Di Chiara Molinari L’articolo fa parte del secondo numero della rivista “LO SCANDAGLIO” dedicato alla violenza in scena.
«Sono io il corpo del reato il luogo del delitto la scena dell’azione». Così recita la drammaturgia di Wonder Woman, primo spettacolo del dittico dedicato ai supereroi scritto da Antonio Latella e Federico Bellini, debuttato in Germania nel 2021, e ora in tournée nei teatri italiani fino a maggio. L’allestimento si apre con la disposizione, a ridosso del fondale, di quattro sagome disegnate a terra, composte da un mucchio di vestiti colorati: materia inerte che sembra segnalare l’avvenimento di un atto violento, prefigurando il conto di quattro vittime.
Della fisionomia della vittima, però, non hanno nulla le quattro giovani interpreti – Maria Chiara Arrighini, Giulia Heathfield Di Rienzi, Chiara Ferrara e Beatrice Verzotti – che giungono sul proscenio esponendo al pubblico il loro corpo vivo, pulsante: con lo sguardo diretto agli spettatori, seduti in una platea illuminata a giorno e dunque chiamati a ricambiarlo, esibiscono infatti le ferite che un sistema pervasivamente patriarcale infligge a ciascuna donna per trasformarle in un urlo di rivolta e di condanna.
È del 2015 – anno che coincide con la nascita del movimento transfemminista Non Una Di Meno in Argentina – la denuncia di stupro da parte di una ragazza peruviana ad Ancona, a cui fa seguito la vergognosa sentenza declamata all’unisono dalle interpreti: una giuria di sole donne dichiarò in Corte d’Appello (con un verdetto poi ribaltato in Cassazione) che il fatto non potesse sussistere data «la personalità tutt’altro che femminile, quanto piuttosto mascolina» della giovane. A supporto di quanto sostenuto, nel verbale si legge la surreale affermazione per la quale all’imputato «la ragazza neppure sarebbe piaciuta, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo “Vikingo”».
La durezza del linguaggio e l’emotività traboccante da cui le quattro attrici si fanno attraversare investe la platea come un’onda violenta, che restituisce tutta la crudezza dell’avvenimento e trascina gli spettatori tra i «gironi infernali» affrontati da Nina: questo il nome di finzione attribuito alla ragazza, lo stesso della protagonista de Il gabbiano di Čechov, «che non sa mentire, non sa recitare». Dagli abusi vissuti durante la terribile serata al parco, tra decine di bottiglie di birra, passiamo allora alle stanze della questura, dove si susseguono domande umilianti sul vestiario indossato e sulle modalità in cui i rapporti sono avvenuti, illazioni sulla possibilità che lo stupro sia semplicemente una scusa inventata da una “ragazzina” per sfuggire alla punizione dei genitori. Si approda dunque alle aule di tribunale, dove le giudici, in una reminiscenza pasoliniana, vengono descritte come Eumenidi ritrasformate in Furie: l’episodio di cronaca dal quale la pièce prende avvio rende infatti esplicita la violenza intrinseca al diritto, lo iato che lo separa da un’idea e da una reale pratica di giustizia, così come la distanza incolmabile che si stende tra gli organi statali e i cittadini che questi dovrebbero tutelare.
Nel convulso racconto a quattro voci, che alla violenza carnale subita stratifica la vittimizzazione secondaria da parte delle istituzioni e il “bla bla bla” dei media, emergono anche le molteplici linee di oppressione che s’intersecano nell’esperienza di vita di Nina, che non è solo donna, ma anche “straniera” – una «scaltra peruviana», come viene definita nella sentenza –: appare allora significativo che i poliziotti trovino necessario chiarire, prima ancora di credere alle parole della giovane, se “gli stupratori siano come voi o come noi”.
Seguendo quelle stesse linee di oppressione, è dunque di un nuovo noi che si appropriano le attrici sulla scena, passando dalla prima persona singolare alla prima persona plurale nella narrazione, rendendosi corpo collettivo, quasi a ribadire che “se toccano una, toccano tutte”. La lotta diviene-donna, e Nina si libera delle pesanti spoglie di “Vikingo” in cui l’hanno costretta per riconoscersi come Amazzone, appartenente a un popolo di sole donne. Le Amazzoni, stirpe guerresca che ci è nota dalla mitologia greca, sono anche le compagne e le sorelle di Wonder Woman, celebre personaggio dei fumetti creato da William Moulton Marston. Prima supereroina femminile – e femminista – della DC Comics, la “donna meraviglia” cattura con un lazo magico i suoi antagonisti, costringendoli a dire il vero: non sorprende allora – ripercorrendo il «lavoro del detective» che Latella svolge insieme ai propri collaboratori per ogni spettacolo – scoprire che lo psicologo americano fosse anche l’inventore della cosiddetta “macchina della verità”. «Nostro creatore», lo definiscono le quattro interpreti in scena, scandendo versi concitati tra i fili dei microfoni: «Sono (…) Il poligrafo di carne il misuratore di ritmo cardiaco (…) Non ho aritmie blocchi emozioni Non sputo più sudore il mio corpo non mente Collegatemi pure non ho niente da temere sono io Wonder Woman».
Il conflitto messo in atto per essere creduta, per portare avanti la propria verità, parte allora da minuscoli oggetti tradizionalmente associati a un lavoro domestico, trasmesso ed ereditato dalle nostre madri: dall’ago e dal filo. La drammaturgia di Bellini e Latella li risignifica e ne trasfigura qualunque connotazione oppressiva, al punto che «con un filo e un ago si scrive la storia si lasciano segni indelebili del nostro esserci sempre state (…) con un ditale si può addirittura vincere una battaglia». Ed è così che le quattro attrici indossano, uno dopo l’altro, gli abiti e le collane – realizzati da Simona D’Amico – abbandonati in fondo alla scena, dai cromatismi simili al costume della supereroina e dai richiami tribali: donano loro nuova vita e un nuovo senso, restituendo corpo a ciò che sembrava perduto, e facendosi così «grido altissimo e feroce di tutte quelle donne che più non hanno voce».
Attraversando il palcoscenico in una danza magnetica, in cui il roteare del lazo della verità si mescola ai passi e alle parole di Un violador en tu camino, performance ideata dal collettivo teatrale cileno LasTesis per diffondersi nelle piazze di tutto il mondo come inno di protesta contro l’ordine patriarcale, le attrici dischiudono allora un nuovo immaginario, una narrazione altra rispetto a quella istituzionale che svilisce, normalizza e spettacolarizza la violenza di genere. Con un dito rivolto verso gli spettatori, a indicare che “la vergogna deve cambiare lato” – come ci ricorda il processo a porte aperte per il recente caso di Gisèle Pelicot –, le interpreti ci chiamano in causa intonando la canzone tradotta in italiano: «La colpa non era mia, non c’entra dove stavo né com’ero vestita/ Lo stupratore sei tu / Le guardie /I giudici / Lo Stato/ Il Presidente/ Lo Stato oppressore è un macho stupratore/ Lo stupratore sei tu».
Ispirata agli scritti della scrittrice e attivista argentina Rita Segato, la coreografia, una volta sconfinata nelle strade, ha reso accessibili le sue teorie femministe a una moltitudine di persone che difficilmente vi sarebbero entrate in contatto. Con lo spettacolo scritto da Latella e Bellini, l’organizzazione di questa rabbia torna dunque a farsi teatro: un teatro politico, perché connette e avvicina la comunità della sala alla «lotta di ogni giorno» delle donne e dei movimenti che scendono in piazza.
Fortemente politico è anche il tema della povertà, attorno al quale è costruito il secondo spettacolo del dittico originariamente pensato per i palchi tedeschi, Zorro, in scena al Piccolo Teatro Grassi di Milano fino al 16 febbraio. Non è un caso che l’allestimento sia specificamente pensato per una città in cui la forbice tra i redditi di chi la abita si rende sempre più ampia: il testo di Latella e Bellini intende allora entrare in risonanza con l’architettura e la memoria scenica dello spazio, che Paolo Grassi e Giorgio Strehler concepirono come modello di “teatro d’arte per tutti”, inaugurato nel 1947 proprio con la messa in scena de L’albergo dei poveri di Gor’kij. Con una simile sensibilità, durante la messinscena di Hamlet al Teatro Melato – spettacolo diretto dal regista campano e vincitore del premio Ubu nel 2021 –, Federica Rosellini, nei panni dell’inquieto Principe di Danimarca, si aggirava tra aste ricoperte dai costumi degli storici allestimenti di Strehler e Ronconi.
Ph Masiar Pasquali
La politicità dell’argomento scelto per lo spettacolo impone una problematizzazione di ordine estetico: come è possibile parlare di povertà al caldo di una sala teatrale, nel momento in cui dei professionisti pagati si rivolgono a una platea di spettatori paganti? In un saggio dedicato alle possibilità di un’opera d’arte impegnata e significativamente intitolato Impegno, Adorno scrive infatti: «È un’usurpazione e quasi uno schernire le vittime parlare come queste, come se si fosse uno di loro. È permesso di recitare ogni parte ma non quella del proletario». Consapevoli di questa delicatissima contraddizione, Latella e Bellini interpellano allora nella loro drammaturgia molteplici forme sperimentate nella storia e nella pratica di un teatro che si autocomprende come fait social: con citazioni, considerazioni metatestuali e metateatrali, vengono dunque evocati Brecht, Beckett, l’avanspettacolo, il teatro documentario, la Commedia dell’Arte. La rappresentazione, i cui meccanismi e le convenzioni – parola che assume un valore centrale nel testo – sono resi trasparenti al pubblico, viene quindi interrogata nell’istante stesso del suo farsi, sistematicamente smontata e decostruita, perché l’allestimento sfugga all’irrigidimento e alla duplicazione della violenza che sussiste nello “stato vigente di cose”.
Sul palcoscenico si muovono quindi quattro attori, Michele Andrei, Paolo Giovannucci, Stefano Laguni, Isacco Venturini (“contrappunto” maschile al quartetto di Wonder Woman), che, vestendo alternativamente i panni del Povero, del Poliziotto, del Muto e del Cavallo, costruiscono sette differenti scene, definite come “quadriglie”. Ed è un’intensa interpretazione di una selezione di brani musicali – avviata da Un ragazzo di strada de I Corvi –, eseguita dallo stesso Venturini alla chitarra, ad accompagnare e scandire il passaggio da un “quadro” all’altro.
La quadriglia – afferma il regista in un’intervista confluita nel programma di sala – è infatti un ballo che prevede lo scambio di ruoli, e in Francia veniva danzata «per raccogliere denaro per i poveri». Con costumi dai colori sgargianti – anche in questo caso ideati da Silvia D’Amico –, che rimandano allo stile iconico di Elvis Presley, gli interpreti accolgono gli spettatori nell’atrio del teatro, immobili su un piedistallo, come statue di supereroi, quasi fossero in attesa di qualche moneta. Latella racconta infatti come a ispirare la pièce sia stata la visione di «due senzatetto che chiedevano l’elemosina vestiti da Zorro, mentre da un registratore ai loro piedi uscivano le note della sigla del celebre telefilm».
Lo spazio scenico concepito da Annelisa Zaccheria – che insieme alle luci, a cura di Simone De Angelis, contribuisce a definire l’immaginario «violentemente pop» dello spettacolo – è dominato da una cabina telefonica e da un cactus che rimanda alla California, luogo per eccellenza in cui “convivono lusso e indigenza”, ma anche sfondo delle gesta compiute da Don Diego de La Vega, personaggio creato dalla penna di Johnston McCulley, che nasconde la propria personalità proprio dietro alla maschera di Zorro. Nella pièce di Latella, però, l’eroe mascherato – e l’idea di giustizia sociale da lui incarnata –, non comparirà mai, proponendosi come un Godot beckettiano, atteso invano dai protagonisti sul palcoscenico. Se Don Diego de La Vega era immaginato come un aristocratico che giunge in aiuto dei più deboli, lasciando al suo passaggio il marchio inconfondibile della sua “Z”, nello spettacolo è un altro personaggio a dipingersi una maschera nera sul volto e ad appropriarsi dell’ultima lettera dell’alfabeto: lo Zanni, figura dell’astuto servitore nella Commedia dell’Arte. Nel lungo monologo finale, attraverso la voce e l’interpretazione di Paolo Giovannucci, sono allora gli “ultimi” a parlare, una prima persona al plurale che collettivamente si presenta al pubblico: «Siamo Z (…) Siamo inutiliz. Miserabiliz. Siamo dannosiz. Siamo senzatettoz».
Nella fluidità dei ruoli sociali, nel continuo rimescolarsi delle identità sul palcoscenico, appare allora necessaria – proprio come in Wonder Woman – la ricerca di un nuovo noi, a cui appartenere e con cui rivendicare il proprio diritto a una vita degna. Nella prima emblematica quadriglia, il Povero dialoga beckettianamente con il Poliziotto che indossa una “divisa che divide”, affermando in maniera significativa: «Il pronome personale è importante, quindi le chiederei di non essere generico. Non tutti i noi sono noi, e nell’essere noi non tutti i noi si definiscono noi, come non tutti i voi si danno del voi». La maschera dello Zanni – chiarisce Bellini nel programma di sala –, allora, «lascia intuire, con incredibile preveggenza e forse desolante disincanto, che ogni rivoluzione credibile deve per forza partire dal basso, da chi per natura ed estrazione sociale non può che conoscere molto bene la fame, la miseria, il dovere del riscatto».
«Se c’è un povero che ha preferito spendere i suoi spiccioli per assistere a questa merda piuttosto che mangiare un tramezzino, alzi la mano!», chiedono dunque gli attori a bordo palco. E se è verosimile che in nessuna replica nessuno spettatore potrà rispondere sentendosi interpellato, altrettanto certo è che le platee dei teatri – e gli stessi palcoscenici – siano attraversati da numerosissime persone che faticano a vivere del proprio stipendio e ad arrivare alla fine del mese.
Nella città in cui solo pochi mesi fa un ragazzo di diciannove anni, Ramy Elgaml, perdeva la vita durante un brutale inseguimento dei carabinieri, e nel Paese in cui – negli stessi giorni in cui lo spettacolo è in scena – uomini e donne formano code infinite di fronte agli Uffici Immigrazione in attesa di un documento, e talvolta vi muoiono per il freddo, il susseguirsi dei dialoghi dello spettacolo di Latella e Bellini ci raggiunge fuori dalla sala, domandandoci allora in quale collettività vogliamo riconoscerci e quale altro mondo possibile vogliamo immaginare.
Nasce a Brescia nel 1994. Dopo un periodo trascorso a Monaco di Baviera, si laurea in Scienze Filosofiche all’Università di Padova, approfondendo il pensiero estetico di Adorno. Si diploma al Master in Critica giornalista presso l’Accademia Silvio D’Amico di Roma con una tesi dedicata al teatro di Pasolini nella visione di Antonio Latella. Attualmente scrive di teatro, cinema e letteratura sulle riviste online Tre Sequenze e Bookciak Magazine.
È con un canto, con una preghiera levata tra le colonne della Chiesa sconsacrata dei Santi Stefano e Tommaso a Spoleto – oggi Auditorium della Stella –, che Davide Enia invita il pubblico a raccogliersi in un rito collettivo, di memoria e di autoanalisi, attorno al suoAutoritratto, debuttato tra il 29 giugno e il 7 luglio al Festival dei Due Mondi. Un rito celebrato attraverso il corpo del regista, interprete e drammaturgo palermitano che, solo sulla scena – affiancato dalle musiche e dalla voce di Giulio Barocchieri – , si lascia attraversare dai fantasmi dei cadaveri abbandonati dalla mafia sulle balate della propria città a partire dagli anni Ottanta, dalle abbanniate e dai richiami dei mercanti di Ballarò, dalla scompostezza disperata di un cunto che cerca le parole per un “mondo andato in frantumi” nell’istante in cui sull’autostrada di Capaci scoppia la bomba che il 23 maggio 1992 massacra Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.
«Il primo morto ammazzato l’ho visto a otto anni», inizia a raccontare Enia, delineando un percorso di formazione scandito da date e prime pagine dei giornali, in cui la storia intima di ognuno si intreccia con quella di una comunità: nella Palermo della sua giovinezza, il grado di separazione con chi è affiliato a Cosa Nostra e con chi la combatte si riduce infatti al minimo, alla distanza di pochi banchi di un’aula scolastica e di qualche isolato in un quartiere. Se, come insegna Carla Lonzi, “ogni parola che dirà il critico dell’opera è il ritratto del critico stesso”, il tentativo di comprendere un fenomeno come quello mafioso – con i propri codici e con le proprie strategie – si riflette in un processo doloroso di autocomprensione a cui è convocata un’intera generazione: perché vengano sviscerate e sottoposte a critica quelle strutture di linguaggio e di pensiero apprese culturalmente, in seno alle proprie famiglie, che permettono il proliferare di un’inquietante zona grigia. È in una forma di «patriarcato» – quel «familismo amorale» su cui si fonda anche l’organizzazione criminale siciliana – che una sistematica educazione al silenzio trova le radici: fin dall’infanzia la parola non detta suggella legami di amicizia maschile, arrivando a forgiare, nell’età adulta, quei padri e quegli uomini muti descritti in Appunti per un naufragio(Sellerio, 2017), e poi neL’Abisso(Premio Ubu come «miglior nuovo testo italiano» nel 2019). Nelle parole di Giovanni Brusca, responsabile di aver «aver commesso e ordinato oltre centocinquanta delitti» e divenuto in seguito collaboratore di giustizia, «la mafia» è infatti «il regno dei discorsi incompiuti»: un’incompiutezza che non permette di risalire alle intenzioni e di individuare in maniera trasparente le responsabilità.
Le parole pronunciate alle ragazze durante l’adolescenza sono dunque connotate come coraggiosissime, ed è nel fiore degli innamoramenti e delle ribellioni liceali che si staglia un’altra figura fondamentale per la coscienza civica di Enia e per quella dei giovani di un’intera città: quella del suo insegnante di religione, don Pino Puglisi, l’«uomo mite» ucciso con dei colpi di pistola alla nuca il 15 settembre 1993. Dopo aver letto un breve testo teatrale in cui l’autore palermitano, ancora ragazzo, illustra sette precetti «per sopravvivere a Palermo», Puglisi – lungi dall’incarnare la “censura del clero” – commenta con sobrietà: «È accurato. Bisogna nominare le cose».
E tra le rime che grottescamente si inseguono per tratteggiare una logica linguistica appartenente alla città – Palermo Vucciria, Palermo Santa Rosalia, Palermo tua madre è mia, Palermo che vuoi che sia –, può allora avvenire la «nominazione del trauma»: la violenza efferata agita sul corpo del piccolo Giuseppe Di Matteo, sequestrato per 778 giorni, per poi essere strangolato e disciolto nell’acido, viene raccontata da Davide Enia ripercorrendo parola per parola quanto deposto durante il processo. Sono infine le bombe a spazzare via il silenzio, a renderlo impossibile. Nella torrida estate in cui Enia attende i risultati della maturità, parlando al telefono con un’amica dei fumetti di Andrea Pazienza, la «nevrosi» che porta ad associare ogni «botto» a un attentato a Paolo Borsellino si trasferisce sul piano di realtà, con l’asfalto di via D’Amelio saltato in aria e gli alberi rimasti «orfani delle foglie», il 19 luglio 1992. La generazione accorsa in strada, in piazza, è una generazione che si scopre unita: una generazione che inizia ad andare all’estero, e una volta tornata, “vede Palermo per la prima volta”, la comprende nei suoi caratteri eccentrici, intuendo, grazie a uno sguardo rinnovato, la connessione tra i resti dei palazzi bombardati e la speculazione edilizia, tra le zone non illuminate e l’agevolazione dello spaccio, tra il controllo dell’acqua e il dominio esercitato su una città. Per questa «città cimitero», disseminata di lapidi, risuona allora il Miserere di Giovanna Marini.
Nasce a Brescia nel 1994. Dopo un periodo trascorso a Monaco di Baviera, si laurea in Scienze Filosofiche all’Università di Padova, approfondendo il pensiero estetico di Adorno. Si diploma al Master in Critica giornalista presso l’Accademia Silvio D’Amico di Roma con una tesi dedicata al teatro di Pasolini nella visione di Antonio Latella. Attualmente scrive di teatro, cinema e letteratura sulle riviste online Tre Sequenze e Bookciak Magazine.
«Se voglio figli o meno è un segreto che nascondo a me stessa: è il più grande segreto che nascondo a me stessa».
È sul crinale di questa domanda abissale che si muove Maternità (Sellerio, 2019), romanzo di Sheila Heti che ispira l’omonimo spettacolo di Fanny & Alexander – scritto e interpretato da Chiara Lagani e diretto da Luigi De Angelis –, andato in scena all’Angelo Mai il 13 e il 14 aprile.
A partire da interrogativi radicali e insolubili sul proprio desiderio – districandosi tra gli imperativi imposti culturalmente e quelli dettati dalla propria biologia – che la scrittrice canadese si affida alla divinazione e alla consultazione dell’I Ching: ogni lancio di monete offre una risposta affermativa o negativa, conducendo così la narrazione in una direzione inedita e imprevista, in un serrato confronto con il Caso che giunge a configurarsi come una lunga sessione di autoanalisi.
Lo sforzo di Chiara Lagani è quello di trasformare il monologo interiore che appartiene alla dimensione della scrittura in una forma di dialogo con il pubblico, che è chiamato a sviscerare in termini politici, sociali e psicologici questioni quali le responsabilità connesse alla maternità, l’omogenitorialità, il diritto all’aborto, la gestazione per altri (definita, proprio il giorno prima della replica romana, “pratica disumana” dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni).
La riflessione si allarga dunque per divenire comunitaria: gli spettatori – talvolta abbagliati dal riflesso di uno specchio per essere interpellati singolarmente – sono invitati a esporsi tramite una scelta, che può essere compiuta, in un brevissimo arco di tempo, grazie all’utilizzo di un piccolo telecomando fornito a inizio spettacolo: «I figli si hanno o si fanno?». «Siamo troppi o troppo pochi su questa Terra?». «Mi sarà e vi sarà utile questo spettacolo?».
La pièce – esattamente come il romanzo – procede quindi per scossoni: la risposta che ottiene una base maggioritaria permette di dischiudere soltanto alcuni deifuturi possibiliimmaginabili per la protagonista e, più concretamente, solo alcune delle soluzioni drammaturgiche ipotizzate per l’interprete, precludendo l’attualizzazione di tutte le altre.
I grafici che – a ogni quesito – vengono a costruirsi sullo schermo sospeso sul palcoscenico riconducono la portata della scelta a una connotazione pienamente umana, assembleare, quasi referendaria, permettendo di abbozzare una “geografia sociale” delle platee, la cui composizione e la cui predisposizione a confrontarsi con i nodi cruciali dello spettacolo varia consistentemente a seconda dello spazio in cui viene messo in scena.
Il gioco teatrale – la cui dimensione ludica è accentuata dalla fruizione dei dispositivi elettronici – diviene progressivamente più inquietante e ambivalente se si considera che una “tribuna” di molti detiene letteralmente il potere di scegliere il destino della donna che ha di fronte, eterodirigendo le sue azioni, fino a irrompere nell’intimità della sua carne («Sono fertile oppure ho cellule pre-cancerose?»).
In questa sorta di processo allestito, l’attrice domanda al pubblico quale ruolo le pertenga: «Imputata, giudice o testimone?».
«C’è bisogno di tensione per creare qualcosa: come la sabbia dentro la perla – scrive Sheila Heti –. (…) Sono cose buone e mi costringono a vivere con integrità, a mettere in discussione ciò che è importante per me, e quindi a vivere davvero il senso della mia vita, invece che affidarmi alle convenzioni».
Chiara Lagani sembra allora radicalizzare la tematica dell’autodeterminazione in termini di autoconsapevolezza e responsabilità collettive, rendendo evidente – attraverso la dinamica scenica proposta – che non può esserci libera scelta sull’essere madri o sul non esserlo, sul portare avanti una gravidanza o sull’interromperla, senza che quella libertà venga tutelata materialmente, tramite un discorso politico che garantisca il riconoscimento giuridico dei diritti, oltre che sussidi economici adeguati e l’accesso a servizi sanitari sicuri.
«L’universo perdona le donne che fanno arte e non fanno bambini?» è una delle domande poste nel testo di Sheila Heti che apre alla tematizzazione della dicotomia platonica tra generazione secondo il corpo e generazionesecondo l’anima: «del pensiero e ogni altra virtù» sono infatti «generatori tutti i poeti e quanti degli artisti sono detti inventori». Nel passaggio dalla scrittura al palcoscenico, è la stessa Chiara Lagani a ricordare – nel dibattito con Rosella Postorino – che nel teatro si rende possibile l’esperienza dell’«essere due», in una sorta di gestazione fantasmatica per la quale ci si accompagna sempre al proprio personaggio concepito per la scena. Risuonano così ancora una volta, assumendo un nuovo grado di serietà e problematicità, le parole con le quali l’attrice apre la pièce, e alle quali dobbiamo decidere se prestare fede o meno: «Mi chiamo Sheila Heti, ho quarantotto anni e sono incinta».
Nasce a Brescia nel 1994. Dopo un periodo trascorso a Monaco di Baviera, si laurea in Scienze Filosofiche all’Università di Padova, approfondendo il pensiero estetico di Adorno. Si diploma al Master in Critica giornalista presso l’Accademia Silvio D’Amico di Roma con una tesi dedicata al teatro di Pasolini nella visione di Antonio Latella. Attualmente scrive di teatro, cinema e letteratura sulle riviste online Tre Sequenze e Bookciak Magazine.
«Un pigiama party, un’assemblea femminista, una serata, un happening, un esperimento». Così Silvia Gallerano definisce il progetto Svelarsi– andato in scena all’Auditorium Parco della Musica di Roma dal 10 al 17 gennaio –: una chiamata rivolta a «un pubblico esclusivamente di donne (cis, trans e non binarie)», a tutte coloro che si sentono e si definiscono tali.
Costruito a partire da una serie di laboratori e residenze sul tema della nudità – avviati cinque anni fa attorno all’esperienza de La Merda, lo “scandaloso” monologo scritto da Cristian Ceresoli e interpretato dalla stessa Gallerano –, Svelarsi si propone come un percorso di ricerca e di scrittura collettiva, in cui l’incontro e il confronto con una platea femminile dischiude la possibilità di un rispecchiamento, di un momento di autocoscienza, in cui il personale si scopre, ancora una volta, politico.
Articolandosi in “capitoli” che indagano il rapporto di ognuna delle protagoniste – Giulia Aleandri, Elvira Berarducci, Smeralda Capizzi, Benedetta Cassio, Livia De Luca, Chantal Gori, Giulia Pietrozzini, e Silvia Gallerano (in veste di “coordinatrice”) – con il proprio corpo e con la propria sessualità, lo spettacolo sembra ripercorrere le tappe di un itinerario che attraversa l’umiliazione e l’autoumiliazione, per sfociare nella consapevolezza e nel riconoscimento dell’intima potenza insita nella propria femminilità, al di fuori dei canoni socialmente imposti e profondamente introiettati.
Quel corpo che si manifesta totalmente spoglio sul palcoscenico viene infatti dapprima esposto e raccontato nella propria “imperfezione” – perfettamente “fisiologica” – fatta di peli, cellulite, seni cascanti: è un corpo che viene manipolato, costretto con corde e con pellicole trasparenti, marchiato con segni rossi, nei punti ritenuti “critici”, quasi fosse necessario “correggerli” e “rimodellarli”.
Ed è soltanto abbandonandosi a quella che viene descritta come danza del corpo meraviglioso che le catene di uno sguardo patriarcale – dentro e fuori di noi – vengono simbolicamente spezzate, per riscoprire la potenzialità elastica, elettrica, insostituibile che appartiene a ogni corpo: quell’unità minima che non può – e non deve – esserci sottratta.
«Crescere in un corpo di donna e amarlo» è il significativo titolo di una sezione del saggio di bell hooks Comunione– recentemente tradotto per il Saggiatore – in cui la pensatrice e attivista afroamericana incoraggia a «offrire a noi stesse quello sguardo di approvazione che speriamo di vedere negli occhi di qualcun altro», sottolineando l’importanza del ruolo giocato dai genitori, oltre che dai «mass media e dalla pressione del gruppo dei pari» nel consolidare quell’indottrinamento che conduce le donne «ad avere paura della propria carne, a pensare che vada in qualche modo alterata per essere accettabile o desiderabile».
Indottrinamento che viene perpetuato di generazione in generazione anche attraverso la trasmissione di un sapere implicitamente teso alla propria sopravvivenza, riassumibile nelle parole pronunciate dalle attrici nel momento in cui interpretano le loro stesse madri: «nelle situazioni di conflitto, cerca di essere accondiscendente».
Le protagoniste dibattono allora tra loro sulla possibilità di disporre liberamente del proprio corpo, discutendo con amara ironia argomenti come la depilazione, la chirurgia estetica e la maternità, tentando di districarsi dall’invadente imperativo «produci consuma produci» e di discernere il loro più profondo desiderare da un bisogno eterodiretto. È nel passaggio drammaturgico al capitolo sul senso di colpa che la platea, invitata dalle attrici che si mescolano tra le spettatrici, si trasforma compiutamente in assemblea: in sala riecheggiano le confessioni sul cruccio che ci assale “ogni volta che usciamo senza lasciare pronto qualcosa di buono per cena”, sul tormento che ci accompagna “per aver scambiato il nostro molestatore per un benefattore”, sull’impotenza che ci perseguita nel riconoscere “il nostro privilegio di donne bianche e occidentali che possono realizzare o assistere a uno spettacolo in un teatro”, mentre prosegue l’oppressione delle donne iraniane e non si arresta il genocidio in Palestina.
La distanza tra performer e spettatrici si sgretola infine non appena la voce di una delle interpreti si rompe nell’emozione: «mi sento in colpa ogni volta che una donna muore per mano di un uomo» – afferma, per poi subito correggersi con veemenza –, «anzi non mi sento in colpa, sono arrabbiata, siamo arrabbiate».
Nel passaggio dall’«io» al «noi», il senso di colpa cede allora il passo al sentimento generativo della rabbia, che richiama all’azione e alla trasformazione, avvolgendo con un grido l’intera platea. È così, dunque, che dalla mortificazione si approda a una sorta di liberazione, che permette di comprendersi come appartenenti a un corpo collettivo, con la dichiarazione – pronunciata da Silvia Gallerano –: «Sarò enorme (…) Non vi sembrerò più piccola. Sarò sconfinata».
Lo spettacolo può chiudersi così in un momento di festa, in un ballo sul palcoscenico insieme al pubblico, che dopo gli applausi viene invitato a sostare ancora, prendendo parte a una piccola riunione spontanea: perché la pratica dell’autocoscienza, dello scambio e dello svelarsi possa esondare dal contesto performativo e ce ne si possa riappropriare nello spazio e nel tempo della vita quotidiana.
Nasce a Brescia nel 1994. Dopo un periodo trascorso a Monaco di Baviera, si laurea in Scienze Filosofiche all’Università di Padova, approfondendo il pensiero estetico di Adorno. Si diploma al Master in Critica giornalista presso l’Accademia Silvio D’Amico di Roma con una tesi dedicata al teatro di Pasolini nella visione di Antonio Latella. Attualmente scrive di teatro, cinema e letteratura sulle riviste online Tre Sequenze e Bookciak Magazine.
«Ho voluto la mia solitudine/ sono senza amore, mentre, barbaro/ o miseramente borghese, il mondo è pieno,/ pieno d’amore…/ e sono qui solo come un animale/ senza nome: da nulla consacrato,/ non appartenente a nessuno,/ libero di una libertà che mi ha massacrato». Così Pier Paolo Pasolini tratteggia in un componimento raccolto in Poesia in forma di rosa (1964) la propria condizione esistenziale, percorsa da una “diversità” erotica e politica che lo condurrà all’esito tragico del pestaggio all’Idroscalo di Ostia nella notte tra il primo e il 2 novembre 1975.
Il corpo di Pasolini è – in senso biografico e letterario – un corpo esposto e martoriato, un corpo che soffre e che dà scandalo, ma primariamente, secondo le parole di Stefano Casi, «il corpo dell’intellettuale è la sua opera». Il confronto che Lino Musella intraprende con Pasolini nel suo “assolo” Come un animale senza nome (con drammaturgia di Igor Esposito) – in scena al Teatro Vascello di Roma dal 28 al 30 novembre – si profila allora come un “corpo a corpo” con quello che è il corpus letterario dello scrittore bolognese: indossati un paio di occhiali spessi che rievocano la fisionomia pasoliniana, il corpo dell’attore di fronte al leggio sembra infatti eclissarsi “in favore” delle parole dell’intellettuale, scandite ritmicamente e accompagnate sul palcoscenico dalle sonorità elettroniche elaborate da Luca Canciello.
A costituire l’ossatura della pièce sono i versi di Poeta delle Ceneri (pubblicato postumo nel 1980), poemetto «bio-bibliografico» con il quale l’intellettuale si presenta al pubblico statunitense – al quale è noto principalmente per il suo cinema – in qualità di «poeta», ripercorrendo la propria vita e le proprie opere, dalla propria nascita in «una città piena di portici» all’avvicinamento al marxismo, fino a ribadire la propria “fratellanza” con Allen Ginsberg, artista che si pone come una «vivente contestazione» nell’America degli anni Sessanta.
Sono proprio i versi di Howl (1956) a riecheggiare durante lo spettacolo, quasi a rappresentare un modello umano e letterario per le linee programmatiche di quella che Pasolini immagina come una «vita futura»: «perciò io vorrei soltanto vivere/ pur essendo poeta/ perché la vita si esprime anche solo con se stessa./ Vorrei esprimermi con gli esempi./ Gettare il mio corpo nella lotta. (…) Non c’è altra poesia che l’azione reale».
Lo spettacolo-concerto ideato da Musella si articola allora in un mosaico di frammenti e citazioni, procede tramite rapide “incursioni” all’interno dell’intera opera pasoliniana – dalla poesia che recita «Io sono una forza del Passato» all’infiammato «Io so» del celebre articolo poi rinominato Ilromanzo delle stragi e confluito in Scritti Corsari (1975) –, per restituire un ritratto di un intellettuale poliedrico e contraddittorio attraverso la sua stessa parola. Scomparso il corpo di Pasolini – dalla Storia, così come dalla rappresentazione –, è infine soltanto la sua voce a essere rievocata in maniera fantasmatica, grazie a una registrazione leggermente “distorta”, per affermare nel presente e nello spazio spoglio del palcoscenico la propria «disperata sfiducia nelle società storiche» e la propria «anarchia apocalittica».
In un vero “corpo a corpo” con il pubblico consiste invece L’ammore nun è ammore, secondo “assolo” di Lino Musella, approdato al Vascello nei giorni immediatamente successivi allo spettacolo pasoliniano, tra il primo e il 3 dicembre. Accompagnato, questa volta, dai cordofoni e dalle percussioni di Marco Vidino, Musella si cimenta con un altro testo originariamente non pensato per la scena, 30 sonetti di Shakespeare «traditi e tradotti» da Dario Jacobelli. Il dialetto utilizzato nella traduzione da Jacobelli, poeta napoletano prematuramente scomparso nel 2013, «attinge da una parte a una lingua teatrale e letteraria, dall’altra a contaminazioni contemporanee che vanno dallo slang al linguaggio di strada» – si legge nelle note di regia –, consentendo il paradosso della restituzione di «una teatralità ai versi del più grande drammaturgo al mondo».
Allo stesso modo in cui il testo dei sonetti si maschera, si camuffa e si trasforma, Musella si traveste, diviene donna anziana che si compatisce di fronte allo specchio, scugnizzo festante sul motorino: indossa abiti, parrucche e cappelli sgargianti che subito dismette, come per incarnare un personaggio ogni volta differente che possa dare voce ai sonetti, parlando di uno straziato sentimento di amore, dell’immortalità della poesia o della caducità della bellezza e dell’esistenza.
L’attore napoletano fuoriesce dallo spazio “canonicamente” pensato per la rappresentazione, scomparendo dietro le quinte, arrampicandosi sulla balconata e immergendosi bendato tra gli spettatori, facendosi letteralmente guidare da coloro che gli tendono una mano dal pubblico. Musella coinvolge la platea, la invita a indovinare le rime baciate, e sceglie pochi singoli spettatori ai quali “confidare” un sonetto segreto, determinando così una fruizione differenziata della medesima pièce da parte degli astanti.
Il contatto fisico e corporeo stabilito dall’interprete con il pubblico – che si esprime principalmente con lievi carezze – determina quella che Erika Fischer-Lichte definisce «irruzione del reale nella finzione»: se il teatro, etimologicamente, rappresenta un «medium pubblico», orientato sulla distanza dell’occhio, sulla vista», laddove lo sguardo rappresenta «il luogo in cui sorge l’illusione stessa», il contatto appartiene invece alla «sfera intima», che induce lo spettatore a essere sensibile non solo nei confronti del personaggio, ma anche «nei confronti dell’attore in quanto persona effettiva». Nella tensione tra «dimensione pubblica e intimità», gli spettatori vengono dunque riconosciuti nella loro presenza corporea come co-soggetti essenziali all’esperienza performativa e alla produzione di una comunità.
E a intensificare la funzione comunitaria e politica del teatro è ancora una volta Lino Musella che, il 29 novembre, Giornata Internazionale della Solidarietà con il Popolo Palestinese – prima di una replica dei suoi spettacoli al Teatro Vascello –, ha offerto al pubblico una lettura integrale del testo poetico Stato d’assedio di Mahmud Darwish, scritto nel 2002 durante l’assedio di Ramallah da parte delle truppe israeliane di Ariel Sharon. Versi che risuonano oggi con straziante attualità e che richiamano a una presa di posizione a un’assunzione di responsabilità collettiva: «Non lasciateci soli, non abbandonateci».
Nasce a Brescia nel 1994. Dopo un periodo trascorso a Monaco di Baviera, si laurea in Scienze Filosofiche all’Università di Padova, approfondendo il pensiero estetico di Adorno. Si diploma al Master in Critica giornalista presso l’Accademia Silvio D’Amico di Roma con una tesi dedicata al teatro di Pasolini nella visione di Antonio Latella. Attualmente scrive di teatro, cinema e letteratura sulle riviste online Tre Sequenze e Bookciak Magazine.
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