Nominare le cose. “Autoritratto” di Davide Enia al Festival di Spoleto

Nominare le cose. “Autoritratto” di Davide Enia al Festival di Spoleto

È con un canto, con una preghiera levata tra le colonne della Chiesa sconsacrata dei Santi Stefano e Tommaso a Spoleto – oggi Auditorium della Stella –, che Davide Enia invita il pubblico a raccogliersi in un rito collettivo, di memoria e di autoanalisi, attorno al suo Autoritratto, debuttato tra il 29 giugno e il 7 luglio al Festival dei Due Mondi. Un rito celebrato attraverso il corpo del regista, interprete e drammaturgo palermitano che, solo sulla scena – affiancato dalle musiche e dalla voce di Giulio Barocchieri – , si lascia attraversare dai fantasmi dei cadaveri abbandonati dalla mafia sulle balate della propria città a partire dagli anni Ottanta, dalle abbanniate e dai richiami dei mercanti di Ballarò, dalla scompostezza disperata di un cunto che cerca le parole per un “mondo andato in frantumi” nell’istante in cui sull’autostrada di Capaci scoppia la bomba che il 23 maggio 1992 massacra Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.

«Il primo morto ammazzato l’ho visto a otto anni», inizia a raccontare Enia, delineando un percorso di formazione scandito da date e prime pagine dei giornali, in cui la storia intima di ognuno si intreccia con quella di una comunità: nella Palermo della sua giovinezza, il grado di separazione con chi è affiliato a Cosa Nostra e con chi la combatte si riduce infatti al minimo, alla distanza di pochi banchi di un’aula scolastica e di qualche isolato in un quartiere. Se, come insegna Carla Lonzi, “ogni parola che dirà il critico dell’opera è il ritratto del critico stesso”, il tentativo di comprendere un fenomeno come quello mafioso – con i propri codici e con le proprie strategie – si riflette in un processo doloroso di autocomprensione a cui è convocata un’intera generazione: perché vengano sviscerate e sottoposte a critica quelle strutture di linguaggio e di pensiero apprese culturalmente, in seno alle proprie famiglie, che permettono il proliferare di un’inquietante zona grigia. È in una forma di «patriarcato» – quel «familismo amorale» su cui si fonda anche l’organizzazione criminale siciliana – che una sistematica educazione al silenzio trova le radici: fin dall’infanzia la parola non detta suggella legami di amicizia maschile, arrivando a forgiare, nell’età adulta, quei padri e quegli uomini muti descritti in Appunti per un naufragio (Sellerio, 2017), e poi ne L’Abisso (Premio Ubu come «miglior nuovo testo italiano» nel 2019). Nelle parole di Giovanni Brusca, responsabile di aver «aver commesso e ordinato oltre centocinquanta delitti» e divenuto in seguito collaboratore di giustizia, «la mafia» è infatti «il regno dei discorsi incompiuti»: un’incompiutezza che non permette di risalire alle intenzioni e di individuare in maniera trasparente le responsabilità. 

Le parole pronunciate alle ragazze durante l’adolescenza sono dunque connotate come coraggiosissime, ed è nel fiore degli innamoramenti e delle ribellioni liceali che si staglia un’altra figura fondamentale per la coscienza civica di Enia e per quella dei giovani di un’intera città: quella del suo insegnante di religione, don Pino Puglisi, l’«uomo mite» ucciso con dei colpi di pistola alla nuca il 15 settembre 1993. Dopo aver letto un breve testo teatrale in cui l’autore palermitano, ancora ragazzo, illustra sette precetti «per sopravvivere a Palermo», Puglisi – lungi dall’incarnare la “censura del clero” – commenta con sobrietà: «È accurato. Bisogna nominare le cose». 

E tra le rime che grottescamente si inseguono per tratteggiare una logica linguistica appartenente alla città – Palermo Vucciria, Palermo Santa Rosalia, Palermo tua madre è mia, Palermo che vuoi che sia –, può allora avvenire la «nominazione del trauma»: la violenza efferata agita sul corpo del piccolo Giuseppe Di Matteo, sequestrato per 778 giorni, per poi essere strangolato e disciolto nell’acido, viene raccontata da Davide Enia ripercorrendo parola per parola quanto deposto durante il processo. Sono infine le bombe a spazzare via il silenzio, a renderlo impossibile. Nella torrida estate in cui Enia attende i risultati della maturità, parlando al telefono con un’amica dei fumetti di Andrea Pazienza, la «nevrosi» che porta ad associare ogni «botto» a un attentato a Paolo Borsellino si trasferisce sul piano di realtà, con l’asfalto di via D’Amelio saltato in aria e gli alberi rimasti «orfani delle foglie», il 19 luglio 1992. La generazione accorsa in strada, in piazza, è una generazione che si scopre unita: una generazione che inizia ad andare all’estero, e una volta tornata, “vede Palermo per la prima volta”, la comprende nei suoi caratteri eccentrici, intuendo, grazie a uno sguardo rinnovato, la connessione tra i resti dei palazzi bombardati e la speculazione edilizia, tra le zone non illuminate e l’agevolazione dello spaccio, tra il controllo dell’acqua e il dominio esercitato su una città. Per questa «città cimitero», disseminata di lapidi, risuona allora il Miserere di Giovanna Marini.

Il più grande segreto che nascondo a me stessa: Maternità di di Fanny & Alexander

Il più grande segreto che nascondo a me stessa: Maternità di di Fanny & Alexander

«Se voglio figli o meno è un segreto che nascondo a me stessa: è il più grande segreto che nascondo a me stessa». 

È sul crinale di questa domanda abissale che si muove Maternità (Sellerio, 2019), romanzo di Sheila Heti che ispira l’omonimo spettacolo di Fanny & Alexander – scritto e interpretato da Chiara Lagani e diretto da Luigi De Angelis –, andato in scena all’Angelo Mai il 13 e il 14 aprile

A partire da interrogativi radicali e insolubili sul proprio desiderio – districandosi tra gli imperativi imposti culturalmente e quelli dettati dalla propria biologia – che la scrittrice canadese si affida alla divinazione e alla consultazione dell’I Ching: ogni lancio di monete offre una risposta affermativa o negativa, conducendo così la narrazione in una direzione inedita e imprevista, in un serrato confronto con il Caso che giunge a configurarsi come una lunga sessione di autoanalisi. 

Lo sforzo di Chiara Lagani è quello di trasformare il monologo interiore che appartiene alla dimensione della scrittura in una forma di dialogo con il pubblico, che è chiamato a sviscerare in termini politici, sociali e psicologici questioni quali le responsabilità connesse alla maternità, l’omogenitorialità, il diritto all’aborto, la gestazione per altri (definita, proprio il giorno prima della replica romana, “pratica disumana” dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni). 

Maternità
 © Antonio Ficai

La riflessione si allarga dunque per divenire comunitaria: gli spettatori – talvolta abbagliati dal riflesso di uno specchio per essere interpellati singolarmente – sono invitati a esporsi tramite una scelta, che può essere compiuta, in un brevissimo arco di tempo, grazie all’utilizzo di un piccolo telecomando fornito a inizio spettacolo: «I figli si hanno o si fanno?». «Siamo troppi o troppo pochi su questa Terra?». «Mi sarà e vi sarà utile questo spettacolo?».

La pièce – esattamente come il romanzo – procede quindi per scossoni: la risposta che ottiene una base maggioritaria permette di dischiudere soltanto alcuni dei futuri possibili immaginabili per la protagonista e, più concretamente, solo alcune delle soluzioni drammaturgiche ipotizzate per l’interprete, precludendo l’attualizzazione di tutte le altre.

 I grafici che – a ogni quesito – vengono a costruirsi sullo schermo sospeso sul palcoscenico riconducono la portata della scelta a una connotazione pienamente umana, assembleare, quasi referendaria, permettendo di abbozzare una “geografia sociale” delle platee, la cui composizione e la cui predisposizione a confrontarsi con i nodi cruciali dello spettacolo varia consistentemente a seconda dello spazio in cui viene messo in scena. 

Il gioco teatrale – la cui dimensione ludica è accentuata dalla fruizione dei dispositivi elettronici – diviene progressivamente più inquietante e ambivalente se si considera che una “tribuna” di molti detiene letteralmente il potere di scegliere il destino della donna che ha di fronte, eterodirigendo le sue azioni, fino a irrompere nell’intimità della sua carne («Sono fertile oppure ho cellule pre-cancerose?»). 

In questa sorta di processo allestito, l’attrice domanda al pubblico quale ruolo le pertenga: «Imputata, giudice o testimone?».

«C’è bisogno di tensione per creare qualcosa: come la sabbia dentro la perla – scrive Sheila Heti –. (…) Sono cose buone e mi costringono a vivere con integrità, a mettere in discussione ciò che è importante per me, e quindi a vivere davvero il senso della mia vita, invece che affidarmi alle convenzioni». 

Maternità
 © Antonio Ficai

Chiara Lagani sembra allora radicalizzare la tematica dell’autodeterminazione in termini di autoconsapevolezza e responsabilità collettive, rendendo evidente – attraverso la dinamica scenica proposta – che non può esserci libera scelta sull’essere madri o sul non esserlo, sul portare avanti una gravidanza o sull’interromperla, senza che quella libertà venga tutelata materialmente, tramite un discorso politico che garantisca il riconoscimento giuridico dei diritti, oltre che sussidi economici adeguati e l’accesso a servizi sanitari sicuri.

«L’universo perdona le donne che fanno arte e non fanno bambini?» è una delle domande poste nel testo di Sheila Heti che apre alla tematizzazione della dicotomia platonica tra generazione secondo il corpo e generazione secondo l’anima: «del pensiero e ogni altra virtù» sono infatti «generatori tutti i poeti e quanti degli artisti sono detti inventori». Nel passaggio dalla scrittura al palcoscenico, è la stessa Chiara Lagani a ricordare – nel dibattito con Rosella Postorino – che nel teatro si rende possibile l’esperienza dell’«essere due», in una sorta di gestazione fantasmatica per la quale ci si accompagna sempre al proprio personaggio concepito per la scena. Risuonano così ancora una volta, assumendo un nuovo grado di serietà e problematicità, le parole con le quali l’attrice apre la pièce, e alle quali dobbiamo decidere se prestare fede o meno: «Mi chiamo Sheila Heti, ho quarantotto anni e sono incinta».

Dal senso di colpa alla rabbia. Svelarsi di Silvia Gallerano

Dal senso di colpa alla rabbia. Svelarsi di Silvia Gallerano

«Un pigiama party, un’assemblea femminista, una serata, un happening, un esperimento». Così Silvia Gallerano definisce il progetto Svelarsi – andato in scena all’Auditorium Parco della Musica di Roma dal 10 al 17 gennaio –: una chiamata rivolta a «un pubblico esclusivamente di donne (cis, trans e non binarie)», a tutte coloro che si sentono e si definiscono tali. 

Costruito a partire da una serie di laboratori e residenze sul tema della nudità – avviati cinque anni fa attorno all’esperienza de La Merda, lo “scandaloso” monologo scritto da Cristian Ceresoli e interpretato dalla stessa Gallerano –, Svelarsi si propone come un percorso di ricerca e di scrittura collettiva, in cui l’incontro e il confronto con una platea femminile dischiude la possibilità di un rispecchiamento, di un momento di autocoscienza, in cui il personale si scopre, ancora una volta, politico

Articolandosi in “capitoli” che indagano il rapporto di ognuna delle protagoniste – Giulia Aleandri, Elvira Berarducci, Smeralda Capizzi, Benedetta Cassio, Livia De Luca, Chantal Gori, Giulia Pietrozzini, e Silvia Gallerano (in veste di “coordinatrice”) – con il proprio corpo e con la propria sessualità, lo spettacolo sembra ripercorrere le tappe di un itinerario che attraversa l’umiliazione e l’autoumiliazione, per sfociare nella consapevolezza e nel riconoscimento dell’intima potenza insita nella propria femminilità, al di fuori dei canoni socialmente imposti e profondamente introiettati. 

Quel corpo che si manifesta totalmente spoglio sul palcoscenico viene infatti dapprima esposto e raccontato nella propria “imperfezione” – perfettamente “fisiologica” – fatta di peli, cellulite, seni cascanti: è un corpo che viene manipolato, costretto con corde e con pellicole trasparenti, marchiato con segni rossi, nei punti ritenuti “critici”, quasi fosse necessario “correggerli” e “rimodellarli”. 

Ed è soltanto abbandonandosi a quella che viene descritta come danza del corpo meraviglioso che le catene di uno sguardo patriarcale – dentro e fuori di noi – vengono simbolicamente spezzate, per riscoprire la potenzialità elastica, elettrica, insostituibile che appartiene a ogni corpo: quell’unità minima che non può – e non deve – esserci sottratta. 

«Crescere in un corpo di donna e amarlo» è il significativo titolo di una sezione del saggio di bell hooks Comunione – recentemente tradotto per il Saggiatore – in cui la pensatrice e attivista afroamericana incoraggia a «offrire a noi stesse quello sguardo di approvazione che speriamo di vedere negli occhi di qualcun altro», sottolineando l’importanza del ruolo giocato dai genitori, oltre che dai «mass media e dalla pressione del gruppo dei pari» nel consolidare quell’indottrinamento che conduce le donne «ad avere paura della propria carne, a pensare che vada in qualche modo alterata per essere accettabile o desiderabile». 

Svelarsi

Indottrinamento che viene perpetuato di generazione in generazione anche attraverso la trasmissione di un sapere implicitamente teso alla propria sopravvivenza, riassumibile nelle parole pronunciate dalle attrici nel momento in cui interpretano le loro stesse madri: «nelle situazioni di conflitto, cerca di essere accondiscendente». 

Le protagoniste dibattono allora tra loro sulla possibilità di disporre liberamente del proprio corpo, discutendo con amara ironia argomenti come la depilazione, la chirurgia estetica e la maternità, tentando di districarsi dall’invadente imperativo «produci consuma produci» e di discernere il loro più profondo desiderare da un bisogno eterodiretto. È nel passaggio drammaturgico al capitolo sul senso di colpa che la platea, invitata dalle attrici che si mescolano tra le spettatrici, si trasforma compiutamente in assemblea: in sala riecheggiano le confessioni sul cruccio che ci assale “ogni volta che usciamo senza lasciare pronto qualcosa di buono per cena”, sul tormento che ci accompagna “per aver scambiato il nostro molestatore per un benefattore”, sull’impotenza che ci perseguita nel riconoscere “il nostro privilegio di donne bianche e occidentali che possono realizzare o assistere a uno spettacolo in un teatro”, mentre prosegue l’oppressione delle donne iraniane e non si arresta il genocidio in Palestina. 

La distanza tra performer e spettatrici si sgretola infine non appena la voce di una delle interpreti si rompe nell’emozione: «mi sento in colpa ogni volta che una donna muore per mano di un uomo» – afferma, per poi subito correggersi con veemenza –, «anzi non mi sento in colpa, sono arrabbiata, siamo arrabbiate». 

Svelarsi

Nel passaggio dall’«io» al «noi», il senso di colpa cede allora il passo al sentimento generativo della rabbia, che richiama all’azione e alla trasformazione, avvolgendo con un grido l’intera platea. È così, dunque, che dalla mortificazione si approda a una sorta di liberazione, che permette di comprendersi come appartenenti a un corpo collettivo, con la dichiarazione – pronunciata da Silvia Gallerano –: «Sarò enorme (…) Non vi sembrerò più piccola. Sarò sconfinata». 

Lo spettacolo può chiudersi così in un momento di festa, in un ballo sul palcoscenico insieme al pubblico, che dopo gli applausi viene invitato a sostare ancora, prendendo parte a una piccola riunione spontanea: perché la pratica dell’autocoscienza, dello scambio e dello svelarsi possa esondare dal contesto performativo e ce ne si possa riappropriare nello spazio e nel tempo della vita quotidiana.

“Corpo a corpo” con Pasolini e Shakespeare. Lino Musella al Teatro Vascello

“Corpo a corpo” con Pasolini e Shakespeare. Lino Musella al Teatro Vascello

«Ho voluto la mia solitudine/ sono senza amore, mentre, barbaro/ o miseramente borghese, il mondo è pieno,/ pieno d’amore…/ e sono qui solo come un animale/ senza nome: da nulla consacrato,/ non appartenente a nessuno,/ libero di una libertà che mi ha massacrato». Così Pier Paolo Pasolini tratteggia in un componimento raccolto in Poesia in forma di rosa (1964) la propria condizione esistenziale, percorsa da una “diversità” erotica e politica che lo condurrà all’esito tragico del pestaggio all’Idroscalo di Ostia nella notte tra il primo e il 2 novembre 1975. 

Il corpo di Pasolini è – in senso biografico e letterario – un corpo esposto e martoriato, un corpo che soffre e che dà scandalo, ma primariamente, secondo le parole di Stefano Casi, «il corpo dell’intellettuale è la sua opera». Il confronto che Lino Musella intraprende con Pasolini nel suo “assolo” Come un animale senza nome (con drammaturgia di Igor Esposito) – in scena al Teatro Vascello di Roma dal 28 al 30 novembre – si profila allora come un “corpo a corpo” con quello che è il corpus letterario dello scrittore bolognese: indossati un paio di occhiali spessi che rievocano la fisionomia pasoliniana, il corpo dell’attore di fronte al leggio sembra infatti eclissarsi “in favore” delle parole dell’intellettuale, scandite ritmicamente e accompagnate sul palcoscenico dalle sonorità elettroniche elaborate da Luca Canciello.

A costituire l’ossatura della pièce sono i versi di Poeta delle Ceneri (pubblicato postumo nel 1980), poemetto «bio-bibliografico» con il quale l’intellettuale si presenta al pubblico statunitense – al quale è noto principalmente per il suo cinema – in qualità di «poeta», ripercorrendo la propria vita e le proprie opere, dalla propria nascita in «una città piena di portici» all’avvicinamento al marxismo, fino a ribadire la propria “fratellanza” con Allen Ginsberg, artista che si pone come una «vivente contestazione» nell’America degli anni Sessanta.

Sono proprio i versi di Howl (1956) a riecheggiare durante lo spettacolo, quasi a rappresentare un modello umano e letterario per le linee programmatiche di quella che Pasolini immagina come una «vita futura»: «perciò io vorrei soltanto vivere/ pur essendo poeta/ perché la vita si esprime anche solo con se stessa./ Vorrei esprimermi con gli esempi./ Gettare il mio corpo nella lotta. (…) Non c’è altra poesia che l’azione reale». 

Lo spettacolo-concerto ideato da Musella si articola allora in un mosaico di frammenti e citazioni, procede tramite rapide “incursioni” all’interno dell’intera opera pasoliniana – dalla poesia che recita «Io sono una forza del Passato» all’infiammato «Io so» del celebre articolo poi rinominato Il romanzo delle stragi e confluito in Scritti Corsari (1975) –, per restituire un ritratto di un intellettuale poliedrico e contraddittorio attraverso la sua stessa parola. Scomparso il corpo di Pasolini – dalla Storia, così come dalla rappresentazione –, è infine soltanto la sua voce a essere rievocata in maniera fantasmatica, grazie a una registrazione leggermente “distorta”, per affermare nel presente e nello spazio spoglio del palcoscenico la propria «disperata sfiducia nelle società storiche» e la propria «anarchia apocalittica».

In un vero “corpo a corpo” con il pubblico consiste invece L’ammore nun è ammore, secondo “assolo” di Lino Musella, approdato al Vascello nei giorni immediatamente successivi allo spettacolo pasoliniano, tra il primo e il 3 dicembre. Accompagnato, questa volta, dai cordofoni e dalle percussioni di Marco Vidino, Musella si cimenta con un altro testo originariamente non pensato per la scena, 30 sonetti di Shakespeare «traditi e tradotti» da Dario Jacobelli. Il dialetto utilizzato nella traduzione da Jacobelli, poeta napoletano prematuramente scomparso nel 2013, «attinge da una parte a una lingua teatrale e letteraria, dall’altra a contaminazioni contemporanee che vanno dallo slang al linguaggio di strada» – si legge nelle note di regia –, consentendo il paradosso della restituzione di «una teatralità ai versi del più grande drammaturgo al mondo».

Allo stesso modo in cui il testo dei sonetti si maschera, si camuffa e si trasforma, Musella si traveste, diviene donna anziana che si compatisce di fronte allo specchio, scugnizzo festante sul motorino: indossa abiti, parrucche e cappelli sgargianti che subito dismette, come per incarnare un personaggio ogni volta differente che possa dare voce ai sonetti, parlando di uno straziato sentimento di amore, dell’immortalità della poesia o della caducità della bellezza e dell’esistenza.

Musella

L’attore napoletano fuoriesce dallo spazio “canonicamente” pensato per la rappresentazione, scomparendo dietro le quinte, arrampicandosi sulla balconata e immergendosi bendato tra gli spettatori, facendosi letteralmente guidare da coloro che gli tendono una mano dal pubblico. Musella coinvolge la platea, la invita a indovinare le rime baciate, e sceglie pochi singoli spettatori ai quali “confidare” un sonetto segreto, determinando così una fruizione differenziata della medesima pièce da parte degli astanti. 

Il contatto fisico e corporeo stabilito dall’interprete con il pubblico – che si esprime principalmente con lievi carezze – determina quella che Erika Fischer-Lichte definisce «irruzione del reale nella finzione»: se il teatro, etimologicamente, rappresenta un «medium pubblico», orientato sulla distanza dell’occhio, sulla vista», laddove lo sguardo rappresenta «il luogo in cui sorge l’illusione stessa», il contatto appartiene invece alla «sfera intima», che induce lo spettatore a essere sensibile non solo nei confronti del personaggio, ma anche «nei confronti dell’attore in quanto persona effettiva». Nella tensione tra «dimensione pubblica e intimità», gli spettatori vengono dunque riconosciuti nella loro presenza corporea come co-soggetti essenziali all’esperienza performativa e alla produzione di una comunità.

E a intensificare la funzione comunitaria e politica del teatro è ancora una volta Lino Musella che, il 29 novembre, Giornata Internazionale della Solidarietà con il Popolo Palestinese – prima di una replica dei suoi spettacoli al Teatro Vascello –, ha offerto al pubblico una lettura integrale del testo poetico Stato d’assedio di Mahmud Darwish, scritto nel 2002 durante l’assedio di Ramallah da parte delle truppe israeliane di Ariel Sharon. Versi che risuonano oggi con straziante attualità e che richiamano a una presa di posizione a un’assunzione di responsabilità collettiva: «Non lasciateci soli, non abbandonateci».

Tornare a bottega con Testori e Latella. “Esercizi per gli attori” al Teatro Grassi

Tornare a bottega con Testori e Latella. “Esercizi per gli attori” al Teatro Grassi

«La parola del teatro è, prima di tutto, orrendamente (insopportabilmente) fisiologica». Così scrive Giovanni Testori nel suo manifesto del 1968, Il ventre del teatro, per teorizzare una parola teatrale a cui sia propria una «qualità di carne e di moto (a strappi, a grida, a spurghi ed urli; una qualità forse impossibile, quasi certamente blasfema)». 

Ed è proprio la ricerca attorno a questa «parola-materia» un «verbo» che, compiendosi «qui e ora», possa incarnarsi nel corpo dell’attore, e una «carne» che, a sua volta, tenti di «rifarsi verbo» a dettare le linee programmatiche di BAT – Bottega Amletica Testoriana.

Il progetto, ideato e curato da Antonio Latella e promosso da AMAT Associazione Marchigiana Attività Teatrali per Pesaro Capitale italiana della Cultura 2024, Piccolo Teatro di Milano e stabilemobile, in collaborazione con Associazione Giovanni Testori, coinvolge otto giovani attrici e attori che, tra settembre 2023 e febbraio 2024, sono invitati allo studio e al confronto con la lingua e la poetica dello scrittore di Novate Milanese, nell’anno in cui ricorre il centenario della sua nascita. 

«Tornare dunque al concetto primario ereditato dai nostri maestri: mettere sé stessi a servizio dell’autore e dei/delle compagni/e di lavoro – afferma il regista campano nell’avviso di selezione per il percorso di formazione –. Regalarsi un tempo per tornare “a bottega”, usando un’espressione forse desueta, ma che continua a indicare una modalità di lavoro che si caratterizza per lo studio e la pura ricerca».

Quello a cui abbiamo avuto modo di assistere – tra il 27 e il 29 ottobre, e tra il 3 e 5 novembre – al Teatro Grassi di Milano non è allora uno spettacolo formalizzato, ma una sessione di lezioni aperte alla condivisione con il pubblico, durante le quali il lavoro artigianale sul «testo-Testori» viene restituito sotto forma di esercizi per gli attori

È dunque il pubblico stesso ad avere un ruolo fondamentale nel progetto, e non solo perché, oltre agli otto attori professionisti, sono stati selezionati otto spettatori e spettatrici “in avamposto” che potessero condividere la ricerca «in una sorta di inedita “intimità”»: non appena si fa ingresso nella storica sala milanese, la platea si vede infatti “riflessa” – grazie all’utilizzo di una telecamera – sul fondale del palcoscenico per l’intera durata della lezione. 

Il pubblico viene allora interpellato e portato al dialogo dallo stesso Antonio Latella che, muovendosi tra le poltrone, incoraggia i singoli spettatori a partecipare al processo creativo nell’istante stesso del suo svolgersi. 

Dagli spettatori e dalle spettatrici arrivano infatti i “suggerimenti” di parole per dare il via alle prove mnemoniche e d’improvvisazione versificatoria intraprese dai giovani: dal classico gioco “c’è un bastimento carico di…” si passa all’invenzione di rime baciate, che vengono scandite in una sorta di freestyle

Questo esercizio preliminare sulla parola e sulla modalità della sua declamazione apre a un’interpretazione dell’opera testoriana ancora mai sperimentata: in una paradossale aderenza al testo, organizzato in frasi brevissime e sincopate, gli attori recitano i versi del Post-Hamlet a ritmo di rap, intuendo un tempo intrinseco alla scrittura che risuona come straordinariamente contemporaneo per chi vi si accosti nel ventunesimo secolo.

© Masiar Pasquali

Il percorso di studio della Bottega si articola in tre tappe che approfondiscono le “riletture”«rivisitazioni», «imbastardimenti», «strozzamenti» – testoriane dell’Amleto shakespeariano, opera con la quale lo stesso Latella ha finora avuto un “triplice” confronto.

L’itinerario dei giovani attori prende infatti avvio dalla lingua estremamente visiva di Amleto. Una sceneggiatura per il cinema (1970), per passare all’impasto di dialetto lombardo, francesismi e latinismi dell’Ambleto (1972) – antieroe anarchico che mira ad annientare «la soverana piramida dell’ordeno e del potere» –, e per approdare infine al già citato Post-Hamlet (1983), in cui il protagonista, significativamente assente dal testo, diviene una figura redentrice, che accetta il martirio per liberare un’umanità schiacciata dal potere reificante e omologante di una società capitalistica e tecnocratica.

Come sottolinea lo stesso regista, gli scritti amletici testoriani sono attraversati anche da uno straziato sentimento d’amore, che si esplica in prima istanza nel rapporto tra le varie versioni di Amleto e il personaggio del Franzese/Orazio: a serbare traccia di questa memoria testuale è l’intermezzo in cui gli attori, “schierati” in fila sul proscenio, eseguono a cappella il brano Amandoti dei CCCP.

In maniera quasi “mimetica” alla poliedricità dei linguaggi – dal teatro alla prosa e alla poesia, dal giornalismo alla critica d’arte e alla pittura – in cui il magmatico pensiero di Testori è venuto a sedimentarsi, l’indagine condotta dagli otto giovani insieme a Latella si sofferma sull’esercitazione nella tecnica del ritratto e sulla costruzione di una coreografia ispirata al mondo del pugilato: un’arte che possiede una disciplina molto simile a quella teatrale – come affermano gli interpreti –, e che tanto spazio trova nell’opera testoriana, a partire dai racconti sui «poveri diavoli» della periferia milanese ne Il ponte della Ghisolfa, a cui Visconti attinse a piene mani per il suo Rocco e i suoi fratelli, fino alla serie di dipinti dedicata ai Pugili, carichi di colori accesissimi e di materia.

© Masiar Pasquali

Allo stesso modo in cui i soggetti delle tele di Testori sembrano sporgersi e fuoriuscire dalla cornice, gli attori Noemi Apuzzo, Alessandro Bandini, Andrea Dante Benazzo, Matilde Bernardi, Flavio Capuzzo Dolcetta, Chiara Ferrara, Sebastian Luque Herrera e Beatrice Verzotti prediligono un’assoluta frontalità sul palcoscenico, si siedono accanto agli spettatori, e si espongono a quella “domanda di relazione” che per Hans-Thies Lehmann rappresenta una necessità fondante del teatro contemporaneo. 

La sperimentazione di BAT – Bottega Amletica Testoriana, fondata su un lavoro di ricerca collettivo, intrapreso da giovani professionisti, trova allora riconoscimento (è importante sottolineare: anche economico) e accoglienza nel primo teatro stabile d’Italia, per rileggere e riscoprire in dialogo con l’intera comunità teatrale la pregnanza di una parola come quella di Giovanni Testori, in grado gettare un ponte tra la nostra tradizione drammaturgica e una nuova generazione di interpreti.