michela Aiello, Andrei Balan, Antonia D’Amore), e, siccome sentivo il bisogno di avere anche degli attori Marta Meneghetti, che ha collaborato alla drammaturgia ed è da anni nella compagnia e infine Francesco Meloni, un bravissimo performer che si è prestato, come Marta, alla figura.”

Ma a venire dall’alto non è soltanto la voce dei compagni ormai cresciuti, ma anche la voce di Suor Lidia che risuona nella sala come la voce di un Dio severo e impietoso. Le marionette tremano, chinano il capo, e vengono tirate, quasi strappate. Le terribili punizioni fisiche, le umiliazioni verbali, il ritratto di una scuola che sembra non sparire mai. Ma Suor Lidia non è soltanto bieca violenza e vessazione: nelle parole nei compagni e nei ricordi della regista, suor Lidia è una madre imperfetta, nel suo nubilato costretta come nel ruolo di maestra, un’educatrice antiquata.

“Ho cominciato a lavorare volendo raccontare gli abusi che avevo subito e di conseguenza sono partita da un forte odio nei confronti di questa figura determinante nella mia vita; poi andando avanti ho trovato la chiave dello spettacolo nel momento in cui ho abbandonato la rabbia iniziale e mi sono resa conto che era uno spettacolo che parlava di vocazioni, la mia e la sua e di come il comportamento della suora abbia influito sulla mia vita. Sono riuscita a raccontare più sfaccettature di questa suora nel momento in cui ho ritrovato la suora in me.”

Anche Fabiana Iacozzilli racconta la sua durezza e severità come regista e lo spirito materno latente, ricordando il primo spettacolo e come Suor Lidia, fino a quel momento aguzzino delle proprie vittime, l’abbia sostenuta amorevolmente. “Una cosa che mi piacerebbe che accadesse e a volte accade è che esci dallo spettacolo e ti chiedi: chi è la mia suor Lidia? Oppure: io sono la suor Lidia di qualcun altro?”

L’esperienza con il teatro di figura e il confronto e la coesione in un unico lavoro di plurimi linguaggi aprono un’interessante parentesi sullo scetticismo rispetto ad un opera incentrata sulla drammaturgia dell’immagine.

“È un anno e mezzo che lavoro con questo linguaggio e secondo me questo è uno spettacolo non di marionette, ma con marionette perché c’è tanto altro. Detto questo, la cosa che mi ha un po’ scioccata è che in Italia ci sia una così forte divisione fra il teatro e il teatro di figura. Sono rimasta interdetta. Il teatro di figura si associa troppo spesso al teatro per bambini e trovo che in Italia questo sia un limite rispetto al resto dell’Europa”.

Parolacce Sottovoce. Il difficile percorso di umanizzazione e integrazione

Parolacce Sottovoce. Il difficile percorso di umanizzazione e integrazione

 Parolacce Sottovoce

Parolacce Sottovoce

Al Teatro Trastevere di Roma è andato in scena Parolacce Sottovoce, scritto e diretto da Yasmine Bouabid. L’opera nata nel 2017, dal 2018 parte del progetto Accoglienze!, racconta la difficile integrazione di Mariem, una liceale di origini arabe, che vive ogni giorno sulla sua pelle la chiusura mentale del proprio nucleo familiare e l’ostilità feroce della società in cui è inserita.

Un tema, così delicato e contemporaneo quale quello dell’integrazione, viene portato sul palco adottando la prospettiva esistenziale di due adolescenti: Mariem e la sua amica Eva, una ragazza omosessuale vivace quanto sregolata. Benedetta Cassio, l’attrice che interpreta quest’ultima, ci espone quale sia il potenziale di questo testo: « L’umanizzazione di determinate figure è qualcosa in cui questo testo riesce in maniera semplice ed efficace: rendersi conto che i temi qui trattati sono universali e che anche il musulmano può essere razzista senza realizzare di essere lui, in primis, vittima del razzismo. »

Umanizzare il diverso: come se oggi fosse ancora necessario ricordare che chi è diverso da noi, per cultura o religione, non possa permettersi di condividere le nostre stesse ambizioni e speranze, le nostre paure e insicurezze per il futuro o, perché no, la nostra meschinità, la nostra maleducazione e la nostra venalità.

Parolacce Sottovoce è un’opera di Yasmine Bouabid, giovane drammaturga italo-tunisina che desidera raccontare una storia comune, attraverso il linguaggio e l’impulsività di un gruppo di giovani adolescenti, del quale fa parte anche Mariem, la protagonista interpretata da Eleonora Muzzi: «Credo che sia importante cercare attraverso il teatro di sensibilizzare le persone. Troppo spesso ormai è diventata abitudine incollare delle etichette, facendo di tutta l’erba un fascio. Nessuno più fa lo sforzo di capire se quella di fronte è una persona che merita, che vale o che può realizzare qualcosa, ma è più facile fermarsi al fatto che sia un immigrato. Sicuramente mi piacerebbe tanto che le persone che venissero a vedere questo spettacolo uscissero ponendosi poi delle domande; non so se ci riesco o ci riuscirò, ma sicuramente è una delle tante missioni che ho e che mi spingono a fare questo mestiere.»

 Parolacce Sottovoce

Parolacce Sottovoce

Etichette come quella che Mariem trova scritta nel bagno delle ragazze, che recita “Musulmana di merda”. Mariem è una liceale che vorrebbe fare della propria arte il proprio futuro, ma suo padre, interpretato da Mauro Tiberi, ha già scelto per lei: andrà a Marsiglia e farà medicina. La madre, interpretata da Simona Vazzoler, tace, limitata e limitandosi nel proprio ruolo di moglie devota. Mariem, man mano che frequenterà Eva, si troverà sempre più in attrito con la sua famiglia. Mauro Tiberi porta in evidenza come questa sia una condizione comune in una realtà come quella degli immigrati di seconda generazione:

«La protagonista di questo testo è un’immigrata di seconda generazione, che è un’entità sociale un po’ dimenticata qui in Italia, anche perché a livello politico o di cronaca, c’è altro di cui parlare, ma sulla quale invece questo testo punta i riflettori.

Parolacce Sottovoce racconta la condizione di chi è nato sul suolo italiano ma, al tempo stesso, è nato anche all’interno di una casa in cui le figure genitoriali sono molto forti, dove c’è una cultura molto presente e, soprattutto, una religione molto pressante; in questo senso, è interessante vedere nel personaggio di Mariem come questi due mondi si mettano in conflitto. Un conflitto che inizialmente è anche dolce, quasi non percepito da lei, ma che poi va sempre più in fondo alla questione. Trovo affascinante come queste due entità, come appunto quello dell’omosessualità e della ribellione e poi quello della famiglia e della responsabilità siano sempre vissute da un’adolescente.»

Negli spaccati di vita quotidiana, che possono sembrare tanto diversi per un velo, per una tunica o per una preghiera in casa, si riscoprono invece tutte le cose che ci accomunano come esseri umani. Yasmine Bouabid racconta di come la prima difficoltà fosse rappresentata dall’origine italiana degli attori e quindi su come si potesse al meglio rappresentare questa famiglia, senza risultare fuori luogo, per esempio con l’ausilio di un accento che li caratterizzasse. Simona Vazzoler mostra invece come un’iniziale perplessità si sia poi rivelata una risorsa fondamentale nella rappresentazione di questo nucleo famigliare, quasi ad avvalorare la tesi:

« È stato interessante andare ad immergersi in questa cultura nuova e sconosciuta: in questo Yasmine ha giocato ruolo fondamentale, non presentandola mai come nuova; infatti poi, andando bene a vedere le cose e lavorandoci, ci siamo accorti che il rigore di questi genitori, la loro chiusura mentale o la paura per il futuro di questa figlia che vuole fare l’artista è qualcosa che si riscontra in qualsiasi cultura.»

 Parolacce Sottovoce

Parolacce Sottovoce

Diversi, ma diversi rispetto a chi? Qui si ritorna all’umanizzazione e alla quotidianità rappresentata sulla scena. Eva lancia Mariem all’interno del proprio gruppo di amiche, ragazze lesbiche come lei, interpretate da Simona Vazzoler e da Ethel Fanti Ciupi, facendo riscoprire alla ragazza non solo le piccole trasgressione adolescenziali quali la sigaretta, l’alcool o la droga, ma anche una nuova leggerezza, un diverso modo di affrontare la vita e di vedere le cose. Fondamentale una scena in cui il padre di Mariem si rifiuta di guardare in televisione una manifestazione di omosessuali, poiché si tratta di individui contro natura; la figlia allora sottolinea come entrambi all’interno di questa società siano nella stessa condizione di emarginati.

Ci dice a riguardo Eleonora Muzzi: « Non c’è bisogno di andare dall’altra parte del proprio paese o all’opposto del proprio stile di vita per far uscire fuori il fatto che tra musulmani e omosessuali non c’è differenza, come sono diversi e come siamo tutti diversi. Per accettare il diverso non posso andare contro al diverso stesso. Come si sente diversa Mariem si sentono un po’ tutti diversi, ed è forse questa la caratteristica che ci rende umani e ci accomuna.»

Un finale agrodolce chiude la storia, come giusto che sia,  rappresentando in modo così fedele la nostra realtà. Parolacce Sottovoce è uno spettacolo che ha l’intento di rompere quelle barriere che quotidianamente ci poniamo o ci vengono poste davanti, come quella della lingua, dell’ideologia, della religione o della cultura, riflettendo come invece siamo tutti umani e per questo fallibili.