La sfida di Atir sotto la prima stella della sera

La sfida di Atir sotto la prima stella della sera

L’estate di questo difficile 2020 comincia, poco alla volta, ad allentare la morsa. Queste settimane stanno inevitabilmente rievocando, in chi ha dovuto rinunciarvi a malincuore, l’urgenza di tornare a respirare in perimetri più larghi di poche centinaia di metri. E di ritrovare l’arte, la cultura che l’emergenza ha ridotto, nelle parole delle istituzioni, a nient’altro che intrattenimento. E che, pure in questa veste, non perderebbe di dignità.

Quanto sia avvertito questo bisogno, però, è un interrogativo che tutto il sistema culturale italiano deve porsi. Quando sono state toccate con mano la paura e il dolore, ci si sente ancora parte di un mondo che ha bisogno degli artisti, che non può farne a meno?
Chiunque decida di andare in scena, all’indomani del lockdown, sta ponendo questa domanda. Agli altri e a sé stesso. E in questo interrogativo c’è già una sfida, forse la più difficile in assoluto: la propria ricerca di senso.

Atir
La prima stella della sera – Parco della Chiesa Rossa

Ma cosa succede se, in questa situazione già difficile, si sceglie di raddoppiare la posta in gioco? È quello che ha fatto Atir, che davanti al proverbiale bivio, ha scelto, ancora una volta, la strada meno battuta. Senza sede da diversi anni, non è bastata neanche una pandemia globale a far deviare o a rallentare il lavoro decennale della compagnia nella periferia sud di Milano. Non c’è un teatro? Ci si sposta nel Parco della Chiesa Rossa, a poche centinaia di metri dalla piana della storica sede.

È qui che, con le disposizioni sanitarie accuratamente rispettate, tra misurazioni della temperatura, biglietti acquistati e obliterati digitalmente e attento distanziamento, è andata in scena nel mese di luglio, per 22 serate, la vera, grande scommessa che si è scelto di chiamare La prima stella della sera.

In un tempo in cui i teatri che sono riusciti a riaprire cercano di ottimizzare le limitazioni con nomi di richiamo e operazioni suggestive, la compagnia di Serena Sinigallia e socie sceglie la via più rischiosa di tutte: il buio. Senza scenografia, su un piccolo palco che deve farsi bastare poco più dell’illuminazione naturale, davanti alla limitata platea posta nel verde, si accende, ogni sera, una “prima stella” a sorpresa.

Accanto allo spettacolo per bambini di Mila Boeri e David Remondini, Amici per la pelle, una co-produzione Atir/Teatro del Buratto, gli altri 21 sono tutti appuntamenti al buio. Lella Costa, Cristina Crippa, Nadia Del Frate, Mattia Fabris, Matilde Facheris, Paolo Faroni, Manuel Ferreira, Lorenzo Piccolo, Stefano Orlandi, Rita Pelusio, Maria Pilar Pérez Aspa, Fausto Russo Alesi con Fausto Malcovati, Annig Raimondi e Genni D’Aquino, Arianna Scommegna, Chiara Stoppa, Antonello Taurino Giulia Viana, Debora Villa, Sandra Zoccolan, Debora Zuin. I nomi sono importanti, eppure nessuno sa quali occhi incontrerà.

Perché quello che conta è essere «spettacolo vivente con un pubblico vivente» come ama dire Lella Costa, andata in scena nell’assolata, incipiente sera dell’11 luglio. Lei, al primo “chi è di scena” dopo quattro mesi da leonesse in gabbia, di aria che manca, di respiro consueto di attesa, mestiere ed emozione strozzati in gola. Emozioni, come quelle a cui dà corpo rivestendo con grazia e magnetismo l’acuta intelligenza delle parole che Natalia Aspesi da anni offre a chi, sul Venerdì di «La Repubblica», le affida le proprie Questioni di cuore.

Ne emerge un dialogo vivido e denso, che allo spettatore lascia anche un prezioso insegnamento di postura etica. Accompagnata dalla voce di Ornella Vanoni, a Costa basta qualche coloritura regionale per immergere lo spettatore dentro aspre porzioni di sé stesso. Le confidenze offerte a chi non ci è intimo vantano l’impudicizia sufficiente a dire cose di cui dalla platea si sorride o persino si prova a ridere sguaiatamente. Ma che, in fin dei conti, dicono di noi. Donne e uomini. Amori, solitudini, ma anche goffaggini e crudeltà quotidiane più o meno sottili.

Segreti svelati in lettere che sono esattamente ciò che è l’intero progetto, e per questo lo esemplificano perfettamente: incontri tra le persone. Ecco il motivo della sfida di Atir: ciò che conta, come ripete Serena Sinigallia a margine di tutte le repliche, non è chi, ma cosa. Non l’artista come individuo, ma il momento stesso dell’essere insieme. E anche, la reciproca scoperta, il volo senza rete, il tuffo senza salvagente, tanto per chi sta sul palco quanto per chi sta sotto.

Una scelta rischiosa che è, rivendica Sinigallia “un gesto politico” a cui quasi tutto il teatro milanese si è sentito chiamato. Non c’è soltanto tutta la compagnia di Atir, molti degli artisti della rassegna si fanno portatori di altre bandiere: Teatro dell’Elfo, Teatro della Cooperativa, MTM, Almarosè, Nina’s Drag Queen ed Eco di Fondo. L’obiettivo, anche in questo caso, è fare squadra. Compiere insieme una scelta eccezionale, speculare all’eccezionalità del momento.

Costretti a una rassegna di monologhi, farsi voce sola perché si senta la risposta a quella che i promotori lamentano come «la gravissima omissione di cultura e istruzione» che la pandemia ha portato e sta portando con sé.
Una voce che si unisce a quella del pubblico perché, in tutte le repliche, si inanellano sold out che sono la dimostrazione plastica del bisogno di chi fruisce.

La notevole ed entusiastica reazione delle persone, mentre ci si interroga su quello che il teatro di domani sarà o potrà essere, la decodifica con lucidità ancora Sinigallia. Per tanti il teatro e la cultura sono «un ottimo investimento, cura dell’anima e della persona». Una responsabilità che il teatro stesso è chiamato a non eludere, cercando nuove parole per incontrarsi.

Come aveva bisogno di fare la piccola protagonista de Il buio oltre la siepe di Harper Lee, portata in scena da Arianna Scommegna che, con grande eleganza, scivola tra commozione e leggerezza per raccontare dell’opprimente afa emotiva di una realtà di provincia, dove il silenzio oltre il muro è abitato da un fantasma umano e le gentilezze si pagano in legna. Storie che restituiscono l’urgenza del teatro, nelle parole di un padre che insegna ai suoi figli a difendere un uomo.

Ricercare un nuovo senso di comunità passa anche attraverso un nuovo cammino per sé. Come fa la commovente Colombeta ne La Piazza del Diamante di Merce Rodoreda, incarnata da Maria Pilar Perez Aspa, che porta in scena lo spettacolo scenograficamente più compiuto in una prova attorialmente maiuscola. Basta un tavolo e una sporta di poco – dolente – cibo, per far deflagrare la forza di una donna schiacciata da doveri e fatica, che negli occhi degli altri prende l’esistenza stessa di quei colombi a cui è legata, la sua sussistenza ma che, attraverso i propri, trova la forza di immaginare e poi scegliere un altro futuro.

Immaginare, come ha saputo fare Atir, per poi condividere. Aprire uno spazio di empatia – come fa Paolo Faroni col suo Un’ora di niente giocando con ruoli, aspettative e consuetudini per spingerci a guardare oltre, a vedere le persone. Che hanno fame di comunità, di appartenenza. O, come detto, per utilizzare il termine nel significato caro a un milanese illustre come Giorgio Gaber, di libertà. Nel senso di partecipazione.

Ed è proprio la partecipazione la chiave che, nello svolgersi delle serate, ha trasformato la piana Fabio Chiesa in un’opera d’arte partecipata della scenografa Maria Spazzi, in cui tutti, a fine spettacolo, sono invitati a lasciare la propria firma. Il segno della propria scelta di esserci, nell’eco del suono – o delle onde – che si propagano quando, al centro, si lascia cadere una goccia di bellezza o di coraggio. O, per dar luce alle altre, si accende una stella.

La quotidiana sacralità secondo Lucia Calamaro

La quotidiana sacralità secondo Lucia Calamaro

«Tutti i finali dei miei pensieri sono finiti in un luogo che non conosco», dice Silvio, lo stesso luogo dove forse si annidano i finali dei libri che Lucia non riesce più a scrivere. Entrambi hanno suggestioni, creazioni o piuttosto frammenti di sé che «non reggono i metri», sbotta la scrittrice, pensieri «fragili come bambole di porcellana, gonfi di morte». È una eco potente quella che risuona tra i protagonisti degli ultimi due lavori di Lucia Calamaro, dramaturg e regista formata in Francia, da anni tra le penne più interessanti e amate del teatro italiano. Calamaro ha portato nuovamente in scena, alla fine del 2019, due testi che permettono di tracciare un breve, inevitabilmente parziale, quadro della parabola di un talento sorprendente del teatro contemporaneo, che ha scelto una strada di creazione molto personale, che passa per testi scritti e poi portati in scena come abiti cuciti addosso ai suoi protagonisti, per i quali – soli – sono stati intessuti. Un metodo che pretende, innanzitutto, una scelta accurata degli interpreti, tra attori di straordinaria forza espressiva ed emotiva. A cui lascia i propri nomi e che accompagna alla ricerca del proprio sé.

Silvio, ad esempio, protagonista di Si nota all’imbrunire, solitudine di un paese spopolato, è Silvio Orlando nei panni di un uomo che, dopo la vedovanza, sceglie di ritirarsi in un luogo isolato in cui qualsiasi intrusione, in particolare quella dei famigliari, è un’insopportabile violenza. Lucia, la scrittrice di Smarrimento che non riesce più a scrivere e per questo viene forzata dagli editori a una serie di conferenze-incontri col pubblico è invece una Lucia Mascino al suo primo, fortunato monologo teatrale, la cui genesi per lei è dichiarata fin dalla locandina. Come si diceva, la scrittura per Calamaro autrice è il precipitato dell’incontro, una sintesi quasi alchemica in cui l’autrice si specchia e si muove negli occhi dell’interprete, in una mimesi di reciproca possessione che passa attraverso una lingua adamantina, esatta e intimamente poetica, costruita per dire l’indicibile delle pieghe di pensieri che trovano le parole anche quasi oltre la coscienza di chi le pronuncia. Pensieri come lava o magma sotterraneo che emerge dalla crepa di una mente troppo piena che pensa di dire mentre tace, nel caso di Silvio, o zampilli d’esplosione appassionate pur senza perdere la misura di un cammino sempre in sottrazione, nella ricerca spasmodica di Lucia di tendere una mano a chi l’ascolta.

La spicciolaggine antinarrativa del quotidiano

Di queste parole che sgorgano naturali lasciando nel fondo la sensazione del controllo quasi irreale con cui sono scritti, Calamaro fa i compassi utili a tracciare quella che potrebbe apparire una geografia di fallimenti, che danno forma a quella che in Smarrimento chiama la «spicciolaggine antinarrativa del quotidiano», la vena (dorata) di tutti i suoi testi. A fallire, nei due testi, sono però soprattutto le persone che li circondano, gli altri. I figli di Silvio nel primo caso, che fanno lavori che il padre non capisce o vivono di sogni sbagliati e aspirazioni fallimentari, il marito di Lucia nel secondo, che nel suo mondo fatto di padelle e di confronto costante con una moglie vincente e proiettata all’esterno, sente il peso di un’esistenza in cui è inessenziale al mondo. Le personificazioni di chi, sembra suggerire l’autrice, non può, non vuole, non riesce a confrontarsi con se stesso. I due protagonisti, al contrario, scontano la solitudine di chi sa. Convinti o consapevoli di dire, attraverso le mani di Calamaro trovano nella parola un ponte verso l’altro, pur vestendosi entrambi del «fascino delle persone che non si dedicano». Una frase che, non a caso, torna in entrambi i testi. Come dichiarazione di intenti quasi incipitaria, nel caso della scrittrice Lucia, come postura di tutta la pièce nel caso di Silvio, padre burbero che scaccia con fastidio freddo e burrascoso i figli arrivati per passare del tempo con un padre eremita del mondo. Anche in questi due lavori della drammaturga si esalta così la parola, quella parola che, direbbe Testori «si fa vita, si inossa, si fa realtà» , e così, diceva l’autore novatese, si redime dopo decenni in cui anche e soprattutto in teatro è stata vilipesa e calpestata. Una parola che è anche, sempre, rimando letterario, indigesto a entrambi i protagonisti – e di nuovo, nel filo che lega i due testi, lo dicono entrambi in maniera quasi speculare. Tutti e due detestano le citazioni eppure il loro parlare ne è intessuto, costituito con costanza quasi ossessiva. E non può essere altrimenti, nella spasmodica ricerca (che è dell’autrice) del mezzo esatto per l’affidamento di un testimone di una spaventosa sincerità.

Lo sforzo e il coraggio, cioè, nell’ammissione della propria fragilità davanti a uno sconosciuto, che abbia il volto di un lettore incontrato per caso (ma chi legge non è forse il più intimo conoscitore di uno scrittore?) per Lucia o di un famigliare (il più vicino e misterioso degli estranei?). Così i due protagonisti svettano e simboleggiano tutte le «umanità mal sintonizzate» , si dice in Si nota all’imbrunire, che finora raramente avevano trovato un racconto di tale precisione. Figure che per marcare la propria differenza devono essere totalmente comuni e totalmente “altro”: entrambi hanno tracciato un altrove, uno spazio sacro: sia esso una villa isolata o siano le pagine di un libro. Una immagine che, quando Lucia Calamaro passa dalla penna alla regia scenica traduce in scenografie immediatamente riconoscibili. La sua quotidiana sacralità si colloca e trasforma in spazi abitati dal monocolore sugli sfondi e da tanto bianco nelle scenografie minimaliste o per linee pulite, dando all’insieme una esplosione di luce e di vuoti da riempire dove il colore. Così, l’apparente quiete, il procedere sul filo senza mai spingere all’eccesso dell’emotività spicciola i suoi personaggi, non è che la raffigurazione della capacità di fronteggiare se stessi.
In un altro eloquente parallelo, entrambi riconoscono e stigmatizzano con parole sovrapponibili la propria consuetudine a «evitare la vita», eppure si dibattono come animali in gabbia in consapevolezze dolenti che hanno la forza della sincerità che spesso ognuno cerca di evitare.

«Vivo da convalescente. Campo difendendomi, ma non so da che»

Ammette Lucia, mentre Silvio «lotta contro qualcosa, non so come si chiama, ma so che è difficile». Due rappresentazioni della stessa vita, che nel primo spettacolo esplodono e prendono la forma di un dialogo tra  più personaggi, mentre nel secondo implodono moltiplicando la stessa interprete in molte voci senza che – alla chiusura del sipario – esista tra l’uno e l’altra una reale differenza. Due interpreti maiuscoli, simboli di genio degli aspetti più veri del reale proprio perché lo incarnano. Come le messe in scena, restando al contempo sospesi nel tempo e nello spazio, in spettacoli che parlano di quanto di più concreto esiste lasciando però un’impressione eterea. Trucchi di radianza attraverso cui Lucia Calamaro ripete (legandosi a se stessa senza essere tautologica) i propri topoi –, dichiarandolo senza nascondersi. Del resto, fa dire a Lucia, sempre in bilico tra omonimia, sorellanza e alter ego:  «Basta avere una qualche ossessione per essere migliore». Lo fa per riconoscere e provare a dire la cosa più semplice e difficile: l’esistenza. Lo smarrimento e la luce della consapevolezza che «esserci è tutto. Il resto si riduce a poco» .

L’Antigone di Massimiliano Civica: messa in scena di un nuovo paradigma

L’Antigone di Massimiliano Civica: messa in scena di un nuovo paradigma

Antigone Foto Duccio Burberi
Antigone – Foto Duccio Burberi

La messa in scena di un paradigma: questo è l’Antigone. Così, la versione portata al Teatro Astra di Torino da Massimiliano Civica si svolge tutta, necessariamente, dentro uno spazio delimitato con precisione che gli interpreti osservano, in attesa che la luce della ribalta si accenda su di loro, e che al momento opportuno raggiungono con fare rigoroso e marziale. Un paradigma che ha ancora declinazioni da svelare: lo suggeriscono gli abiti contemporanei, che ammiccano – neanche troppo velatamente – a un passato molto lontano, accostando agli abiti eleganti delle principesse le divise militari ornate di stelle rosse di Creonte e (quasi specularmente) di Emone, ma forse ancor più la figura del Polinice in camicia nera su cui gli altri spengono e riaccendono, col procedere del racconto, la luce e il fulcro dell’intera narrazione. Che però resta saldamente all’interno del quadrato, dove si fronteggiano, insieme ai modi di intendere il reale, secoli di potenziali letture e le relative negazioni. 

Mettere in scena l’Antigone è, infatti, ridiscutere un modo di vedere il mondo, prendendo una posizione. Dalla parte della legge degli uomini, di quella degli dei o – adesso più spesso, ed è la strada che Civica sceglie – da nessuna delle due parti. Dentro al suo ring di luce i due antagonisti si specchiano: non c’è più una posizione giusta, un’empatia che possa godere di una voce sola. Antigone e Creonte non fanno che compiere lo stesso errore: la presunzione della correttezza della propria posizione, il peccato di hybris. Così la voce del buonsenso di Emone, che richiama alla capacità di mettere in discussione le proprie idee, ha un suono più che mai contemporaneo che svela tutta la sua problematicità. Le idee devono sempre essere messe in discussione? Interrogarsi è sempre un segno di maturità? Questo sembra chiedere il tragediografo, ma la risposta oggi è la stessa? Un elemento simbolico, se ancora ce ne fosse necessità, di quanto Antigone e la sua storia non abbiano mai finito di parlare, e di mettere in difficoltà lo spettatore di ogni tempo.

Foto Duccio Burberi

Mettere in scena un archetipo, sviscerato e piegato a ogni esigenza registica, significa anche confrontarsi col modo in cui si decide di rappresentarlo. Massimiliano Civica sceglie un cardine molto preciso, la parola. A farne le spese è la resa espressiva, con attori chiamati ad annullare completamente il carico patetico di cui le migliaia di Antigoni snodate lungo la storia hanno dato prova. Ne emerge una interpretazione complessivamente innaturale, in alcuni casi. È così, ad esempio, per il corifeo di Marcello Sambati – una figura recuperata dal regista in contrasto all’abitudine del teatro contemporaneo di espungerla. Una figura  che qui si pone spesso al centro della scena con habitus teatrale per antonomasia, a tratti persino grottesco, persino disturbante per lo spettatore abituato all’immedesimazione. Vistoso il  contrasto con Francesco Rotelli, chiamato a impersonare, oltre a Emone, una guardia che, per rendere la voce dialettale del testo originale, si esprime attraverso un espressivo romanesco. 

Così l’Antigone di Monica Piseddu e l’Ismene di Monica Demuru si muovono su corde tese, attente a non strapparle. Come vorrebbe fare il Creonte di Oscar De Summa, costretto a essere padre dei figli-cittadini di cui si è assunto la responsabilità, anche quando non la desidera più. Perchè governare, si suggerisce, è un onere molto più di quanto sia un onore. Quella della resa, in una scena nuda,  è una scelta orientata proprio a sfrondare di ogni altro motivo d’interesse il ritorno alla parola. Quella che Civica affida ai suoi attori è una nuova traduzione che svela (ancora) le potenzialità di una lingua feconda come quella sofoclea, in cui le parole portano con sé significati troppo spesso banalizzati. Deinos, soprattutto. Una parola attribuita a entrambi, e tradizionalmente resa come “meraviglia”. Civica invece sceglie una soluzione evocativa ed eloquente: “miracolo che fa paura”. Tanto Antigone quanto Creonte, sua sorta di doppio rovesciato, sono qualcosa che esce dalla norma. Lo sono egualmente. Ed entrambi sono, per questo, pericolosi. Questo suggerisce la lingua scelta dall’autore e la traduzione letterale che il regista ha scelto. Questo conferma la lettura filosofica calata nel contesto storico originale che il regista ha scelto in luogo di quella immedesimativa per lo spettatore di oggi.

Antigone Foto Duccio Burberi
Foto Duccio Burberi

L’ elogio della flessibilità si rivela quindi uno strumento che Civica definisce “sovrapolitico” (e si potrebbe definire antipolitico, se il termine non fosse connotato). È infatti la fotografia di una dialettica in cui non ci si ascolta, si mette in scena una parte. Piegando anche le parole a quel che si vuol dire. Così, il celebre emistichio “sono nata per amare, non per odiare” svela una traduzione orientata. Il verbo usato dal tragediografo non è infatti quello propriamente traducibile con “amare”, ma un neologismo che vi unisce una particella che vale “con”. Se quindi, si domanda Civica, ha sentito l’esigenza di un verbo nuovo, che tipo di significato differente bisogna presupporre? Senza, naturalmente, poter avere una risposta, il regista opta per una traduzione che mette potenzialmente in discussione la lettura dell’intera frase, e persino dell’intero testo “sono nata non per odiare, ma per amare i miei famigliari”. Un’entità limitata, che fa da specchio rovesciato a quella collettiva per conto della quale il corifeo parla, un gruppo di cittadini sui quali fa perno un’altra decisiva scelta, quella delle parole con cui Creonte viene congedato. Non la possibilità di governare ma il dovere di occuparsi di ciò che lo circonda. Così occorre calare Sofocle non nel nostro tempo ma nel suo, suggerisce la messa in scena di Civica, e sentire la sua voce rivolgersi a Pericle, e invitarlo all’equilibrio di tutti gli opposti: donna-uomo, dei-legge, aristocrazia-popolo. A rifiutare ogni forma di radicalità. Soprattutto quella della (sua) democrazia.

Tra realtà e sogno lucido, la Buenos Aires di Rafael Spregelburd secondo Jurij Ferrini

Tra realtà e sogno lucido, la Buenos Aires di Rafael Spregelburd secondo Jurij Ferrini

Si chiama Avenida Corrientes, ma i locali e le guide la chiamano “la via dei cento teatri”, e se arrotondano all’eccesso non è poi di molto. Nella lunga arteria che percorre il cuore di Buenos Aires si affastellano e non si contano palcoscenici e librerie: un paradiso per gli appassionati, che non hanno bisogno di conoscere lo spagnolo per avvertire l’istinto di infilarsi quasi per caso in una delle sale e lasciarsi conquistare da quello che vedono.

E pare sia accaduto proprio questo quando si apre il sipario su Lucido di Rafael Spregelburd regia di Jurij Ferrini, al Teatro Astra di Torino. Bastano pochi minuti per essere consapevoli che gli ingredienti distintivi della drammaturgia contemporanea argentina ci sono tutti: all’interno di un dispositivo scenografico iperrealistico, lo spettacolo appare sulle prime una sorta di dramma borghese sopra le righe. C’è una famiglia (una madre e due figli) che vuole godersi una serata al ristorante e poi al cinema per il compleanno del figlio più giovane, Luca. Ma la nota falsa sotto l’immagine patinata è immediata: l’immaginario stucchevole nasconde solo per pochi attimi il panorama esploso di una famiglia disfatta, dove un padre assente è fuggito dalla responsabilità. Dove una figlia, Lucrezia, allontanatasi anni prima, torna per chiedere ciò che le appartiene accolta dalla madre con ripugnanza ora melliflua ora violenta. E un figlio schiacciato dal peso della sua stessa vita, “vissuta tutta” prima dei dieci anni, è alle prese con una terapia per scacciare l’incubo di essere rimasto vivo dopo il trapianto di un rene avuto in dono dalla sorella. E infine una madre, Tetè, costantemente impegnata a manifestare il proprio allarme e a incarnare in tutto ciò che la circonda il senso di un pericolo che la induce a piegare la realtà per nutrirlo. Intorno a questo cardine ruota tutta la “partitura” orchestrata da Rafael Spregelburd, dove nulla è quel che sembra. La sfida è riconoscere se esiste un confine tra realtà e “sogno lucido”; l’illusione di poter controllare, dominare e condurre a sé l’emersione delle proprie angosce. 

Il regista si muove con agio e inventiva negli stilemi che hanno reso unico il teatro argentino che da noi, fatte salve poche felici eccezioni, è ancora in gran parte inedito e quindi sorprendente. I suoi personaggi grotteschi e tragicamente divertenti, del tutto in-credibili ed esageratamente teatrali come il cast di una telenovela sghemba, si dibattono dentro un interno che li costringe e li imprigiona, dove le mura sono uno specchio psicologico. Quel che ne emerge sono però solo le maschere: (la madre, la figlia ribelle, il figlio problematico, il cameriere e l’amico, i cui caratteri smaccatamente posticci sono interpretati con finezza e mestiere da Rebecca Rossetti, Agnese Mercati, Federico Palumeri e Jurij Ferrini).

Ferrini, sul piano registico resta fedele alla nota di realismo che il testo richiede, per lasciare che la magia emerga dai dialoghi, dalla fitta trama degli scambi ritmati, senza allentamenti nel loro procedere per scarti, a loro volta esplosi e decomposti come il nucleo che raccontano, per trovare una sintesi soltanto nel finale, come particelle che si depositano a tempesta conclusa sul fondo del vortice che le ha generate. La drammaturgia argentina dimostra, anche in questo lavoro, di aver recuperato e offerto una nuova grammatica al teatro di parola, dove anche ciò che appare lineare è invece orchestrato per stupire con un guizzo. Così non ci si può permettere di accomodarsi sull’illusione di aver compreso o incasellato in un genere gli scambi tanto surreali quanto acuti su cui il testo si regge, né di poter ridere sguaiatamente di un umorismo che si vela presto di una cupezza le cui proporzioni sono chiare soltanto alla fine. Nel meccanismo esatto architettato dal drammaturgo, il pungolo alla riflessione è disseminato con lucida e sapiente misura, e quando diventa evidente che la risata non è fine a sè stessa ci si è senz’altro divertiti, riuscendo tuttavia a toccare corde, temi e coni d’ombra profondi della psiche dell’uomo senza avere mai – questa volta, nella realtà – fatto ricorso all’empatia spicciola o all’imposizione allo spettatore di ciò che “deve” pensare. 

Un meccanismo, quello di Lucido, che è sempre passibile di essere rodato, ma che fin dal suo debutto dimostra di convincere, anche nella molteplicità dei piani di fruizione e testimonia la vitalità di un mondo teatrale e autoriale che rinnova i codici di quello che di qua dell’oceano siamo convinti di conoscere, attribuendo a essi un sapore caratteristico che li rende riconoscibili. Quel che ne emerge è uno specchio, tanto deformante quanto spietato, che racconta sia una realtà composta di recitazione, più spesso a uso di sé che degli altri, sia l’essere umano in quanto tale definito, se non persino composto, dalle bugie che racconta a sè stesso. Mentre la realtà, lungi dall’essere oggettiva, non è che il complesso ordinato e (crediamo) lucido di ciò che ciascuno decide che sia. Così tutto può essere rappresentato, ridiscusso, sperimentato. Il genere, lo stare al mondo, il rapporto con l’altro, persino la nostra stessa esistenza. Perché tolto il colore, l’immaginazione e quello che ci rende dimentichi di noi,  non è detto che si sia pronti a sopportare quel che ne resta.

LUCIDO

di Rafael Spregelburd

traduzione di Valentina Cattaneo e Roberto Rustioni

regia di Jurij Ferrini
assistente alla regia Andrea Peron

con Rebecca Rossetti, Agnese Mercati, Federico Palumeri, Jurij Ferrini

luci e suono Gian Andrea Francescutti

produzione Progetto U.R.T. con il sostegno di Regione Piemonte

Angels in America. Nonostante tutto, ancora vita

Angels in America. Nonostante tutto, ancora vita

Inevitabilmente figlio del suo tempo, eppure del tutto contemporaneo. Forse è per questo che – quasi dieci anni dopo – la compagnia del Teatro dell’Elfo ha scelto di riportare in scena Angels in America, inanellando ancora settimane di tutto esaurito, anche quando lo spettatore è invitato a una maratona che non arriva poi così lontana dalle 10 ore. Guardati dagli anni venti del Duemila, gli anni Ottanta durante i quali la messa in scena di questo lavoro è valsa il Pulitzer all’autore Tony Kushner, sono – anche simbolicamente – parte di un altro millennio. L’AIDS non è più una condanna a morte certa, la caduta di una scure d’angoscia fatta di figure velate d’aloni viola. Le medicine che il giovane Prior, uno dei protagonisti dello spettacolo, ottiene per il rotto della cuffia garantiscono oggi una vita di fatto normale (anche se per il mondo tratteggiato non si potrebbe usare aggettivo più ingiusto), tanto che oggi la consapevolezza sulla prevenzione sta – lo raccontano i dati – calando anche nella Milano “vicina all’Europa”. 

Ai giovani che hanno affollato la sala dell’Elfo ci sarebbe stato probabilmente bisogno di spiegare del tutto cos’era il Maccartismo di cui Roy Cohn è alfiere e braccio armato, e non è difficile immaginare che tutti gli spettatori siano andati a scartabellare in rete (sentendosi dentro a una serie tv) per scoprire chi fossero i Rosenberg, uccisi dalle arringhe di Cohn con il marchio d’infamia di traditori e comunisti, che è costato la carriera e spesso la vita ad artisti e comuni cittadini lungo gli anni cinquanta.
Non solo: pochi dei membri della comunità LGBT milanese, che si è inevitabilmente data convegno in Corso Buenos Aires, ricordavano per esperienza certi parchi e certi incontri notturni rubati e senza cerimonie, che qualcuno dei più esperti nella storia del movimento rimanda al battuage di cui raccontava qualche amico più grande e che è stato, per decenni e sicuramente fino al momento rappresentato, il solo modo di trovare qualche momento d’amore (e di sesso) per gli omosessuali sulle due sponde dell’Atlantico. Sebbene tutto questo possa, ad alcuni, apparire lontano, è proprio osservandolo che può accadere che ci si accorga di quanto in realtà non lo sia. 

Di quanto quello di Roy Cohn sia, anche oggi, il volto del potere. Di chi “ce l’ha fatta” e quando si scopre a sua volta malato non ha bisogno di scegliere di nascondere – pur facendolo – ciò che semplicemente non è. Perché, spiega con una chiarezza lancinante: “Le etichette servono solo a capire quale posizione occupa nella gerarchia sociale, nella catena alimentare, chi appartiene a quella categoria. Gli omosessuali non hanno potere. Io ho potere.” 

E se pure alcuni dei protagonisti di questa “fantasia gay” si riconoscono invece con una libertà quasi sorprendente nel viversi. Così è per il giovane Prior, un Angelo Di Genio impeccabile e mai sopra le righe che impersona il giovane protagonista, risolto e innamorato, sereno nel vivere una vita piena e del tutto “fuori dall’armadio”, fino a che non viene investito dalla diagnosi dell’AIDS, e soprattutto per un esilarante Alessandro Lussiana, Belize infermiere ed ex fidanzato di Prior: la rappresentazione perfetta della “queen” di cui oggi ci si sta forse dimenticando la forza autenticamente dirompente.  È davvero così lontana la paura di chi, come il Joe di Giusto Cucchiarini, cerca ancora le parole per descriversi a se stesso, schiacciato dalla fede ma più ancora da una società che ci vuole irregimentati in matrimoni banali e zuccherosi, non importa se sostenuti da vagonate di psicofarmaci? In un tempo che vuole affermarsi – almeno in Italia, almeno nella “civilissima Milano” – pienamente libero e inclusivo, è davvero parte del passato chi, come Joe, assistente di Cohn, mormone e impeccabile agli occhi esterni, passa la vita a lottare contro se stesso e il proprio orientamento, ripetendosi che “basta che la mia condotta sia come so che deve essere”?

E soprattutto quanto non è lontana l’incapacità di convivere col dolore, la paura e l’angoscia, che l’appartenenza a una minoranza acuisce ma che in realtà non conosce distinzioni di genere, quando si parla di sentimenti che barcollano. Quanti, quotidianamente, mendicano la comprensione di una resa a chi chiede presenza mentre prova a sopravvivere somigliando a se stesso? Allora forse il Louis, di Umberto Petranca, il fidanzato di Prior, che invece ancora preferisce il basso profilo, e di fronte alla diagnosi dell’uomo che lo ama fugge e si costruisce un’altra vita con Joe, fatta di rassicurate segretezza e assenza d’impegno, diventa difficile da condannare per molti, e per molti altri l’ennesimo ripetersi di una storia già vissuta.
Ciò che sorprende –  soprattutto oggi – e spaventa sono però gli angeli del titolo, portatori eterei e distruttivi di un nuovo giudizio universale. In un’atmosfera lisergica e surreale che, pur mantenendo delle note di cupezza in costante sottotraccia, deve molto all’estetica camp che il movimento LGBT riconosce da sempre come cifra, si consuma il girotondo festoso e drammatico e insieme sopra il quale “dio è già scappato dove non si sa, il buon dio se n’è andato chi sa quando ritornerà”, avrebbe cantato De Andrè. Un dio che gli angeli vogliono richiamare al suo posto, per dare luogo a un ordine necessario che ha però scelto i rifiutati, gli omosessuali, i derelitti come suoi portavoce, e che invece gli uomini (siano essi protestanti, ebrei, mormoni) sentono il bisogno finalmente di allontanare da sé. Un dio che porta un messaggio inquietante, che parla all’oggi con ancora più urgenza. Che attraverso i suoi messaggeri grida l’imperativo a non mischiarsi, a non contaminarsi: parole rivolte a un mondo, quello nuovo che ormai ha superato il limite del millennio, che dall’incontro, dalla migrazione, dalla mescolanza, è condizionato e – più ancora – è costituito e fondato.

Ci vuole allora uno spettacolo-mondo come questo, e una compagnia di attori di prima grandezza perfettamente centrati, per gettare ancora uno sguardo in avanti e fare i conti con chi siamo stati, chi siamo diventati nel tempo trascorso e a che punto siamo nel cammino verso ciò che diventeremo. Non solo ma anche come parte di una minoranza, una scheggia di quell’altro che tutti siamo per qualcuno, che si porta dietro la “peste che gli si è voluta attribuire, i suoi fantasmi e le sue speranze, e nonostante tutto, “ancora vita.