Allo Spazio Diamante tornano gli studi del Festival InDivenire

Allo Spazio Diamante tornano gli studi del Festival InDivenire

È giunto alla VI edizione il Festival InDivenire, il progetto di Alessandro Longobardi dedicato agli studi teatrali che si avviano a diventare spettacoli completi. Sedici in totale sono i lavori selezionati dalla direzione artistica di Giampiero Cicciò e andati in scena allo Spazio Diamante di Roma tra il 28 aprile e l’11 maggio 2025. La nostra redazione, all’interno di questa ampia proposta, ha scelto di dedicare l’attenzione a tre studi: Autogrill della compagnia Focus_2, Il tempo di una sigaretta di Limina e Delizia di Poveri Comuni Mortali.

Autogrill si apre in medias res con il racconto di una serata che già si preannuncia sfortunata, di un viaggio in automobile, dei capricci di una bimba e dei tentativi della mamma di calmarla. La scena appare abbastanza quotidiana, familiare per il pubblico, fino a che la protagonista, all’inizio interpretata da Eleonora Gusmano, non chiarisce di essere di ritorno da una trasferta di ultras del Toro a cui lei e suo marito hanno deciso di portare i loro figli.  

Si apre così uno squarcio su un mondo ai più sconosciuto, quello delle tifoserie estremiste osservate da un’inedita prospettiva femminile, spesso sottovalutata in questo mondo. Ma infiniti sono i metodi escogitati dagli esseri umani per sentirsi, in un’esistenza fatta di responsabilità e omologazione, diversi, vivi, appassionati fino alla follia e parte di un gruppo che condivide i propri slanci. I tifosi ultras come lei, spiega la donna, trovano la loro ragione di vita nello scontro fisico, tanto che la vittoria e la sconfitta della propria squadra passano in secondo piano. E in una società che considera la violenza come appannaggio dei soli uomini, le tifose non sembravo invece estranee a questo bisogno di contatto.  

Che il vero tema sia appunto il confronto tra i generi appare chiaro fin dai primi minuti dello spettacolo – ancor prima che si entri con l’immaginazione nell’autogrill che dà il titolo alla pièce e dove la vita della donna cambierà – dalla presenza di una seconda attrice sulla scena, Ania Rizzi Bogdan, che si alterna con Gusmano nei panni della protagonista. Le due interpreti prestano il volto anche alla migliore amica di questa, Valeria, capo delle donne ultras, riammessa allo stadio dopo anni di daspo. Il continuo, ritmato rimpallo di identità fra Gusmano e Rizzi Bogdan è forse l’elemento più riuscito nella scrittura di Nicolò Sordo, premiato come Miglior Autore di questa edizione del Festival InDivenire. La relazione simbiotica tra le due voci presenti nel testo originale, resa con grande precisione dalle due attrici, restituisce la forza lacerante del trauma subito dal personaggio principale all’interno della stazione di sosta, una brutale violenza sessuale ad opera di un tifoso della squadra avversaria.  

indivenire
© Stefania Valletta

Mentre lo scontro tra le due fazioni viene rappresentato, secondo l’interpretazione logica ultras, anche come una lotta di classe fra borghesia e proletariato, la ricerca di vendetta della protagonista si concretizzerà in una richiesta di aiuto che andrà al di là della legge e degli schieramenti calcistici, appellandosi direttamente alla solidarietà femminile della sua migliore amica

Il tema della guerra che negli ultimi tre anni ha riconquistato una posizione centrale nel dibattito pubblico non può restare fuori dalle sale dello Spazio Diamante neanche in occasione di questo festival. Lo studio Il tempo di una sigaretta, a cui va la Menzione Speciale della Giuria, non si propone, però, di raccontare tanto la crudeltà e la smania distruttrice del conflitto armato, non si sofferma sulla rappresentazione delle inaccettabili brutalità né indugia in quella pornografia del dolore che rischia di far sentire impotenti e di giustificare l’inazione di fronte al reale. I personaggi dello spettacolo – generali, soldati, vittime civili – vengono piuttosto presentati in quei brevi momenti di quotidianità tragicomica che la guerra ancora concede loro, alle prese con i loro dilemmi morali e gli esami di coscienza.   

Nei primi minuti di questo studio le spettatrici e gli spettatori sono introdotti in una base militare facente capo al personaggio di Alessandro Burzotta, che dalla sua scrivania guarda ormai alla guerra e al destino dei propri uomini con indifferenza, come spiega al suo sottoposto interpretato da Marcello Gravina. Incarica perciò un povero contabile imbelle e inadatto, il soldato Bonavita, da lui considerato alla stregua di carne da macello, di consegnare un messaggio misterioso a uno degli uomini di stanza in una città distrutta. Ivan Graziano, nei panni di Bonavita, scopre che tra le macerie del centro abitato la vita si ostina a rinnovarsi. Qui incontra infatti due amiche, impersonate da Francesca Piccolo e Noemi Apuzzo, ognuna delle quali sembra guidata dalla propria ostinata follia ottimista: la prima continua, infatti, a cercare riferimenti familiari e persone care nella città spopolata e distrutta, la seconda si rifiuta, nonostante le contrazioni, di mettere al mondo la propria bambina in tempo di guerra. 

indivenire
© Stefania Valletta

La messa in scena si regge sul contrasto tra il crudo realismo della guerra, che richiama in modo così puntuale la contemporaneità, e la totale alienazione dei personaggi. Il distacco dalla realtà della maggior parte di loro, pur essendo nella drammaturgia un effetto del conflitto stesso, ha però come riferimento scenico la tradizione del teatro dell’assurdo. La riflessione dello studio si concentrerà infatti sull’ironico e triste destino di Bonavita, l’ultima e inattesa vittima di una guerra che si avvia alla conclusione, ucciso dal fuoco amico mentre si accinge a consegnare il messaggio di pace. 

Il terzo spettacolo di cui si è deciso di parlare è invece Delizia, premio alla Miglior regia per Gemma Costa. Il titolo richiama il dipinto Il giardino delle delizie di Borsch, dove veniva rappresentato il paradiso terrestre, ma è anche il nome del pianeta scoperto dalla scienziata, interpretata da Carlotta Solidea Aronica, protagonista di questa storia. Insieme a lei anche il personaggio di Michele Breda, un vecchio compagno di scuola della donna, un ragazzo confuso e all’apparenza sperduto che si è offerto di affrontare il viaggio di migliaia di anni per raggiungere Delizia pur di dare forse una svolta alla sua esistenza. La scienziata verrà ibernata e partirà con lui alla volta del pianeta, la cui maggiore attrazione sembra essere un semplice albero

Che si tratti – anche – di una storia d’amore ce lo rivela lo stesso protagonista, che ancora prima della partenza chiede con sarcasmo alla sua scontrosa compagna di smettere da subito di battibeccare per arrivare a rivelarsi più in fretta la loro reciproca attrazione, come in film hollywoodiano. Ma è solo l’atmosfera sognante e rarefatta di Delizia, resa dalla qualità del movimento degli attori che simula l’assenza di gravità, a trasformare questa coppia improbabile una contemporanea, fantascientifica versione del mito di Adamo ed Eva.  

Non è tanto la scoperta del nuovo mondo il tema centrale dello spettacolo, scritto dai due stessi attori, quanto piuttosto il viaggio compiuto dai due protagonisti, e per estensione dall’umanità tutta, alla scoperta della propria natura e degli altri, quel percorso di autoconsapevolezza dell’umanità tutta così ben rappresentato anche nella Genesi. Questi novelli progenitori si interrogano a vicenda su cosa li abbia portati a partire, su quale sia la ragione ultima o la causa scatenante dei loro comportamenti e, grazie alle domande dell’altro, imparano a conoscere se stessi. Dopo aver compreso come muoversi insieme, come un unico corpo, sul suolo di questo nuovo pianeta, i due ragazzi scovano l’albero il cui unico frutto è un pulsante cuore umano. Lo spettatore li lascia così: lo studio si conclude con questo moderno Adamo che, invertendo i ruoli biblici, vorrebbe cogliere il frutto, mentre Eva tenta di farlo desistere. Il finale è sospeso, il pubblico dovrà aspettare di vedere lo spettacolo completo per conoscere il destino di Delizia e dell’umanità.

Se l’amore non invecchia: le vacanze dei signori Lagonìa

Se l’amore non invecchia: le vacanze dei signori Lagonìa

Un’anziana coppia calabrese ha deciso di trascorrere sulla spiaggia una giornata molto speciale. Sotto un ombrellone di paglia il silenzioso Ferdinando Lagonìa, interpretato da Giovanni Ludeno, e la ciarliera moglie Marisa, l’esilarante personaggio di Francesco Colella, vedono il mare lì dove si affollano le teste di spettatrici e spettatori dello Spazio Diamante e, con lo sguardo rivolto a quelle onde immaginarie, mettono in scena la comica agonia quotidiana di due vite sfortunate giunte quasi al termine

Nomen omen, o almeno così sembrerebbe, l’esistenza che emerge dai discorsi sotto l’ombrellone di Marisa e Ferdinando appare da subito piuttosto misera. La donna ha perso l’uso delle gambe per il peso eccessivo che non è mai riuscita a perdere, nonostante gli sforzi, e il marito è costretto ad accudirla obbedendo in silenzio a questa moglie all’apparenza tirannica, mentre nella sua testa fantastica sulle ragazze che posano nei giornaletti porno che tiene nel mobile a casa. La loro appare all’occhio esterno del pubblico proprio come una di quelle relazioni che si tiene in piedi per consuetudine, uno di quei legami indeboliti da cui l’amore è scomparso ormai da tempo. Quando il signor Lagonìa accenna a strangolare sua moglie, addirittura, si è portati a pensare che la drammaturgia di Francesco Lagi abbia preparato con ironia cinica la sala alla rappresentazione di un caso di violenza domestica o comunque che l’intento dello spettacolo sia la denuncia della tossicità di certi ambienti familiari. 

Ma lo spettacolo della compagnia teatrodilina non è niente di tutto questo. Fra un’imitazione di Gianni Morandi e qualche battuta che riemergono da un repertorio che la coppia condivide da cent’anni, fra le piccole gelosie del passato e i ricordi dolorosi che li uniscono, il ritratto psicologico dei personaggi diviene scena dopo scena meno macchiettistico, più umano, più reale nella sua assurdità. La ripetitività delle loro interazioni non è altro che abitudine alla cura reciproca, le urla nascondono il timore di guardare alla sofferenza estrema di chi si ama, la malinconia opprimente allude alla tragedia che i signori Lagonìa hanno programmato per quella sera, quando il sole calerà sul mare.

La tensione della sala raggiunge più volte il picco per poi distendersi qualche secondo dopo, ogni risata nasconde una tragedia e ogni tragedia una risata: è una montagna russa che non dà pace, che non lascia mai il tempo di riprendere fiato. La drammaturgia compone un quadro con le simpatiche sciocchezze della vita quotidiana in cui ciascuno per un motivo o per l’altro riconoscerà se stesso e la propria famiglia e, quando si ha l’impressione che la normale conclusione non possa essere che il nichilismo, l’inutilità del dolore che nessuno riesce a curare e che non ha riscatto nemmeno nella morte, è proprio allora che il vero significato dello spettacolo viene svelato: è il mistero dell’amore imperfetto che trova nei dubbi la sua forza e che permane, dell’affetto che restituisce luce e bellezza, cancellando ogni miseria anche quando tutto sembra perduto.

 Se lo spettatore ha avuto il coraggio di ascoltare, di entrare nella vita di questi due anziani innamorati, di ridere con loro e non solo di loro, si ritroverà travolto dalla speranza e dalla potenza dei sentimenti che forse considerava sopita nella prima adolescenza e che ora crede di poter tornare a vivere un giorno nella vecchiaia.

Il bambino dalle orecchie grandi. Insieme fuori dal mondo

Il bambino dalle orecchie grandi. Insieme fuori dal mondo

A Leonardo e Maddalena bastano pochi secondi per far calare nella sala dello Spazio Diamante un silenzio carico di disagio: Il bambino dalle orecchie grandi si apre con un vivido e dettagliato resoconto del brutale omicidio di una donna, fatta a pezzi e chiusa in uno zaino dall’uomo. L’incredibile coincidenza con i recenti fatti della cronaca nera di Roma lascia a bocca aperta e, sebbene non ci voglia molto prima che diventi chiaro che il protagonista sta solo riportando alla donna appena conosciuta quello che ha sognato quella notte, apre in un secondo un’imprevista chiave di lettura, di certo fuorviante rispetto all’evoluzione della pièce di Teatrodilina, ma che introduce con efficacia il pubblico alla sensazione di straniamento che segnerà lo spettacolo nella sua interezza.  

Ci troviamo all’interno della casa della ragazza, una scenografia minimale fatta di cubi che fungono da tavoli ricoperti da oggetti e sparsi nel salotto. I due attori indossano vestiti antiquati dai colori smorti come l’anima dei personaggi che, almeno all’apparenza, non si accende e non si lascia trasportare con facilità in slanci passionali. L’imbarazzo e la freddezza mostrati da Leonardo Maddalena e da Anna Bellato, che interpreta la controparte femminile nella coppia in procinto di formarsi, l’atmosfera appena riscaldata da timidi sorrisi, gli argomenti di conversazione inconsistenti e spesso fuori luogo rendono bene l’imbarazzo che contraddistingue i primi giorni o mesi di una relazione. Ma mano a mano che la conoscenza tra i due progredisce, l’impaccio e la mancanza di comunicazione tra questi bizzarri personaggi nevrotici e repressi sembrano solo aumentare.  

È a questo punto che nasce nella coppia il sospetto di essere finiti insieme per caso, di essere stati attratti quel giorno alla pensilina dell’autobus ognuno dalle orecchie troppo grandi dell’altra, unico elemento che li accomuna: quel dettaglio privo di significato potrebbe aver fatto prendere alle cose una piega diversa, imprevista, sbagliata. La riflessione su casualità e destino è uno dei pochi argomenti chiari, definiti ad emergere nel marasma di considerazioni e ostentazioni maniacali che aggiungono tensione nella coppia. La donna è infatti convinta di aver già incontrato quell’uomo misurato e forse un po’ noioso in una vita precedente

Quella che poteva apparire nelle prime scene la rappresentazione realistica, forse caricaturizzata appena per esigenze comiche, di una comune storia d’amore acquisisce ben presto, nella drammaturgia di Francesco Lagi, i tratti del teatro dell’assurdo. Non si tratta più solo di portare sul palcoscenico l’elemento ricorrente del racconto onirica – come il sogno raccontato dalla protagonista di cui è protagonista il bambino con le orecchie grandi che dà il nome allo spettacolo, con ogni probabilità il futuro, ipotetico figlio della coppia – ma di mostrare, ad esempio, i due innamorati che si alternano, di comune accordo, nel fingersi morti suicidi per capire quale effetto quella perdita avrebbe nel proprio animo, per sincerarsi della forza dell’amore, salvo poi realizzare che anche per loro è impossibile credere fino in fondo nella farsa di cui erano già a conoscenza. 

orecchie
© Loris Zambelli

Questa sensazione corrisponde alla contemporanea impossibilità di un’empatia reale da parte del pubblico nei confronti dei protagonisti e di quei loro problemi così lontani da ciò che potremmo vivere ogni giorno, come la fissazione dell’uomo per il cibo di colore viola o i suoi sforzi nel mettere insieme una compilation di rumori di oggetti che si rompono, sforzi a cui lei si oppone perchè vorrebbe invece vorrebbe sentire il suono “delle cose che si aggiustano”

È solo quando la tendenza della donna a non rimettere i tappi ai barattoli fa esplodere l’uomo in un attacco di rabbia incontrollato che lo porta a distruggere una stanza che la sensazione di insicurezza generata dalle prime batture torna con prepotenza sul palco e in sala. Il bambino dalle orecchie grandi si chiude senza un lieto fine per questo nuovo amore, ma con un nuovo inizio: la storia si riavvolge e ricomincia da capo, come in quel tanto millantato incontro in una vita passata in cui le cose si sono svolte allo stesso modo, solo a parti invertite.  

Nives, fantasmi del passato nella campagna toscana

Nives, fantasmi del passato nella campagna toscana

Dall’omonimo romanzo di Sacha Naspini arriva sul palco del Teatro Tor Bella Monaca un storia della provincia italiana, per la precisione toscana, popolata di personaggi singolari, assurdi e proprio per questo quantomai vivi. Sembra, alla fine della rappresentazione, di conoscere tutto il paesello in cui la vicenda si ambienta anche se sulla scena le presenze umane sono solo due: Sara Donzelli nei panni di Nives, rimasta vedova di recente nella piccola fattoria dove ha passato quasi tutta la vita, e Loriano, il veterinario della zona e vecchio amico della donna, interpretato da Sergio Sgrilli

La pièce si apre con il macabro racconto della morte di Anteo, il marito della protagonista, che è stato in parte divorato da uno dei suoi maiali dopo aver avuto un infarto nel cortile. La surreale vicenda è solo la prima di una serie di storie pazzesche, leggende e scandali della campagna toscana di cui lo spettatore verrà a conoscenza durante la telefonata di quelli che all’apparenza rimangono per tutta la prima parte della rappresentazione non più che due amici di vecchia data.  

Il pretesto che ha portato Nives a chiamare Loriano di sera, dopo cena, è una gallina zoppa, nuova inquilina della protagonista che ha preso il posto del defunto Anteo nella casa e sembrerebbe anche nel cuore della donna. L’animale è rimasto all’improvviso imbambolato davanti alla pubblicità di un detersivo in televisione e per questo Nives ha deciso di contattare d’urgenza il veterinario. Col passare delle ore e l’avanzare della notte la conversazione fra i due si fa però sempre più intima: iniziano a ricordare la loro prima giovinezza, riportano a galla i primi amori ma anche le gelosie, nonché quelle due strane morti che sconvolsero il paese quasi mezzo secolo prima.  

© Francesco Minucci

Pochi sono gli elementi scenografici che arredano le due simmetriche metà della scena, illuminate da luci di tono diverso a suggerire due ambienti e due atmosfere casalinghe distinte: il salotto di lei, caldo ma oscuro, immerso nella penombra del rimpianto, e quello di lui, esposto a una forte, implacabile luce fredda che prima della fine della serata svelerà come in un interrogatorio ogni suo segreto. Il tavolo ai cui estremi siedono i due attori collega e separa due personaggi che si conoscono da troppo tempo. In una conversazione privata che allo spettatore sembra di origliare dalle cuffie che gli sono state date prima dell’inizio dello spettacolo, i due vecchi amici rivelano di essersi ritrovati, giorno dopo giorno, intrappolati nella vita che non desideravano, lontani anni luce dai loro sogni e desideri. Nives sospetta che a maledirli sia stato lo spettro geloso di una ragazza innamorata, caduta anni prima da un campanile.  

Eppure, non sono nemmeno i fantasmi arrivati dal passato a tormentare i vivi e la loro deprimente vecchiaia i veri motivi per cui Nives ha telefonato a Loriano. Nelle cuffie degli spettatori le voci degli attori sussurrano la storia di un antico amore tra i due protagonisti, una grande passione tradita dalla codardia di un uomo che non ha avuto il coraggio, al momento giusto, di scegliere e che ora cerca conforto nell’alcol.  Ma ora, mentre il veterinario vorrebbe continuare a vivere nella bugia, la vita tutto sommato accettabile che ha costruito con la moglie Donatella, Nives non accetta più di seppellire nel tempo la sua verità.

Il pubblico può ritrovare il piacere di perdersi in una storia avvincente in grado di riabilitare la familiarità del quotidiano, una vicenda che ha dell’incredibile ma che proprio per questo potrebbe avvenire, e di cui di sicuro ognuno desidera conoscere il finale. 

Totale, cosa rimane di una coppia. Intervista a Pier Lorenzo Pisano

Totale, cosa rimane di una coppia. Intervista a Pier Lorenzo Pisano

Tirare le somme di una relazione, di una storia d’amore che dura da diversi anni, è forse un’impresa impossibile. Come impossibile e forse non auspicabile è evitare la trappola, resistere alla tentazione di cercare una spiegazione unica ed esaustiva, quelle formule alchemiche che legano e separano due anime. Questo sembra l’obiettivo dei due protagonisti di Totale, interpretati da Gioia Salvatori e Andrea Cosentino, andato in scena al TeatroBasilica di Roma.
Il pubblico in sala fa presto ad affezionarsi ai due poli, ai due termini di questa coppia che, mentre strappa qualche risata, dimostra tutto il sentimento, l’impegno e la pazienza messi in una relazione che alla fine ha visto sfasciarsi. Ne abbiamo parlato con l’autore del testo e regista Pier Lorenzo Pisano.

Perché hai deciso di scrivere e di mettere scena uno spettacolo che parla di amore, di relazione di coppia? Da cosa è nata l’idea?

L’idea dello spettacolo è nata da un’installazione che ho creato tempo fa: uno scontrino lungo metri che riporta tutti gli acquisti fatti da una coppia. Per ogni acquisto c’è una breve storia e, alla fine dell’elenco e della relazione, c’è un totale. Cranpi, i produttori, l’hanno visto e mi hanno chiesto di sviluppare uno spettacolo a partire da quell’idea. Totale è nato da quell’oggetto, che poi ho rielaborato per raccontare un’altra storia, quella della personaggi interpretati da Andrea Cosentino e Gioia Salvatori. L’originale parlava di una coppia più giovane, quindi le voci degli acquisti erano diverse, così come i temi che sollevavano. Invece lo spettacolo è stato scritto su di loro e per forza di cose il tipo di relazione che affronta è differente. Credo comunque che il cuore molto emotivo del testo sia rimasto.  

Quindi quando hai scritto il testo sapevi già che sarebbero stati Gioia Salvatori e Andrea Cosentino ad interpretarlo? 

Sì, li conoscevo e apprezzavo già come attori. Dopo aver proposto loro di partecipare allo spettacolo ci siamo chiusi in sala prove per qualche giorno. Ho cominciato a scrivere e ho fatto loro leggere alcune bozze. Poi ho buttato giù il copione da solo e ci siamo rivisti mesi dopo, quando il testo era già pronto. Comunque Totale è scritto su misura per loro, tenendo a mente il loro modo di parlare e di fare. Per questo dico che lo scontrino era solo il nucleo, il resto del testo l’ho sviluppato pensando a come loro avrebbero messo in scena la storia. Il modo in cui funziona lo spettacolo in un certo senso li prepara all’interpretazione, perchè inizia con Gioia Salvatori e Andrea Cosentino che si costruiscono i personaggi. Loro inventano le loro storie e ne discutono. A ogni replica fanno un percorso: creano la storia e si innamorano, formano e rompono la coppia ogni sera.

Lo spettacolo, infatti, mostra soprattutto all’inizio una componente metateatrale molto forte, delle lunghe scene in cui i due attori giocano a inventare da zero i due personaggi che si sono appena incontrati. Più si va avanti nella rappresentazione, però, più questo aspetto si perde. Perchè? 

I due interpreti sono due autori-attori e mi sembrava interessante metterli nella posizione di creare la storia. Sono dei panni che sono abituati a vestire e mi interessava mostrare una sorta di processo creativo in diretta, per quanto prestabilito dal copione. Ma, una volta gettate le fondamenta dei protagonisti e della relazione, loro la vivono e basta; la storia d’amore prosegue per conto proprio, di scena in scena. Anzi, continua anche fuori dai confini della scena, come se ormai i personaggi appartenessero alla realtà, come se fossero indipendenti. Quando tirano le somme alla fine, fanno riferimento anche a momenti che noi non abbiamo visto

Però questa tendenza torna un po’ sul finale, loro riflettono su quello che è stato. E a proposito di questo, sembra quasi che il personaggio di Andrea Cosentino lasci aperto uno spiraglio alla loro storia d’amore. Il finale è aperto? 

No, il finale è chiuso: è già stato scritto. Esiste già un totale, lo scontrino è già stampato dalla prima scena, è solo in attesa di essere srotolato. Così come gli elementi di scena: c’è già tutto, è solo nascosto dietro le tende. E anche i costumi, sono già lì, coperti da una tuta neutra. Loro scoprono in scena, con sincerità ed emozione, una storia che è già tracciata. Nell’inizio c’è già la fine, viene detto. C’è qualche tentativo di cambiare il finale da parte di lui, ma restano tentativi. Forse però c’è una speranza, anche se irrealistica: che un giorno l’universo possa ricominciare da capo, riavvolgersi su sé stesso, e che loro possano rivivere tutto quello che è stato. C’è qualcuno che spera davvero che questo possa succedere nelle storie che vive, ma per loro avviene a ogni replica.

Nello spettacolo si fa spesso riferimento alla storia del mondo e dell’Universo, a un’era “trilobitica” in cui tutto era fermo e gli esseri viventi si amavano senza consapevolezza. Qual è il significato di questa immagine? 

Volevo che il rapporto tra i due personaggi non si basasse su un classico conflitto tipico delle storie d’amore. I protagonisti rappresentano due tendenze quasi più cosmiche che umane: da una parte la tendenza a restare, alla stasi assoluta, a voler tenere tutto fermo affinché le cose non finiscano mai e per tenere lontana la morte e dall’altro lato invece la tendenza all’evoluzione, all’espansione dell’Universo, al conflitto inteso come sviluppo della storia. Per me era più interessante mettere una coppia su questi due binari opposti piuttosto che farli confrontare su un piano emotivo e sentimentale.

La scenografia di Totale, curata da Rosita Vallefuoco, è molto espressiva, gli oggetti di scena sono in prevalenza in bianco e nero e vogliono sembrare bidimensionali, piatti. Qual è la ragione di questa scelta? 

Anche la scenografia è un richiamo al processo della scrittura. Loro stanno scrivendo la loro storia, quindi è come se inventassero e disegnassero anche scene e costumi. All’inizio sono solo due figure che emergono da uno sfondo nero, non c’è nulla. Poi tutto comincia a comparire quando lo nominano, con un rapporto con la parola quasi magico. La parola è creatrice, rende le cose vere a tal punto che i personaggi e gli attori ci restano dentro. E il bianco e nero sono anche un richiamo alla musica, agli spartiti, ai tasti dei pianoforti. La componente musicale, sviluppata insieme a Francesco Leineri, è molto importante, e li porterà poi a scrivere insieme la loro canzone.