«La parola del teatro è, prima di tutto, orrendamente (insopportabilmente) fisiologica». Così scrive Giovanni Testori nel suo manifesto del 1968,Il ventre del teatro, per teorizzare una parola teatrale a cui sia propria una «qualità di carne e di moto (a strappi, a grida, a spurghi ed urli; una qualità forse impossibile, quasi certamente blasfema)».
Ed è proprio la ricerca attorno a questa «parola-materia» – un «verbo» che, compiendosi «qui e ora», possa incarnarsi nel corpo dell’attore, e una «carne» che, a sua volta, tenti di «rifarsi verbo» – a dettare le linee programmatiche diBAT – Bottega Amletica Testoriana.
Il progetto, ideato e curato da Antonio Latella e promosso da AMAT Associazione Marchigiana Attività Teatrali per Pesaro Capitale italiana della Cultura 2024, Piccolo Teatro di Milano e stabilemobile, in collaborazione con Associazione Giovanni Testori, coinvolge otto giovani attrici e attori che, tra settembre 2023 e febbraio 2024, sono invitati allo studio e al confronto con la lingua e la poetica dello scrittore di Novate Milanese, nell’anno in cui ricorre il centenario della sua nascita.
«Tornare dunque al concetto primario ereditato dai nostri maestri: mettere sé stessi a servizio dell’autore e dei/delle compagni/e di lavoro – afferma il regista campano nell’avviso di selezione per il percorso di formazione –. Regalarsi un tempo per tornare “a bottega”, usando un’espressione forse desueta, ma che continua a indicare una modalità di lavoro che si caratterizza per lo studio e la pura ricerca».
Quello a cui abbiamo avuto modo di assistere – tra il 27 e il 29 ottobre, e tra il 3 e 5 novembre – al Teatro Grassi di Milano non è allora uno spettacolo formalizzato, ma una sessione di lezioni aperte alla condivisione con il pubblico, durante le quali il lavoro artigianale sul «testo-Testori» viene restituito sotto forma di esercizi per gli attori.
È dunque il pubblico stesso ad avere un ruolo fondamentale nel progetto, e non solo perché, oltre agli otto attori professionisti, sono stati selezionati otto spettatori e spettatrici “in avamposto” che potessero condividere la ricerca «in una sorta di inedita “intimità”»: non appena si fa ingresso nella storica sala milanese, la platea si vede infatti “riflessa” – grazie all’utilizzo di una telecamera – sul fondale del palcoscenico per l’intera durata della lezione.
Il pubblico viene allora interpellato e portato al dialogo dallo stesso Antonio Latella che, muovendosi tra le poltrone, incoraggia i singoli spettatori a partecipare al processo creativo nell’istante stesso del suo svolgersi.
Dagli spettatori e dalle spettatrici arrivano infatti i “suggerimenti” di parole per dare il via alle prove mnemoniche e d’improvvisazione versificatoria intraprese dai giovani: dal classico gioco “c’è un bastimento carico di…” si passa all’invenzione di rime baciate, che vengono scandite in una sorta di freestyle.
Questo esercizio preliminare sulla parola e sulla modalità della sua declamazione apre a un’interpretazione dell’opera testoriana ancora mai sperimentata: in una paradossale aderenza al testo, organizzato in frasi brevissime e sincopate, gli attori recitano i versi del Post-Hamlet a ritmo di rap, intuendo un tempo intrinseco alla scrittura che risuona come straordinariamente contemporaneo per chi vi si accosti nel ventunesimo secolo.
Il percorso di studio della Bottega si articola in tre tappe che approfondiscono le “riletture”– «rivisitazioni», «imbastardimenti», «strozzamenti» – testoriane dell’Amleto shakespeariano, opera con la quale lo stesso Latella ha finora avuto un “triplice” confronto.
L’itinerario dei giovani attori prende infatti avvio dalla lingua estremamente visiva di Amleto. Una sceneggiatura per il cinema (1970), per passare all’impasto di dialetto lombardo, francesismi e latinismi dell’Ambleto (1972) – antieroe anarchico che mira ad annientare «la soverana piramida dell’ordeno e del potere» –, e per approdare infine al già citatoPost-Hamlet (1983), in cui il protagonista, significativamente assente dal testo, diviene una figura redentrice, che accetta il martirio per liberare un’umanità schiacciata dal potere reificante e omologante di una società capitalistica e tecnocratica.
Come sottolinea lo stesso regista, gli scritti amletici testoriani sono attraversati anche da uno straziato sentimento d’amore, che si esplica in prima istanza nel rapporto tra le varie versioni di Amleto e il personaggio del Franzese/Orazio: a serbare traccia di questa memoria testuale è l’intermezzo in cui gli attori, “schierati” in fila sul proscenio, eseguono a cappella il brano Amandoti dei CCCP.
In maniera quasi “mimetica” alla poliedricità dei linguaggi – dal teatro alla prosa e alla poesia, dal giornalismo alla critica d’arte e alla pittura – in cui il magmatico pensiero di Testori è venuto a sedimentarsi, l’indagine condotta dagli otto giovani insieme a Latella si sofferma sull’esercitazione nella tecnica del ritratto e sulla costruzione di una coreografia ispirata al mondo del pugilato: un’arte che possiede una disciplina molto simile a quella teatrale – come affermano gli interpreti –, e che tanto spazio trova nell’opera testoriana, a partire dai racconti sui «poveri diavoli» della periferia milanese ne Il ponte della Ghisolfa, a cui Visconti attinse a piene mani per il suo Rocco e i suoi fratelli, fino alla serie di dipinti dedicata ai Pugili, carichi di colori accesissimi e di materia.
Allo stesso modo in cui i soggetti delle tele di Testori sembrano sporgersi e fuoriuscire dalla cornice, gli attori Noemi Apuzzo, Alessandro Bandini, Andrea Dante Benazzo, Matilde Bernardi, Flavio Capuzzo Dolcetta, Chiara Ferrara, Sebastian Luque Herrera e Beatrice Verzotti prediligono un’assoluta frontalità sul palcoscenico, si siedono accanto agli spettatori, e si espongono a quella “domanda di relazione” che per Hans-Thies Lehmann rappresenta una necessità fondante del teatro contemporaneo.
La sperimentazione diBAT – Bottega Amletica Testoriana, fondata su un lavoro di ricerca collettivo, intrapreso da giovani professionisti, trova allora riconoscimento (è importante sottolineare: anche economico) e accoglienza nel primo teatro stabile d’Italia, per rileggere e riscoprire in dialogo con l’intera comunità teatrale la pregnanza di una parola come quella di Giovanni Testori, in grado gettare un ponte tra la nostra tradizione drammaturgica e una nuova generazione di interpreti.
Nasce a Brescia nel 1994. Dopo un periodo trascorso a Monaco di Baviera, si laurea in Scienze Filosofiche all’Università di Padova, approfondendo il pensiero estetico di Adorno. Si diploma al Master in Critica giornalista presso l’Accademia Silvio D’Amico di Roma con una tesi dedicata al teatro di Pasolini nella visione di Antonio Latella. Attualmente scrive di teatro, cinema e letteratura sulle riviste online Tre Sequenze e Bookciak Magazine.
Dal 9 al 14 maggio scorso,La Merda, «monologo rivoluzionario» scritto da Cristian Ceresoli e interpretato da Silvia Gallerano – vincitore nel 2012 del Fringe First Award for Writing Excellence e del The Stage Award for Acting Excellence al Fringe Festival di Edimburgo – è tornato, dopo aver registrato un enorme successo di critica e sold out in tutto il mondo, a riempire con il suo flusso di coscienza brutale e commovente l’auditorium di Spin Time Labs.
In questo stabile occupato nel Rione Esquilino, a pochi passi dal centro di Roma – abitato da circa 160 nuclei familiari provenienti da 26 nazionalità diverse –, ogni replica dello spettacolo è stata introdotta dal racconto dello spazio, vero e proprio cantiere di rigenerazione urbana, centro culturale polifunzionale e soprattutto modello di costruzione di «una comunità aperta, accogliente e solidale». Il pubblico variegato che è accorso per assistere alla pièce si è dunque imbattuto in alcuni brevi interventi sul diritto all’abitare – abbracciati dalle studentesse e dagli studenti de La Sapienza protagonisti della protesta con le tende contro il caro-affitti –, e sulla violenza perpetrata sui migranti ai confini dell’Italia e dell’Europa, di cui si sono fatti interpreti i rappresentanti di Mediterranea Saving Humans.
A undici anni dal suo debutto, la denuncia politica e poetica de La Merda – che offre uno spietato affresco del nostro Paese e di quella società «delle Cosce e delle Libertà» alla quale la giovane protagonista tenta disperatamente di accedere, trovandosi a subire e ad accettare qualunque tipo di abuso e umiliazione – continua a intrecciarsi e a sostenere istanze della contemporaneità che attraversano gli spazi in cui viene rappresentata.
Del lungo percorso e della lunga vita di questo spettacolo abbiamo parlato con Cristian Ceresoli, autore del testo, e Silvia Gallerano, che domina l’intera scena con la nudità e la potenza del proprio corpo e della propria voce.
Quale significato e quale valore acquista per voi rappresentare lo spettacolo in un luogo come Spin Time, uno spazio di accoglienza e con una forte connotazione politica? Dopo le prime “porte in faccia” all’inizio del vostro percorso, dopo i riconoscimenti ottenuti in tutto il mondo e dopo molti anni di tournée, in quale circuito vi interessa portare lo spettacolo e quale pubblico vi sembra di intercettare?
Cristian Ceresoli: La storia di questo lavoro inizia nel 2010, quando Silvia e io decidiamo di realizzare qualcosa insieme, dividendoci le competenze: uno si mette a scrivere e l’altra inizia a costruire la propria interpretazione. Per quanto ancora ci definiscano giovani – con un’espressione che sembra voler accontentare e addolcire chi risulta più fastidioso per il sistema –, tredici anni fa eravamo davvero dei giovani artisti con idee che derivavano dai nostri diversi percorsi. Per via della sua formazione e della sua provenienza familiare, Silvia ha da sempre intrecciato la sua attività professionale alla sua vita da attivista. Venendo da un contesto di provincia, consumista e berlusconiano, io sono invece arrivato ad abbracciare queste esperienze molto più tardi, ma per entrambi il percorso artistico e quello politico risultano essere consustanziali. Penso che l’esprimere liberamente gli orrori e le gioie della nostra condizione – che sia la nostra condizione umana o la nostra condizione sociale – determini infatti delle conseguenze che sono sociali, politiche ed emotive.
Tredici anni fa ci siamo trovati allora a proporre La Merda, e questa proposta è stata recalcitrata, osteggiata, criticata, violentata, aggredita e sfruttata. Come nella più classica delle vicende romantiche, noi però non abbiamo demorso e abbiamo trovato ragioni per continuare, iniziando a presentare lo spettacolo in cantine scalcagnate, in locali in cui facevano musica, o anche in contesti accoglienti come quello di una residenza. Nel 2010 sono stati soltanto cinque i posti che ci hanno permesso di rappresentare il lavoro: e in tutti questi posti abbiamo riscontrato un’incredibile riconoscenza da parte di persone non legate al settore: si può dire che siamo fuggiti dal settore teatro, pur continuando a farlo pienamente.
Uno dei posti che ci ha accolto, con grande calore, è stato il Teatro Valle Occupato, di cui siamo stati grandi protagonisti e attivisti. Dunque, il legame con luoghi significativi da un punto di vista di costruzione delle comunità, quei luoghi di occupazione e clandestinità, nasce da qui: spazi come Spin Time fanno parte del nostro percorso a partire da tredici anni fa. Sono i luoghi che ci hanno accolto, che ci hanno permesso di lavorare in autonomia e indipendenza, e di distruggere quello schema accademico per il quale chi fa teatro fa teatro, chi fa musica fa musica, chi fa il critico fa solo quello. In questi luoghi tutto era possibile e tutto poteva essere presentato: dalla serata di milonga, all’incontro sull’emergenza dell’acqua, a un’opera di teatro classica con uno scrittore e un’attrice, come La Merda.
Prima ancora che lo spettacolo diventasse un caso mondiale al Fringe nel 2012, noi lavoravamo gomito a gomito, immaginando di costruire un teatro che non c’era. Da un lato c’era il cosiddetto teatro di ricerca che ci rifiutava, perché riteneva che la nostra proposta fosse “troppo pop”. Una definizione che comunque a me piace molto (ride), soprattutto se penso al pop di David Bowie, Amy Winehouse, Vinicio Capossela, Serena Sinigaglia. O se penso a quello che fanno Antonio Rezza e Flavia Mastrella: sono pop e fanno qualcosa di estremamente brutale, sofisticato, commovente, toccante. Dall’altra parte, sono tredici anni che il Teatro di Stato ci rifiuta, non venendo a vedere lo spettacolo, e fermandosi allo “scandalo” del titolo e del nudo della protagonista: il nostro nudo, tra l’altro, non è affatto un nudo sensuale, ma è frutto di una precisa scelta poetica, intendendo rappresentare l’essere umano per quello che è.
Quindi non è propriamente corretto dire che “portiamo” lo spettacolo a Spin Time: noi siamo nati lì, come altrove, per citare la canzone di Morgan. E La Merda è già lì, allo stesso modo in cui è nella televisione di Stato, la 2, per il più importante festival di arti performative ispanico, o allo stesso modo in cui è a Vancouver, o nel West End londinese. Abbiamo portato lo spettacolo anche all’Auditorium Parco della Musica a Roma e nei più importanti e celebrati teatri del Paese, anche se non in quelli più “invecchiati” e con un pubblico solo di settore.
Per noi è stata dunque un’urgenza, una gioia e un’esigenza presentare il lavoro a Spin Time, e La Merda è stata costruita anche grazie all’aiuto di tanti complici e protagonisti: grazie ai tanti migranti che vivono in quel palazzo, che avevano le chiavi dell’auditorium, davano una mano in cucina e lavoravano all’accoglienza, grazie alle suore e ai tantissimi giovani in sala, e allo chef che ha dato definizioni intellettuali e poetiche dell’esperienza. Difendiamo e proteggiamo quei luoghi che ci sembrano dover essere protetti e difesi, e allo stesso tempo, fanno parte della nostra vita e del nostro percorso.
Silvia Gallerano: Non si tratta di un “tornare” a questi luoghi: la nostra storia non è mai stata collegata con il mainstream, ed è invece fortemente connessa con i margini. Non a caso, abbiamo avuto il nostro successo al Fringe, che per quanto non sia più un festival di margine, porta questa parola nel nome. Abbiamo incominciato in maniera molto clandestina, costruendo il lavoro veramente dal basso: facevamo le prove nel bagno di casa, e la prima persona che ci ha ospitato è stata un’amica con una libreria che ha messo il sottoscala a nostra disposizione. Le prime persone che hanno visto lo spettacolo sono quindi venute a casa nostra, e abbiamo incontrato compagni di viaggio che non ci hanno sbattuto le porte in faccia: Stefano Cenci, Teatri di Vetro che ci ha ospitato per una replica, il Teatro i che ci ha fatto debuttare…Era però uno spettacolo destinato ad avere una breve vita: nonostante tutti i rifiuti, eravamo convinti avesse un valore.
Dobbiamo riconoscere che siamo stati testardi e abbiamo avuto ragione. Avremmo potuto tranquillamente rinunciare, come mi era già successo con spettacoli precedenti. Essere in due a crederlo, ed essere un po’ al limite del suicidio artistico, ci ha incoraggiato a osare, traducendo la pièce e andando all’estero. Quando siamo tornati, non siamo rientrati nella “via maestra”, non potevamo più farlo: in qualche modo il velo di Maya era stato strappato. Il circuito ufficiale ci aveva rifiutato e non potevamo dimenticarcelo.
Fin da subito, quando ancora non c’erano i social, abbiamo cercato di creare con dei piccoli video su YouTube un’attenzione nei confronti del nostro spettacolo che fosse al di fuori del circuito teatrale. Ed è una cosa secondo me molto bella – è sempre stato così e continua a esserlo – che il pubblico de La Merda sia un pubblico molto misto, non composto soltanto dagli addetti ai lavori. Gli addetti ai lavori poi sono arrivati, ma molto in ritardo. All’inizio il supporto è stato di persone che normalmente a teatro non vedi, o che sono andati a teatro pochissime volte nella loro vita. Spin Time è quindi un luogo che rappresenta perfettamente il pubblico de La Merda. È connotato politicamente, ma è al centro di Roma, in un quartiere ormai gentrificato e pieno di attori e registi di cinema, che vanno a formare quindi anche un pubblico di settore e upper class.
Ci sono dei ragazzi molto giovani, anche di 14-15 anni, che magari hanno sentito parlare dello spettacolo dai fratelli maggiori: sono stati sempre una componente molto forte del nostro pubblico, a cui teniamo molto. E poi ci sono i migranti che abitano il palazzo, con i quali abbiamo una relazione: basti pensare che i loro figli e i nostri vanno nella stessa scuola, proprio lì accanto. C’è quindi una prossimità quotidiana con le persone che vivono lì, e che quando c’è lo spettacolo ci vengono a vedere. Nello spazio di Spin Time c’è quindi una mescolanza di tantissimi aspetti e protagonisti della vita cittadina, che si ritrovano tutti insieme.
Ph. Valeria Tomasulo
Tra le tematiche dello spettacolo c’è quella dell’abuso da parte di chi ha un potere su chi è più fragile, del maschile sul femminile, nel mondo dello spettacolo e non solo. Mi ha particolarmente impressionato vedere lo spettacolo pochi giorni dopo le dichiarazioni di Barbareschi relative alle molestie nei confronti delle attrici e le conseguenti prese di posizione di collettivi come Amleta o Il Campo Innocente. Alla luce di questo episodio, e più in generale, alla luce dell’emergere, negli ultimi anni – almeno dal 2015 con NiUnaMenos e poi con il #MeToo –, di nuove istanze e movimenti femministi, in che modo sentite che è “invecchiato” questo spettacolo? In che modo si è relazionato e ha interagito con queste istanze?
C.C.: Le persone che hanno protestato di fronte all’Eliseo sono le nostre sorelle e compagne di lotta. In quanto uomo, su questo argomento devo utilizzare una necessaria distanza, perché di uomini che si appropriano di questi movimenti ce ne sono fin troppi. Come tutte le istanze importanti, a un certo punto prendono un nome e una riconoscibilità: ovviamente si configurano però come un emergere di urgenze, necessità e scelte, ben presenti anche anni prima, magari in maniera oscura e clandestina. Nel 2015 La Merda aveva già fatto una tournée mondiale: ci sono persone che l’hanno vista, ne hanno sentito parlare, e anche i social hanno permesso che si diffondesse a livello planetario. In qualche modo possiamo dire che lo spettacolo abbia fatto parte di una grande costellazione che ha portato alla costruzione dei movimenti più recenti.
Persone che nel 2015 erano bambine e bambini sono cresciute, hanno acquisito consapevolezza e hanno cominciato giustamente a lottare per i diritti di tutte e di tutti. La nostra opera non è mai stata molto ben digerita dalle veterofemministe, militanti negli anni Sessanta e Settanta: avendo un’idea più ideologica della politica, facevano fatica a mandar giù ciò che è poetico, ciò che è fragile e può turbare, e per esempio lo spettacolo è stato rifiutato da un teatro femminista in Austria. Il tema dell’abuso da parte di un universo maschilista, capitalista e patriarcale su un umano, e in particolare su una ragazzina di tredici anni che non ha la possibilità di costruirsi un’identità – perché viene travolta, turbata, brutalizzata, stuprata, intellettualmente e non solo – è invece la chiave di tante manifestazioni e proteste attuali.
Essendo la nostra una vera produzione indipendente, ci consente l’autonomia di portare lo spettacolo ovunque vogliamo, ma ci costringe anche ad occuparci da zero a cento di tutta l’organizzazione. Tutto ciò, che mi ha portato a smettere di scrivere, è stata anche una delle ragioni che mi ha portato a sviluppare una grave malattia depressiva per due anni e mezzo. Quando la malattia era nella sua fase calante e anche la situazione pandemica aveva iniziato a migliorare, si è affacciata per noi la possibilità di riproporre La Merda nella stessa sala al Festival di Edimburgo, e di fare una celebrazione dei dieci anni dello spettacolo nei teatri più importanti a cui eravamo rimasti legati.
L’idea è partita da Silvia ed è stata accolta entusiasticamente da Paola Farinetti, dalle Produzioni Fuorivia, che è la co-produzione che ci affianca per il lato logico-amministrativo e per la distribuzione. Superati i miei dubbi, dovuti principalmente alla fragilità che stavo attraversando, la grande domanda è stata: verranno le persone a vedere lo spettacolo? Perché la nostra sopravvivenza di artisti, e di tutte le persone coinvolte nel progetto, dipende dal riempimento delle sale. Una volta che abbiamo appurato che le sale continuavano a riempirsi, la questione che ci siamo posti è stata: come sarà percepito lo spettacolo? Sarà un’opera vecchia? E la risposta è stata sorprendente.
Negli anni della nostra tournée ho percepito una grave involuzione del tema dell’abuso sul corpo e sulla mente femminile. Un problema che tocca le persone più fragili, aggravato dalla pandemia, dalla diffusione dei devices sin dalla tenera età, da un aumento sempre più brutale ed efficace di quella che Pasolini, già negli anni Settanta, definiva “dittatura capace di ucciderci con dolcezza”. Le tematiche sono dunque esplose in una maniera ancora più incredibile rispetto al 2012: e lo dimostrano i tantissimi ragazzi di 14-15 anni che stanno venendo a vedere lo spettacolo e si riconoscono in quello che raccontiamo. Da artisti, ci siamo accorti che quello che noi percepivamo come una sorta di fascismo al quale volevamo ribellarci riguardava tantissime e tantissimi nel mondo: un fascismo nella forma governativa, o in quella consumistica delle grandi imprese della cultura, del cinema, della televisione e del teatro. Questa forma di denuncia che portiamo attraverso la poesia, produce delle conseguenze su chi si assume il coraggio di esporsi, ma non per questo smetteremo di farlo.
S.G.: Quando lo spettacolo era ancora clandestino, ma avevamo già iniziato a fare qualche replica, è emerso il cosiddetto “scandalo delle Olgettine” di Berlusconi. Anche se Cristian non aveva scritto il testo con l’intento di raccontare quella vicenda, La Merda è stato molto collegato a quel caso di cronaca. È passato del tempo ed è emerso il movimento del #MeToo, poi del #MeToo Italia, e ora Barbareschi ha fatto queste dichiarazioni… A livello di cronaca c’è sempre qualcosa che sembra corrispondere a quello che raccontiamo in questo spettacolo.
Il problema è che il tema è talmente enorme, presente e radicato profondamente nella nostra società, che non abbraccia soltanto qualche anno o decennio. Parliamo del patriarcato e di una società maschilista, che esiste da centinaia di anni, se non da millenni. La novità forse è questa: che negli ultimi dieci anni ci sono stati vari eventi che ci hanno fatto rendere conto un po’ meglio di questo stato di cose, che purtroppo rimarrà tale per molto altro tempo. E ora abbiamo una visione più lucida anche di modalità di pensiero introiettate da noi donne. Purtroppo, mi sembra che con il tempo lo spettacolo diventi ancora più attuale. Pensiamo alla protagonista dello spettacolo: una donna così maschio, che prende le parole del padre su Garibaldi, le sradica, e le fa diventare fasciste. Con una donna di destra al governo, in questo momento, moltissimi elementi dello spettacolo risuonano ancora maggiormente.
C’è un passaggio particolarmente intenso e pregnante nel testo e nell’interpretazione, in cui la protagonista afferma: “Non già penso, ma so, che la vera soluzione finale è mangiarglieli questi loro cazzi (…) di questi due e di quelli che comandano la televisione, il Paese, la famiglia, la patria, perché solo così (…) mi lasceranno libera”. Queste parole sembrano segnare un vero e proprio momento di ribellione al potere maschile. Quello che è inquietante, però, è che la libertà che la protagonista immagina di raggiungere non incrina di un millimetro il sistema che sta accusando, ma anzi coincide con il conquistare quegli stessi posti di potere occupati dal maschile. Come si colloca questo personaggio rispetto a ciò che subisce e ciò a cui ambisce? Non c’è possibilità di emancipazione e fuoriuscita da questo grande sistema-intestino?
C.C.: La protagonista de La Merda vorrebbe essere amata e amare. Affermarsi, per lei, significa potersi sentire se stessa: fare qualcosa di importante e storico grazie a quello che può dire e fare. Trovare riconoscimento negli sconosciuti, e nei conosciuti, equivale quindi per lei a una disperata ricerca di amore. Con quello che la protagonista dice e fa – perché la scrittura dello spettacolo è corpo e azione – si squadernano varie possibilità. E penso che questa sia caratteristica più intima del mio modo di scrivere – che poi Silvia incarna in maniera totale e sublime –: come tutto ciò che è vitale o disperato, la scrittura è in movimento, e non offre risposte definitive.
La protagonista è lì perché deve porre delle questioni: è travolta, si fa travolgere, è partecipe. È vittima, è complice, è carnefice? È cattiva o buona? Finirà bene oppure no? Penso che tutto questo debba esploderci in pancia, nella testa, facendoci ridere, facendoci piangere, e facendoci portare a casa ciò che di più ricco c’è nell’arte che amo io, che esalta, commuove, turba e accompagna. Ed è bello quando qualcuno mi fa notare connessioni a cui non avevo pensato. Durante le ultime repliche, una persona – e saranno state soltanto cinque o sei in tutti questi anni –, mi ha chiesto quale fosse il rapporto tra la protagonista e suo padre, se nella carezza che la ragazza riceve da lui fosse implicita la possibilità dell’incesto e dell’abuso tra le mura domestiche. La domanda mi ha toccato profondamente: quando intuii che questa interpretazione era possibile, feci il massimo dal punto di vista letterario perché non fosse definita.
Quindi possiamo anche in questo caso rintracciare un’origine, una connessione, per la quale la tematica della rivolta al mondo patriarcale si manifesta in quel modo. Ma preferisco trattare anche quell’origine in poesia: poesia che deve essere in qualche modo preservata, avendo un valore che soverchia e supera il momento in cui siamo oggi. Proprio come una musica che può essere rimodernizzata, cantata in maniera differente, ma non distorta, e soprattutto non spiegata. Deve arrivare a un livello più alto del raziocinio, deve arrivare al cuore, a quello che è per noi spirituale e politico, toccando le viscere e la nobiltà dei pensieri. Sono grato e contento che altre persone trovino delle spiegazioni per la protagonista, ma avendola costruita in termini poetici, farò sempre in modo che almeno sia libera dalle mie.
S.G.: La realtà è sempre più complessa di come la vogliamo raccontare. È una frase un po’ semplice, ma penso che la scrittura di Cristian la sposi molto bene. Non scrive mai dei testi che abbiano una risposta rispetto al tema che pongono, o che dicano: “da questa parte c’è il giusto, e da questa lo sbagliato”. Nel patriarcato ci viviamo tutte e tutti, quindi molte cose tendiamo a reiterarle noi stesse. Per il fatto che siamo vittime, non significa che non possiamo essere noi stesse artefici di questa oppressione. E ci sono tantissime contraddizioni nella donna di potere, che riesce a prendersi il suo spazio, ma per poterlo fare nel più breve tempo possibile, prende le sembianze dell’oppressore. È molto più complesso rimanere fedeli alla propria differenza e alla propria marginalità.
Quello che fa Cristian nei suoi testi è dipingere un paesaggio, tratteggiare un’immagine e farci vivere in quanto spettatrici e spettatori un’esperienza della realtà che ci circonda. Una realtà piena di contraddizioni, che vengono sottolineate, ma la risposta possiamo darcela soltanto noi che osserviamo.
Nei confronti di questa ragazza abbiamo una reazione disgustata. In alcuni momenti ci sta simpatica, ci sembra una vittima del padre, della società, di se stessa: tifiamo per lei perché vogliamo che ce la faccia e stia bene. Poi lei diventa un mostro, e ci rendiamo conto che tifare per lei significa tifare per quella stessa società di cui vuole fare parte. Mentre guardiamo, siamo noi stessi pieni di merda. E riconosciamo la merda che ha lei dentro di noi.
Il desiderio di essere riconosciuti, per esempio nella propria professione, è un desiderio condiviso, che abbiamo tutti, soprattutto in una società che premia chi eccelle. L’importante è vederlo, comprendere che ci riguarda, e a quel punto è possibile decidere se reiterare determinati atteggiamenti oppure no. Il problema è quando questa reiterazione è cieca: perché se ce ne rendessimo conto, probabilmente ci faremmo schifo e non lo faremmo. La protagonista è piena di contraddizioni come lo siamo noi.
Per quel che riguarda l’interpretazione, invece, comprendo dalle molte donne che vengono a parlarmi dopo lo spettacolo che vedere sul palcoscenico una donna-animale che esprime la sua potenza, in sé, fa comunque un certo effetto. È un effetto di fiducia in sé e nella propria potenza. Se vuoi, per assurdo, è quasi in contraddizione con quello che tratteggia il testo: la protagonista, in realtà, usa la propria potenza per autodistruggersi, eppure moltissime donne mi hanno detto che, dopo aver visto lo spettacolo, hanno deciso di fare l’attrice, o di continuare questo percorso, dopo che stavano smettendo. Credo quindi che questo sia una specie di livello ulteriore che in alcune persone ha risuonato, al di là del livello poetico della storia che raccontiamo.
Quanto è stata rilevante l’esperienza de La Merda nella prosecuzione del vostro percorso di artisti? Penso in particolare alla scelta delle tematiche, come quella del corpo e della pervasività del potere che agisce sui corpi: nei vostri lavori successivi c’è stata in qualche modo una filiazione a partire da quegli stessi problemi?
C.C.: A Natale debutteremo con la nuova produzione, La Dolorosa, con la quale saremo di nuovo a Spin Time tra il 15 e il 21 dicembre. Al momento sto ultimando un libro che, come accennavo prima, è il racconto scanzonato della mia malattia, del covid, della città di Bergamo e delle mie origini bergamasche, trattate però nella maniera il più universalmente percepibile, e il più digeribile possibile. Ed è la prima volta che torno alla forma del flusso di coscienza dopo La Merda, perché è un modo di affrontare alcune tematiche dischiuse con quel lavoro, questa volta da un punto di vista maschile.
Ci sono fiori e collaborazioni che nascono grazie a La Merda, e che noi cerchiamo in maniera abbastanza certosina. Con Roberta Torre, per esempio, ho un bellissimo rapporto e abbiamo costruito insieme diversi progetti: una delle cose che è emerso da questo laboratorio creativo è stato l’incontro straordinario con Porpora e il doc Le favolose, diretto da Roberta. Ci sono urgenze, incontri, tematiche, nelle quali ci si ritrova a operare, ma non sono sicuramente uno scrittore di genere. Mi sembra che la ribellione umana, la festa umana possano essere un tratto unificante del nostro lavoro: il ribellarsi a qualunque forma di fascismo, a quelle coercitive e governative più evidenti, fino a quelle più sottili, presenti nella nostra natura, che portano alla prevaricazione del potente sul fragile.
S.G.: Sicuramente il progetto di Svelarsi – con cui quest’anno faremo una grande tournée, con molte date a Roma, a Milano e in altre città –nasce dai laboratori che facevo intorno alle prime repliche de La Merda: laboratori sulla nudità, per sole donne, e partivamo proprio dalle parole del testo. Usavamo proprio La Merda come miccia: da questi laboratori è nata una continuità con alcune ragazze, poi diventate donne. Questo gruppo si è creato cinque anni fa: siamo nove in scena, è stato difficile trovare una produzione che ci sostenesse, e ci si è messo anche il covid di mezzo. Poi, finalmente, abbiamo trovato Teatro di Dioniso, una produzione che sostiene molti progetti delle donne, che ci ha accolte e sostenute, e continua a sostenerci. Svelarsi nasce dai temi toccati dal testo de La Merda: i temi dell’umiliazione, dell’autoumiliazione, del corpo che non va mai bene, non è mai abbastanza. E questo concetto viene riportato anche alle nostre vite, al fatto che non ci sentiamo mai abbastanza brave, belle, potenti, soddisfatte, materne. Da tutti questi argomenti che abbiamo trattato e approfondito insieme, abbiamo creato un lavoro che definisco un pigiama party, un’assemblea femminista, uno spettacolo, una serata, un happening, un esperimento. È un esperimento perché caratteristica fondante di questo lavoro è che è interdetto allo sguardo maschile.
Possono accedervi soltanto donne: non solo donne biologiche, ma anche trans, non-binary, gender fluid e qualunque persona si senta e si definisca come donna. Lavoriamo a creare una serata composta dallo spettacolo e dall’incontro e dallo scambio con le donne che hanno partecipato, per comprendere come il loro sguardo è cambiato grazie all’assenza dello sguardo maschile in sala. È un’esperienza molto bella, fortissima, e divertente. Un momento molto liberatorio e di forte condivisione con le donne che sono insieme a noi. Sicuramente questa è una filiazione a partire dal discorso sulla potenza del corpo, del nudo femminile: una potenza che teniamo nascosta, e che invece in questa serata inizia un po’ a svelarsi, intanto tra di noi. Poi ci saranno altre fasi del progetto in cui ci apriremo a coinvolgere lo sguardo maschile, ma per ora la decisione è questa. Tutto quello che facciamo io e Cristian ha un legame e una filiazione a partire da La Merda, perché quello spettacolo ci rappresenta particolarmente. Ed è una filiazione anche la grande difficoltà che continuiamo ad avere nell’interfacciarci con il mondo teatrale: mentre all’estero, con il mondo del cinema e della musica si sono aperti dei dialoghi, con il teatro italiano i problemi sono rimasti.
Nasce a Brescia nel 1994. Dopo un periodo trascorso a Monaco di Baviera, si laurea in Scienze Filosofiche all’Università di Padova, approfondendo il pensiero estetico di Adorno. Si diploma al Master in Critica giornalista presso l’Accademia Silvio D’Amico di Roma con una tesi dedicata al teatro di Pasolini nella visione di Antonio Latella. Attualmente scrive di teatro, cinema e letteratura sulle riviste online Tre Sequenze e Bookciak Magazine.
La fratellanza che unisce gli interpreti chiamati a prendere parte a Bros – spettacolo di Romeo Castellucci andato in scena al Teatro Argentina di Roma dal 9 al 12 marzo – non è data da un legame di sangue, ma dall’obbedienza alla paternità di una medesima Legge. Una Legge la cui matrice – coincidente con le intenzioni della regia – «rimane fuori scena, invisibile agli spettatori», esplicitandosi in una serie di comandi che gli attori, secondo un indice comportamentale a cui hanno apposto la firma, sono tenuti a rispettare.
I ventuno uomini in scena – selezionati di volta in volta dai teatri in cui la pièce viene allestita – sono infatti all’oscuro di quel che accadrà durante la rappresentazione: è “semplicemente” eseguendo gli ordini a loro impartiti tramite un auricolare che diventano protagonisti nel «baratro di un presente assoluto», indossando una divisa da poliziotto che li rende indistinguibili gli uni dagli altri, e che dissolve la loro individualità in un corpo collettivo omogeneo e compatto.
Si assiste così a scene di violenza inaudita su corpi inermi che si dimenano a terra, a spari e a pratiche di tortura che prevedono waterboarding e manganellate, contorsione degli arti e volti insanguinati. Se il tema della “banale” esecuzione degli ordini in conformità al proprio “dovere” rievoca in maniera lampante la giustificazione dei crimini nazisti al processo di Norimberga, le scene di efferatezza agita dalle forze dell’ordine riportano alla memoria brandelli di storia recente, come i fatti legati al G8 di Genova nel 2001 (già nel 2003 Castellucci aveva dedicato due episodi di Tragedia Endogonidia alla figura di Carlo Giuliani), o le immagini dei pestaggi dei detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere allo scoppio della pandemia, rese poi pubbliche nel 2021, anno di debutto di Bros al LAC di Lugano.
Citando Walter Benjamin, è proprio nelle democrazie che la presenza della polizia viene, in maniera inquietante, a configurarsi come «spettrale, inafferrabile, diffusa per ogni dove», perché – con le parole di Massimiliano Tomba – «detiene nelle proprie mani un potere immane: essa agisce nel nome del popolo, e quindi tutto ciò che essa fa è fin da sempre l’espressione dell’unica volontà che ha dignità politica: la volontà popolare». Quella di Castellucci appare allora come una grandiosa analisi sul fenomeno dell’obbedienza, sulla violenza e sulla forma politica che di volta in volta la legittima. Il pubblico, confidando nel gioco della rappresentazione, dà infatti il suo assenso ai soprusi a cui assiste, autorizzando così implicitamente qualunque possibile azione, anche qualora fosse rivolta contro se stesso: proprio per questo, è ben lontano dal sentirsi al sicuro quando gli attori-poliziotti scendono con irruenza dal palcoscenico per posizionarsi al fianco degli spettatori in platea.
Per quanto imperscrutabile, la Legge che domina lo spettacolo è dunque accettata dagli astanti al punto che «il nodo tra attore e spettatore si stringe sino a soffocare ogni distinzione», come si legge nelle note di regia. Una Legge nei confronti della quale gli attori si pongono in rituale e feticistica adorazione, e che si declina in forme continuamente differenti nel corso della pièce: se a essere idolatrate sono inizialmente la gigantografia di un primate, la riproduzione di una statua greca o il ritratto di Samuel Beckett, gli ultimi disturbanti totem che fanno la loro comparsa assumono le sembianze di un robot dalle fattezze infantili, e di una macchina in grado di emettere – in maniera sorprendentemente estetica e quasi spirituale – sbuffi di vapore.
Ph Jean Michel Blasco
La riflessione di Castellucci si amplia allora per adottare i contorni di una vera e propria critica della civiltà occidentale: in Bros ripercorriamo le tracce di un’umanità che, perseguendo il mito del progresso e di una razionalità meramente strumentale e calcolante, «invece di entrare in uno stato veramente umano – secondo la lettura adorniana –, sprofonda in un nuovo genere di barbarie». Ed è proprio nel contesto di questo “mondo capovolto” e completamente tecnologizzato, in cui l’uomo si trova a essere sussunto e dominato da ciò che egli stesso ha prodotto, che si intesse con sapienza la partitura di musica elettroacustica di Scott Gibbons: sottendendo l’intero sviluppo dello spettacolo, i suoni perturbanti immaginati dal compositore statunitense scandiscono il ritmo ossessivo e disumano attraverso il quale il rito del gruppo e della massa viene compiuto.
L’atmosfera tetra che pervade la messinscena di Bros – resa a tratti solenne dal dispiegarsi di scuri stendardi riportanti i motti in latino ideati da Claudia Castellucci – sembra poter essere spezzata soltanto dalla comparsa di un bambino (Filippo Fermini) nell’epilogo: una figura minuta in tunica bianca, quasi una nuova apparizione del profeta Geremia (Valer Dellakeza), che a inizio spettacolo preconizzava la sventura in un lungo monologo in rumeno, linguaggio incomprensibile al pubblico, e per questo destinato a rimanere inascoltato.
Ma dalla weberiana “gabbia d’acciaio” della società contemporanea è impossibile fuoriuscire – sembra affermare Castellucci – e il carattere ciclico della violenza è destinato a essere reiterato: è così, allora, che al piccolo – fugace incarnazione della speranza di un altro futuro possibile –, ciò che viene lasciato in eredità è un manganello, alla stregua di un testimone.
Nasce a Brescia nel 1994. Dopo un periodo trascorso a Monaco di Baviera, si laurea in Scienze Filosofiche all’Università di Padova, approfondendo il pensiero estetico di Adorno. Si diploma al Master in Critica giornalista presso l’Accademia Silvio D’Amico di Roma con una tesi dedicata al teatro di Pasolini nella visione di Antonio Latella. Attualmente scrive di teatro, cinema e letteratura sulle riviste online Tre Sequenze e Bookciak Magazine.
È sotto la superficie dell’acqua, tra «lunghi corridoi sottomarini», alghe e scogli, che si viene catapultati leggendo l’indimenticabile incipit di Ferito a morte, chiamati a inseguire quella «spigola, quell’ombra grigia profilata nell’azzurro» che per il protagonista Massimo diventerà l’immagine – la «Scena» eternamente rivissuta – de «La Grande Occasione Mancata».
Ed è alla medesima immersione che lo spettacolo di Roberto Andò – tratto dal romanzo che nel 1961 valse a La Capria il Premio Strega, adattato per la scena da Emanuele Trevi – invita il pubblico: attraverso un gioco di velari e videoproiezioni, il sogno di Massimo si dissolve gradualmente, per fare emergere dall’azzurro dei fondali marini i contorni di lampade e poltrone, delle stanze domestiche frequentate durante la giovinezza.
Condensandosi in immagini vivide sul palcoscenico, il dormiveglia del protagonista ormai adulto (Andrea Renzi) – che siede su un letto disposto in platea, in mezzo a pagine disordinate di libri – rievoca «il legame indissolubile fra il mare e l’amore», intuito durante le proprie estati di ragazzo, a contatto con il «lusso del mondo naturale», in «una città povera in mezzo alla bellezza», secondo le parole dello stesso La Capria. Quella Napoli in cui il fenomeno del “bradisismo”, le acque, il vento e la salsedine lentamente erodono le costruzioni umane – come il monumentale Palazzo Medina – Donn’Anna in cui La Capria viveva, la cui fotografia, totalmente inabissata, campeggia sulla scena al termine dello spettacolo –, a dimostrazione di un’unica e incontrovertibile verità, ovvero che la Natura è destinata a vincere sulla Storia.
Nella pièce di Andò è allora l’elemento liquido a inglobare l’intera narrazione nella dimensione della memoria: un grande specchio inclinato riverbera la figura fantasmatica dei personaggi che di volta in volta si alternano sulla balconata allestita sul palcoscenico, e a lambire i loro riflessi sfocati e capovolti, è la proiezione di una risacca perpetua. Sulla battigia dei ricordi immaginata dal regista si dispiega quindi l’intera polifonia di voci e accenti che rendono Ferito a morte un «romanzo musicale»: sulla terrazza fluttuano i profili di Carla Bousier (Laure Valentinelli) – il sentimento per la quale rimarrà per sempre ancorato all’incompiutezza di un incontro – e delle ragazze straniere con le quali ballare e fare l’amore sugli scogli, ondeggiano gli amici chiassosi del Circolo, e ancora lo scanzonato fratello Ninì (Giovanni Ludeno), e l’imperscrutabile e quasi “leggendario” Sasà (Paolo Mazzarelli).
Ferito a morte – Ph. Lia Pasqualino
Il tempo della nostalgia nel romanzo di La Capria è il tempo della bella giornata, dell’estate luminosa: è un tempo eternamente uguale a se stesso, immobile, senza progresso. In questo senso, il puzzle di tavoli cosparsi sulla scena – il cui assetto rimane immutato nonostante il continuo cambiare di postazione dei protagonisti –, ben rappresenta il sentimento di una domenica infinita, in cui i pranzi si prolungano con gioia e divertimento, tra il chiacchiericcio, gli scherzi, le piccole manie di parenti e conoscenti. È proprio nel pieno di questa scena corale che viene ribadito da ognuno degli astanti –dall’infervorato Gaetano (Paolo Cresta), così come dall’esile nonna (Aurora Quattrocchi) e dalla madre apprensiva (Gea Martire) – che quella in cui vivono «è una città che ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutt’e due le cose insieme». Ed è così che anche il giovane Massimo (Sabatino Trombetta) decide di andarsene, di abbandonare «quel mare felice Eldorado popoloso di pesci», per raggiungere Roma: un luogo a sole due ore di distanza, eppure già regolato dal tempo «dell’orologio e dalla busta paga».
«Che cosa ancora ti trattiene? E potevo dirgli la cosa tanto assurda? – afferma il protagonista – Potevo dirgli: ritrovare uno solo di quei giorni intatto com’era, ritrovare una mattina per caso uscendo con la barca me stesso al punto di partenza – e rimettere tutto a posto da quel punto». Il Massimo adulto tenta allora più volte di fare irruzione sul palcoscenico, che si configura come materializzazione della propria memoria, scontrandosi con la realizzazione che il tempo al quale cerca di ricongiungersi non è soltanto un tempo immodificabile dalla volontà e dal desiderio, ma è soprattutto un tempo perduto.
Nello spettacolo di Andò il personaggio di Massimo è dunque concepito come doppio, incarnato da due differenti interpreti: distaccandosi da Napoli, invecchia e ricorda, rimpiange ciò a cui ha rinunciato, accarezza la ferita e la contraddizione legate a ciò che era necessario lasciare.
È soltanto nel finale che il tempo scenico si allinea a quello della veglia di Massimo adulto, e che può dunque dischiudersi lo spazio del ritorno. L’incontro con Sasà che, non a caso, si presenta dopo anni con sembianze identiche (interpretato dal solo Paolo Mazzarelli), ne rivela per la prima volta le sottili fragilità: eppure, è proprio attraverso le crepe del suo personaggio che l’incanto della giovinezza può continuare a esercitare il suo richiamo. Agganciato dal luogo mitico del proprio passato e della propria memoria, il protagonista ripercorre allora le strade a lui care, e «cerca lei, cerca Ninì…e gli pare sempre di camminare dietro qualcuno di cui sente ancora, vicini, i passi sopra queste pietre».
Nasce a Brescia nel 1994. Dopo un periodo trascorso a Monaco di Baviera, si laurea in Scienze Filosofiche all’Università di Padova, approfondendo il pensiero estetico di Adorno. Si diploma al Master in Critica giornalista presso l’Accademia Silvio D’Amico di Roma con una tesi dedicata al teatro di Pasolini nella visione di Antonio Latella. Attualmente scrive di teatro, cinema e letteratura sulle riviste online Tre Sequenze e Bookciak Magazine.
I mille volti di Salomè di Cesare Molinari – professore emerito dell’Università di Firenze, nonché tra i fondatori della disciplina di Storia del Teatro e dello Spettacolo e autore dell’ormai canonica Storia del teatro (Mondadori, 1972) –, intende essere, secondo le parole introduttive dello studioso, «in primo luogo un testo di compilazione, cioè di memoria», che tenta di ricostruire la “fortuna” del personaggio di Salomè, inseguendo la sua “danza” attraverso le sue innumerevoli apparizioni nelle arti figurative, nella letteratura, nel teatro e nel cinema nell’arco di due millenni.
Nella vastissima e articolata opera di ricognizione edita da Cue Pressnel 2015 – arricchita da un apparato iconografico comprensivo di cento illustrazioni –, Molinari evidenzia come la storia della principessa giudea, raccontata primariamente dai Vangeli di Matteo e Marco, possa ridursi a un unico e iconico «gesto»: la richiesta al tetrarca Erode Antipa di ottenere la testa del predicatore Giovanni Battista come premio per la sua danza. La pretesa crudele e spiazzante della ragazza viene però – originariamente – suggerita dalla madre Erodiade, che del re è moglie “incestuosa” e che si è attirata l’odio del profeta proprio per aver violato la legge mosaica.
Secondo un’analisi di tipo attanziale, la fanciulla non riveste dunque il ruolo di protagonista nell’episodio biblico, in quanto la sua azione si delinea come meramente funzionale al progetto di un’iniziativa altrui: è tuttavia proprio la «marginalità» di questa dinamica ad aver reso possibile – a parere di Molinari – l’ “estrapolazione” della vicenda dal suo contesto, e dunque la costruzione di un modello autonomo, «forte e ambiguo», che nei secoli ha potuto essere reinterpretato nelle sfumature più contrastanti con il variare, di epoca in epoca, della sensibilità storica e sociale.
L’ambiguità del personaggio appare evidente sin dalla difficoltà che si riscontra nel tentare di identificarlo precisamente nelle prime fonti di cui disponiamo: a partire dai racconti evangelici – fino al racconto di Giuseppe Flavio –, Salomè rimane infatti “senza nome”, venendo addirittura confusa e sovrapposta alla figura della madre Erodiade, essendo entrambe associate ai «motivi di seduzione e della lussuria», caricati del loro significato di «eterno contrasto e di lotta per il potere». Sarà Flaubert nel suo Herodias (1877) a tentare di sciogliere e giustificare la sovrapposizione tra la figura della madre e quella della figlia, affermando che la donna apparsa ad Erode «era Erodiade quale era stata nella sua gioventù, non un’altra donna che le somigliava, ma una riapparizione della stessa».
La danza, intesa come ostentazione del corpo e dunque come espressione peccaminosa, si configura nei suoi caratteri spiccatamente teatrali sin dalla narrazione di San Giovanni Grisostomo (III-IV secolo d. C.), in quanto eseguita in quello che è definito un teatro satanico, di fronte a «spettatori corrotti» e in un’atmosfera immersa nell’ «ubriachezza e nella vacuità del godimento». La spettacolarità insita nella scena è tuttavia intimamente connessa anche a un altro elemento: ovvero all’esibizione della morte violenta e alla rappresentazione del macabro, tanto gradita alla civiltà romana quanto lo sarà al mondo ottocentesco.
Quello di Salomè, nelle sue infinite stratificazioni e declinazioni, può – secondo l’autore – definirsi un mito principalmente moderno, che trova la sua sistemazione definitiva nella tragedia sperimentale di Oscar Wilde: una tragedia scritta in francese, formalmente perfetta, e soprattutto un «successo di scandalo», andato in scena per la prima volta a Parigi nel 1896, dopo il divieto di Lord Chamberlain – esteso al Regno Unito – di rappresentare soggetti biblici a teatro, e dopo l’incarcerazione dello scrittore per sodomia.
La Salomè di Wilde si ispira alla dimensione classica della tragicità, e nel suo personaggio è possibile rintracciare «la passione di Fedra come l’intransigenza di Antigone, la furia vendicativa di Medea, la bellezza fatale di Elena come la decisione spietata di Clitemnestra e il rovesciamento dell’appartenenza di Elettra», ma al tempo stesso la protagonista si propone come estremamente moderna nella propria “imprendibilità” e ambivalenza, e soprattutto nel riferire «le sue parole e le sue azioni esclusivamente a se stessa», intenta soltanto ad «esprimere e realizzare il suo desiderio e la sua passione», senza il riferimento ad ideali che la trascendano.
In quella che si potrebbe definire una “tragedia dello sguardo”, in un triangolo di desideri che «si rincorrono senza potersi incontrare», la fanciulla passa allora dall’essere desiderata (rappresentando l’oggetto al quale sono rivolte le pulsioni del “patrigno” Erode) all’essere desiderante: Salomè assume infatti su di sé l’iniziativa erotica, corteggiando apertamente il profeta che però può amare soltanto «il Figlio dell’Uomo».
Nell’interpretazione di Molinari, l’agire di Salomè nel testo wildiano tende allora a sfumare la linea di confine tra alcune categorie di pensiero tradizionalmente dicotomiche, in primis quella che – in particolare nell’Inghilterra vittoriana – separa la dimensione della «femminilità» da quella della «virilità». La ragazza è infatti pienamente consapevole del proprio potere seduttivo, che viene esplicitato nella danza, tesa a condizionare la volontà del tetrarca Erode, nel perseguimento strumentale dei propri fini. Ma è proprio nell’esibirsi artisticamente che Salomè diventa «da puramente fisica anche spirituale. Così come la realizzazione del suo desiderio coincide con la morte dell’amato e la sua stessa morte, che è anche un annullamento».
La Salomè wildiana prosegue poi la propria vita nell’opera di Strauss, andata in scena per la prima volta a Dresda nel 1906, ed è significativo notare come la traduzione tedesca di Hedwig Lachmann (realizzata a partire da quella inglese attribuita a Lord Alfred Douglas) insista fortemente sul motivo della “musica” oltre che su quello dello sguardo. «Se mi avessi guardata, mi avresti amata», dice Salomè, nel testo di Wilde, rivolgendosi alla testa mozzata di Giovanni Battista: ma, come ricorda Molinari, è della voce del predicatore – che giunge alle orecchie della giovane come “musica piena di mistero” – che la giovane si innamora dal primo istante.
La voce – così come la stessa testa – simboleggiano un oggetto d’amore non del tutto “carnale”, ma connesso sottilmente alla dimensione intellettuale e della spiritualità: è a partire da queste considerazioni che l’autore pone in costellazione molteplici frammenti drammaturgici per restituire l’intricata complessità del personaggio, interpretata di volta in volta come “casta” o come “fatale”.
Se nell’opera di Giovanni Testori la protagonista rivendica infatti il proprio diritto all’amore sensuale, «paradossalmente rinnegato da una fede il cui Dio si è fatto carne e sangue», in un poemetto di Mallarmé – recuperato poi da un balletto di Martha Graham nel 1944 – la giovane appare invece «chiusa in una sofferta contemplazione di sé, nel rifiuto di qualsiasi forma di contatto fisico», nella “fierezza” e nell’ “orrore” della propria verginità.
Tra le numerosissime rappresentazioni citate dallo studioso, vale forse la pena di ricordare almeno il sontuoso allestimento di Peter Brook dell’opera di Strauss – con la scenografia di Salvador Dalì – (1949), in cui la danza di Salomè si sviluppa in una sostanziale immobilità, o lo spettacolo diretto da Carmelo Bene (1964), in cui la principessa giudea appare grottescamente deformata in una scena fatta di drappi e stracci. O ancora, la Salomè proposta da Al Pacino nel 2006 – ultima di tre versioni teatrali – in cui la protagonista varia di continuo la propria tonalità espressiva nella recitazione, come per riassumere «tutte le emozioni, gli impulsi e le passioni che possono vivere nell’anima di una donna», o il “balletto parlato” della Compagnia Ratavùla portato in scena nel 2003, in cui la giovane è interpretata da un intero gruppo di cinque danzatrici, il cui ballo non si differenzia dal resto dell’azione, e si codifica come «pura espressione di un sentimento agito e continuamente mutevole pur nella sua sostanziale omogeneità».
Cesare Molinari intercetta allora il moltiplicarsi e il mutare dei volti di Salomè, proprio come in quest’ultima danza: è infatti a partire dall’apparentemente irremovibile condanna veterotestamentaria del femminile – «con la donna il male è entrato nel mondo», secondo le parole del Giovanni Battista wildiano – che nei secoli possono emergere anche le infinite potenzialità eversive di questo personaggio, capace di «rovesciare l’ordine naturale delle cose per ottenere, attraverso la seduzione (e quindi la bellezza e la lussuria) il potere e soprattutto il dominio sugli uomini».
Pure, la fortuna di Salomè trae origine da una storia che ha le dimensioni di un episodio, se non di un gesto. E questo la avvicina – come detto all’inizio – ai grandi personaggi femminili del mito classico: Fedra, Medea o Antigone, le quali tutte si incontrano con molto minore frequenza nelle arti figurative, fors’anche perché i testi fondanti non ne descrivono l’aspetto o ne sottolineano la bellezza: ricordo solo che Antigone viene chiamata «piccola» (σμικρά) nell’Edipo a Colono e quindi in un testo che non ne racconta il gesto fondativo. Per quanto immediatamente, e ovviamente, condannato sotto il profilo morale, quel gesto (o quell’azione) ha fatto sì che la figura di Salomè potesse diventare un simbolo forte e ambiguo, che comprende anche la constatazione che, certo, esistono donne cattive o capaci di azioni crudeli: Lady Macbeth può certamente essere avvicinata a Riccardo III, ma il catalogo delle bad girls andrebbe forse confrontato non tanto con quello dei bad boys quanto a quello delle vittime di don Giovanni che solo in Spagna, come è noto, sono già milletrè. E questo simbolo, naturalmente, le diverse epoche, le diverse culture e i diversi autori lo hanno interpretato alla luce della propria sensibilità, più o meno consciamente avvicinando Salomè a Jezabel oppure a Medea, la prima e la più grande paladina della liberazione delle donne, il cui proclama va avvicinato a quello in cui Shylock rivendica l’umanità e la dignità degli Ebrei. Un proclama che, da solo, è capace di riscattare il personaggio negativo.
Nasce a Brescia nel 1994. Dopo un periodo trascorso a Monaco di Baviera, si laurea in Scienze Filosofiche all’Università di Padova, approfondendo il pensiero estetico di Adorno. Si diploma al Master in Critica giornalista presso l’Accademia Silvio D’Amico di Roma con una tesi dedicata al teatro di Pasolini nella visione di Antonio Latella. Attualmente scrive di teatro, cinema e letteratura sulle riviste online Tre Sequenze e Bookciak Magazine.
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