Robert Whitman è un artista visivo nato a New York nel 1935. Dopo la laurea in Letteratura e Teatro all’Università del New Jersey, inizia a studiare Arti visive alla Columbia University. Farà parte della scena avanguardista teatrale newyorkese di fine anni ‘50 e inizio anni ‘60, organizzando insieme ai colleghi artisti Jim Dine, Red Grooms, Allan Kaprow e Claes Oldenburg una serie di happening alla Reuben Gallery, che ridefinirono la relazione tra spazio, performer e spettatore. Il suo interesse verso le nuove tecnologie in relazione alle immagini in movimento lo conduce a diventare una delle figure chiave dell’Expanded Cinema, un movimento che tenta di sorpassare i limiti del cinema tradizionale tramite proiezioni multiple e esperimenti sensoriali. Dal 1964 realizza installazioni che collegano oggetti di uso quotidiano con proiezioni di film: vediamo ad esempio un box doccia all’interno del quale viene proiettata l’immagine di una donna che si lava dietro una tenda trasparente (SHOWER, 1964).
In questi lavori, l’inconsistenza delle proiezioni unita alla materialità dell’ambiente e degli oggetti crea una forma ibrida che rende difficile determinare cosa sia reale e cosa sia effimero. Nel 1966, con gli ingegneri Fred Waldhauer e Billy Klüver, e l’artista Robert Rauschenberg, Whitman ha co-fondato l’organizzazione Experiments in Arts and Technology (E.A.T.). Partecipa così, insieme a John Cage, Öyvind Fahlström e Lucinda Childs, alle 9 Evenings: Theatre & Engineering , una serie di dieci spettacoli messi in scena quello stesso anno presso il 69th Regiment Armory di New York, uno spazio espositivo per mostre e intrattenimento. I suoi lavori sono ricchi di immagini e atmosfere sonore, facendo dialogare performer, film, video, suono e oggetti di scena in ambienti di sua creazione. Dagli anni ‘60 ad oggi ha presentato più di 40 lavori tra Stati Uniti ed estero. Negli ultimi anni, ha continuato a collaborare con ingegneri e scienziati per installazioni e opere che incorporassero le nuove tecnologie, tra cui laser e vetri ottici, per poi specializzarsi nell’uso performativo dei mezzi di comunicazione, come i telefoni cellulari.
L’opera
Prune. Flat. (traducibile con “Potare. Piatto.” ndr), presentato per la prima volta alla cineteca di New York nel 1965, è una performance silenziosa che integra azioni, oggetti e immagini. La scena è composta da una parete bianca, due sedie poste una di fronte all’altra e due corde che scendono dall’alto. Il tema chiave di Prune. Flat. è la discrepanza tra immagine proiettata e presenza scenica, e differisce dai lavori di altri artisti visivi per la puntuale precisione e per la peculiare estetica. Tre performer si muovono tra azione in tempo reale e filmata, appiattendosi contro l’immagine e generando nuove immagini di forma ibrida.
Prune. Flat. Robert Whitman
PARTE 1: IL TAGLIO DELLA FRUTTA
La performance si apre con il filmato di un proiettore in azione. Si passa poi all’immagine ravvicinata di un pompelmo, tagliato da un coltello. Dal suo interno, rotolano via quelle che sembrano sferette di metallo. Segue un pomodoro, che due mani stanno per affettare. Due giovani performer, che indossano un grembiule bianco e un fazzoletto in testa, entrano dalla sinistra e dalla destra della scena, scivolano sulla parete dando le spalle al pubblico, diventano esse stesse schermo mescolandosi nelle proiezioni di luce. Raggiunto il centro, proprio nel momento del taglio del frutto, sono investite da una pioggia di glitter dalle sfumature violacee, che erano contenuti all’interno del pomodoro. Altre immagini di tagli si susseguono sulle due figure umane, ora con l’intervento di una nuova esperienza sensoriale: dal video ci accorgiamo di un ventilatore che fa volare via tutto ciò che esce dai frutti. Le performer, abbattendo ogni logicità spaziale, sembrano reagire al vento come se questo fosse reale, davvero percepibile.
PARTE 2: IL DOPPIO VIRTUALE
Le performer siedono ora sulle sedie, mentre alle loro spalle è proiettato un ambiente che sembra boschivo. Una terza performer entra in scena, accogliendo su di sé la proiezione di un filmato che la ritrae. In un gioco di sovrapposizione, vediamo il colore del suo vestito cambiare, mentre interagisce con il suo doppio virtuale. Le due figure sembrano adesso inseguirsi, farsi lo sgambetto per sfuggire l’una dall’altra, in una serie di azioni quali sedersi, o spogliarsi e fare una doccia. La scena sullo sfondo si anima di paesaggi che esplorano il macroscopico (un paesaggio urbano frenetico) e il microscopio (la ripresa di tessuti e mucose del corpo umano, un prato e i suoi fili d’erba) ma anche il surreale (il volo di una donna).
PARTE 3: IL RIFLESSO DELLA LUCE
Protagonista della parte finale della performance è la luce, o la sua assenza. Una performer in scena, utilizzando le corde appese al soffitto, inizia a dondolarsi. Al buio della sala, risaltano solo i vestiti bianchi che brillano sotto la luce blu, dando l’impressione di sfidare le leggi della gravità. La performance continua e trova la sua conclusione nell’esplorazione di azioni sceniche tra performer e spazio circostante, mentre sullo sfondo passano i filmati delle stesse sequenze di azioni, ora imitando la scena, ora anticipandone l’andamento.Con Prune. Flat., l’artista suggerisce la duplice idea di realtà e rappresentazione della stessa, nutrendo l’occhio dello spettatore su più livelli. Ne risulta un tempo immediato, dilatato dall’immagine proiettata, e uno spazio virtuale, reso tangibile da corpi in carne ed ossa.
La ripresa è del 2017 durata: 24 minuti performer: Clarisse Chanel, Paula Pi, Malika Djardi pubblico: frontale spazio: parete bianca con oggetti di scena suono: muto supporto filmati: pellicola 16mm a colori
Nasce in provincia di Siracusa nel 2000 e affianca la maturità classica allo studio in ambito performativo frequentando l’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa e la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano, dove ad oggi frequenta il corso Danzatore e persegue uno studio personale circa la storia della performance digitale e le sue future declinazioni. Il suo primo studio coreografico Else_or the january blues debutta a giugno 2021 in occasione del Festival Dominio Pubblico – La città agli Under 25 negli ambienti di Spazio Rossellini a Roma.
Eric Minh Cuong Castaing è un coreografo e artista visivo nato nel 1979 a Seine-Saint-Denis, nel nord-est parigino. Dopo un diploma alla Gobelins – L’ Ecole de l’image di Parigi, inizia la sua carriera come graphic designer nel cinema d’animazione. L’interesse maturato in quegli anni verso la real-time coreography lo porterà presto ad avvicinarsi prima all’hip-hop, poi al butoh, sotto la guida dei maestri Carlotta Ikeda e Gyohei Zaitsu, e infine alla danza contemporanea con il coreografo e artista plastico tedesco VA Wölfl. Nel 2007 fonda la compagnia SHONEN (l’influenza dello studio di un’arte giapponese si ripercuote nel nome del collettivo, che si traduce in “ragazzino”) e dedica la sua ricerca alla creazione di dispositivi capaci di connettere la danza, le arti visive e le nuove tecnologie. Le sue opere, che spaziano dalle performance alle installazioni e ai film sono da egli stesso definite “in situ / in socius”.
La specificità di un prodotto site-specific incontra sempre, nel lavoro di SHONEN, una partership con istituzioni pubbliche, scuole, ospedali, istituti di ricerca o ONG al fine di instaurare rapporti duraturi e concreti e di creare un beneficio alle realtà sociali. Il suo studio esplora modalità di rappresentazione e percezione del corpo nell’era delle nuove tecnologie, in particolare nei rapporti di interdipendenza o compresenza (ad esempio, mediante l’allestimento di un video streaming live tra ballerini sul palco e ballerini palestinesi a Gaza nella performance Phoenix del 2018). Gli artisti che performano per SHONEN sono caratterizzati da una specificità e diversità di stili e tecniche, ma non mancano contaminazioni di corpi fuori standard, disabili, amatoriali, o non umani (spaziando dai droni a robot umanoidi).
L’opera
Il coreografo racconta in un’intervista per la rivista «Danser – Canal Historique»: “Ho creato L’Âge d’or nel giugno 2018 al Palais de Tokyo. È un dittico composto da un film e una performance, un incontro tra ballerini e bambini con disabilità dovute a disturbi motori. Tre anni fa, il Festival di Marsiglia mi ha offerto di condurre un workshop presso il centro Saint-Thys di Marsiglia. Non avevo mai lavorato sul tema della disabilità prima. Il primo giorno, il contatto con loro è stato difficile. Il secondo giorno, abbiamo iniziato i workshop con la contact dance, ed è stato fantastico. I bambini sorridevano al minimo tocco. Erano brillanti e i loro gesti disinibiti.”
Nato come un film ma diventata presto una performance, L’Age d’or è la perfetta sintesi della ricerca di SHONEN sulla relazione tra corpo e tecnologia. Partendo da un’interazione fatta di piccoli gesti, l’idea stessa di disabilità perde il suo significato. Il titolo fa riferimento alla mitologia classica, e l’auspicio è quello di tornare a vivere un’età dell’oro in cui le differenze siano la norma. L’Age d’or offre un’utopia: una danza comune che va oltre la condizione di disabilità. Colette Limouzm, direttrice del centro Saint- Thys, testimonia quale cambiamento abbiano percepito i terapeuti nei bambini, che mostravano più relax e controllo: “La maggior parte di loro soffre di distonia, movimenti involontari che sono difficili da gestire per i terapeuti. Sono diminuiti o sono scomparsi del tutto con la danza”. Utilizzando suggestioni sensoriali prese in prestito dal Butoh, Castaing chiede ai bambini confinati in sedia a rotelle di diventare vento o nuvole, mentre i danzatori guidano e estendono i loro movimenti involontari. La concentrazione, le risate, le urla di gioia sono state registrate durante i mesi di workshop e riportate nella performance. Il clima di comodità e familiarità è esteso anche al pubblico, che dopo lo spettacolo dal vivo diventa testimone del processo, catturato nel docu-film.
La performance
L’esperienza inizia in una scena vuota e senza quinte, nessuna musica in sottofondo, solo la voce dei bambini in sedia a rotelle che aspettano ai margini dello spazio. I danzatori vagano lentamente tra di loro, sussurrando nelle loro orecchie. La performance inizia discretamente: un ballerino porta un bambino al centro. Prolunga i suoi gesti, a volte li infastidisce, li manipola per farlo danzare. Presto tutti i bambini si uniranno alla scena, ognuno accompagnato da uno o più danzatori, montando un solo sviluppato appositamente per ognuno di loro in un esercizio di scoperta e riscoperta di gesti danzanti. Dalle parole del coreografo: “Al pubblico è trasmessa la dimensione della relazione sociale, la relazione con il tatto e il modo di guardare i corpi a lui sconosciuti. Ciò richiede la creazione di uno spazio di fiducia in cui lo spettatore possa rilassarsi. Quindi vi presentiamo l’Age d’or in uno spazio ordinato, con tappeti posati sul pavimento, che riuniscono il pubblico attorno agli artisti. Per ogni bambino creiamo danze sia specifiche che relazionali che lo stimolino. Ride e questo fa reagire gli altri bambini e i ballerini. Tutta la drammaturgia è scritta intorno a questi ritratti.”
Il cortometraggio
La seconda parte è dedicata a un film documentario che mostra le diverse sessioni di prove che hanno portato alla performance, ripercorrendo i mesi di workshop. Il film si muove tra il genere del documentario e della fiction, cercando di esaltare l’estetica dei corpi in movimento e il loro “stato di grazia”. Il fulcro del lavoro è sicuramente l’interazione tra danza, corpi non convenzionali e tecnologia. In particolare, L’Age d’or si serve della realtà virtuale e della motion capture per restituire in video una sensibilità e intimità che andrebbero altrimente perse.
La VR
Utilizzando dispositivi di realtà virtuale è stato possibile svincolarsi dalle problematiche legate a determinate specificità motorie dei giovani pazienti dell’Istituto Saint-Thys. A una ballerina è fissata una telecamera sulla fronte, tramite degli occhiali di supporto. I bambini vedono in tempo reale il suo punto di vista tramite i loro visori. Altri danzatori, nel frattempo, li muovono in base ai movimenti della danzatrice. Ad esempio, quando si mette la mano davanti al viso, il bambino vede l’immagine di quella mano. Allo stesso tempo, al braccio del bambino sarà fatto eseguire lo stesso movimento. Castaing mette in atto una stimolazione visiva e cognitiva che trasferisce i bambini in corpi mobili, danzanti.
La Motion Capture
Una parte del corto è dedicata all’animazione 3D partendo dalla danza dei performer con i bambini. Tramite l’uso di un dispositivo Kinect 2 (device Microsoft in grado di raccogliere dati percependo i cambiamenti di posizione) collegato a una cinepresa, i movimenti coreografici, così come il colore degli indumenti e la profondità dello spazio, erano registrati e pronti a essere renderizzati: al filmato originale, ovvero, è applicato un livello di animazione 3D. Il risultato è stupefacente, riuscendo infatti a trasmette una sensibilità chiara e concreta tramite video, e restituendo l’essenza e le caratteristiche peculiari di tutti i componenti del gruppo danzante. Al tempo stesso, ciò che si percepisce è anche un unico respiro, una massa densa e coerente formata da tante unità in comunicazione tra loro.
Durata: spettacolo di danza (30 minuti) seguito da un film (22 minuti) Performer: Eric Minh Cuong Castaing, Aloun Marchal, Silvia Costa, i bambini del centro Saint-Thys, i danzatori del National Ballet of Marseilles Pubblico: attorno a tutta la scena Spazio: scena vuota con tappeto danza Suono: musiche originali di Alexandre Bouvier Direzione fotografica: Marc Da Cunha Lopes
Nasce in provincia di Siracusa nel 2000 e affianca la maturità classica allo studio in ambito performativo frequentando l’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa e la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano, dove ad oggi frequenta il corso Danzatore e persegue uno studio personale circa la storia della performance digitale e le sue future declinazioni. Il suo primo studio coreografico Else_or the january blues debutta a giugno 2021 in occasione del Festival Dominio Pubblico – La città agli Under 25 negli ambienti di Spazio Rossellini a Roma.
Yvonne Rainer e Richard Serra nascono a distanza di cinque anni nella città di San Francisco, rispettivamente nel 1934 e 1939. Si tratta di una danzatrice e coreografa del movimento avanguardista postmoderno americano e di uno scultore minimalista.
Yvonne Rainer si trasferisce a New York nel 1957 per studiare teatro, trovandosi presto più fortemente attratta dalla danza contemporanea che dalla recitazione. La sua formazione inizia alla Martha Graham School e continua con Merce Cunningham. Rainer è stata una dei membri più attivi del Judson Dance Theatre, un punto focale per l’attività d’avanguardia americana nel mondo della danza negli anni ’60. Il suo noto approccio alla disciplina prevede di trattare il corpo più come fonte di un’infinita varietà di movimenti che come portatore di emozioni o drammi. Molti degli elementi che l’artista ha impiegato nei primi anni ’70, come ripetizione, schemi, compiti e giochi sono diventati caratteristiche standard della danza contemporanea. La sua performance più nota, Trio A (1966), consisteva in un’esibizione simultanea di tre ballerini che includeva una difficile serie di movimenti circolari e a spirale.
Richard Serra è noto soprattutto per le sue sculture astratte in acciaio di grandi dimensioni, la cui presenza costringe gli spettatori a confrontarsi con le qualità fisiche delle opere e dei loro siti peculiari. Come altri minimalisti della sua generazione, Serra si allontana dall’arte come metafora o simbolo, proponendo invece l’idea della scultura come esperienza fenomenologica di peso, gravità, spazio, processo e tempo. Cresce a stretto contatto con i processi di lavorazione dei metalli, vista la professione del padre come installatore di tubi nell’industria della costruzione navale. Lo stesso Serra si dedicherà al lavoro nelle acciaierie durante gli anni del college. Una delle sue opere più popolari,Tilted Arc (1981), commissionata per la Federal Plaza di New York, ha suscitato accese discussioni circa il suo scopo artistico e il suo effetto sullo spazio pubblico. La struttura, che misurava 36 metri di lunghezza e quasi 4 metri di altezza, era posizionata in modo tale da impedire il movimento attraverso la piazza, costringendo così le persone a interagire con la scultura camminando intorno ad essa per arrivare dall’altra parte. Nel 2000, Serra vince il Leone d’Oro per l’arte contemporanea alla Biennale di Venezia.
La vicinanza temporale e geografica tra i due artisti, che iniziano a sperimentare nei primi anni ‘60 a New York, li porta a produrre due opere tra loro davvero similari. Entrambi gli artisti sperimentano il medium della pellicola tramite performance che coinvolgono le loro mani. Si parla di Hand Movie (1966) della Rainer eHand Catching Lead (1968) di Serra.
L’opera
Soggetto e periodo non sono le uniche due affinità delle performance video. Entrambe le opere esibiscono un approccio ibridato ai rispettivi media artistici, danza e scultura, ed entrambi i film possono essere classificati nella categoria minimalista e post-modernista. La premessa concettuale è simile: una mano impegnata in un’attività, catturata all’interno del film. Ciò è particolarmente importante considerando il fatto che entrambi i film sono il prodotto di un artista che proviene da una disciplina nettamente diversa. L’approccio trasgressivo di Rainer e Serra alle regole e alle convenzioni dei loro rispettivi media artistici non era insolito per gli artisti post-minimalisti, il cui lavoro si è spesso basato sulla sovrapposizione tra oggetto e arti performative. E per comprendere del tutto i motivi che hanno spinto due artisti così diversi a ritrovarsi d’accordo per estetica e multimedialità, è bene indagare i retroscena di ogni film.
HAND MOVIE
Yvonne Rainer gira il film aiutata dal collega artista del JDT William Davis confinata in un letto d’ospedale, in convalescenza dopo un intervento chirurgico.
È il primo dei suoi film, che l’artista considera più come esperimenti che opere d’arte finite. Guardando la performance è possibile tracciare un andamento coreografico parabolico: i movimenti in Hand Movie iniziano in modo neutro e aumentano progressivamente di complessità, prima di tornare di nuovo in una posizione piatta di “inizio”. Rainer mostra deliberatamente la mano da tutti i lati, suggerendo una prospettiva scultorea e tridimensionale. Un singolo dito è spesso isolato dal resto della mano, il medio indugia in una sorta di solo, mentre a volte il movimento è appena percettibile, un leggero allargamento del palmo e delle dita, una lenta arricciatura. L’articolazione delle dita della Rainer le fa apparire come unità autonome, permettendole di esplorare movimenti non quotidiani della mano e del polso. Una delle idee chiave associate al lavoro è la nozione di materialità del corpo, inteso come materiale con cui lavorare, proprio come se fosse compensato o acciaio. Nelle sue stesse parole, Rainer indaga “come usare il performer come mezzo piuttosto che persona”.
Durata: 7 minuti performer: Yvonne Rainer cameraman: William Davis suono: muto supporto: pellicola 8mm in bianco e nero
HAND CATCHING LEAD
Mentre Hand Movie si svolge lungo un continuum temporale di perpetuo movimento, Hand Catching Lead di Serra è un esercizio di riflesso, ripetizione e ritmo, un esperimento basato sul tentativo di afferrare pezzi di piombo che cadono. Il movimento rimane lo stesso dall’inizio alla fine, ma la possibilità del fallimento fornisce un aspetto indeterminato a un’attività altrimenti prevedibile. Due movimenti strutturano il film. Il primo è l’azione di presa della mano di Serra, il secondo è il pezzo di piombo stesso. I movimenti di tensione e rilascio dei tendini nel polso di Serra rendono visibile, ad un livello intimo, il processo minuto del lavoro manuale del corpo dell’artista.
Entrambe le sperimentazioni possono essere considerate come forme ibride in cui gli artisti hanno combinato i rispettivi media originari con il nuovo mezzo cinematografico. Per capire cosa stia ricercando Rainer, con la sua mano come sineddoche della danza, e cosa stia facendo Serra all’interno dell’avanguardia delle arti plastiche, è necessario aver seguito lo sviluppo storico delle due discipline. Per Rainer il focus sta nella materialità del corpo e dei suoi movimenti funzionali e autonomi che resistono al fraseggio e alla drammatizzazione. Per Serra il rapporto della mano con il piombo è un’incarnazione performativa e processuale della relazione dell’artista con i suoi materiali. Avviene così un inedito e inconsapevole scambio tra i due artisti, che hanno successivamente ammesso di essersi influenzati a vicenda. Rainer ruba dalle arti plastiche la tridimensionalità e la matericità del medium fisico, mentre Serra prende in prestito il movimento puro per interagire con i suoi strumenti.
Durata: 3 minuti performer: Richard Serra suono: muto supporto: pellicola 16mm in bianco e nero
Nasce in provincia di Siracusa nel 2000 e affianca la maturità classica allo studio in ambito performativo frequentando l’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa e la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano, dove ad oggi frequenta il corso Danzatore e persegue uno studio personale circa la storia della performance digitale e le sue future declinazioni. Il suo primo studio coreografico Else_or the january blues debutta a giugno 2021 in occasione del Festival Dominio Pubblico – La città agli Under 25 negli ambienti di Spazio Rossellini a Roma.
Impronte di una danza – Storia d’amore fra teatrodanza e abilità differentiè un testo edito da Cuepress nel 2021, curato dalla coreografa Julie Ann Anzilotti, fondatrice e direttrice della Compagnia XE. Il testo continua l’opera di testimonianza iniziata da In mezzo alle Margherite – storia di un incontro fra teatrodanza e abilità differenti(Ed. NoiAutori 2013) del progetto PERSONAE, che dal 2000 vede la compagnia impegnata in un lavoro laboratoriale dedicato a giovani e adulti con disabilità psico-fisiche.
Quello che inizia come progetto di integrazione e socializzazione che coinvolge il Comune di San Casciano Val di Pesa, dove la compagnia risiede, e le zone limitrofe, finisce per diventare uno dei punti chiave della ricerca portata avanti da XE. Nel libro è possibile trovare riflessioni dei performer che hanno preso parte al progetto e le testimonianze dirette delle loro famiglie, oltre che una teatrografia degli spettacoli messi in scena dal 2004 al 2019, corredata da foto e approfondimenti. Una parte del saggio è riservata a un focus relativo alla rassegna di teatrodanzaSe Io Fossi Te, nata nel 2010 in risposta all’esigenza di confronto e dialogo con realtà nazionali e internazionali che lavorassero per integrare linguaggi artisti e abilità differenti. Tra coloro che hanno preso parte all’iniziativa vi è Adam Benjamin, coreografo e insegnante fondatore della Candoco Dance Company, realtà inglese composta da performer disabili e non.
Abbiamo intervistato Julie Ann Anzilotti, curatrice del libro e coreografa della Compagnia Xe, per gettare uno sguardo più intimo sulla storia del progetto PERSONAE dal punto di vista di chi l’ha visto nascere.
Personae è un progetto che unisce pratica artistica e integrazione di adulti diversamente abili dal 2000. Ti andrebbe di raccontarci la nascita del fortunato connubio e se sia possibile definire XE pioniere di questa sperimentazione in Italia?
Il progetto nasce 21 anni fa quando il Comune di San Casciano Val di Pesa chiede alle tre compagnie residenti, ovvero la nostra Compagnia XE, Arca Azzurra di Ugo Chiti e Katzenmacher di Alfonso Santagata, di fare un laboratorio per i giovani diversamenti abili della zona. Noi eravamo l’unica compagnia che si occupava di danza. Inizia il laboratorio, una compagnia di teatro terminerà lì l’esperienza perché la parola non si stava dimostrando lo strumento adatto. La seconda compagnia produce un video del laboratorio, mentre noi continuiamo perché troviamo nella danza e nel gesto la giusta possibilità di comunicazione. Negli anni di laboratorio successivi, all’assistente sociale e all’educatrice si affiancheranno anche due danzatrici della compagnia diventate danzaterapeute.
E dopo 4 anni, la prima apertura al pubblico, seppur si trattasse di un pubblico “protetto” formato da amici e parenti, con lo spettacolo NOI PINOCCHI. Di lì in avanti abbiamo prodotto uno spettacolo ogni due/tre anni, e abbiamo cominciato anche a girare. I primi festival erano incentrati in modo specifico al lavoro con la disabilità, ma poi siamo arrivati anche ad essere inseriti in stagioni di danza considerate “normali” e non del settore, riscontrando anche un grosso successo di pubblico. L’incontro tra Teatrodanza e abilità differenti è diventato per noi una storia d’amore. Mentre in ambito teatrale c’erano già altre esperienze che si occupavano di integrazione di ragazzi diversamente abili, come ad esempio Enzo Toma e Antonio Viganò, nell’ambito della danza penso che XE sia stata la prima in Italia a lavorare in questo senso. La Candoco in Inghilterra faceva un lavoro simile, ma occupandosi solo di disabilità fisica, mentre con noi hanno lavorato persone con disabilità fisiche e mentali, anche molto gravi.
Nel testo racconti come, una volta iniziato il percorso, ti sei resa conto che le cose che nascevano potevano essere condivise sotto forma di spettacolo fruibile da un pubblico, da dove viene questa necessità?
La necessità nasce dal fatto che per me qualsiasi esperienza è sempre un lavoro equiparabile a quello con la compagnia. Era comunque un laboratorio, ma presto sono diventate prove. Trovo che andare in scena sia fondamentale per la crescita non solo artistica ma anche personale. Questi ragazzi venivano sempre tenuti un po’ nascosti, emarginati. Mentre dopo aver visto quanto fossero forti e simpatici su un palcoscenico, la gente li fermava per strada non più per compassione quanto per congratularsi di quanto fossero stati bravi. Andare in scena regala la gioia della trasformazione e dell’esposizione, dell’essere apprezzato.
Amore e Tempo sembrano essere un fil rouge di tutti i tuoi lavori, come li hai declinati in occasione di PERSONAE e che significato hanno per te?
È vero, amore e tempo sono i temi su cui lavoro sempre, quindi era naturale affrontarli anche in questo contesto, declinandoli in vari modi. Mentre riguardo all’amore avevo meno dubbi circa l’accoglienza che il gruppo avrebbe riservato all’argomento, sul tempo temevo avrei avuto più difficoltà perché più astratto. Sorprendentemente, invece, è stato ben compreso e approfondito, nessun limite a riguardo.
Se io fossi te, quando è nata l’esigenza di allargare il lavoro ad altre compagnie e quali sono stati i risultati?
La rassegna Se io fossi te è nata dalla nostra esigenza di scambiare esperienze… se non vedi cosa fanno gli altri non cresci mai. La prima edizione risale al 2010, 10 anni dopo l’inizio dei laboratori. Eravamo maturi abbastanza per diventare una sorta di capofila nel settore. Non è stato un lavoro facile.
Nel libro si può leggere un bellissimo contributo di Adam Benjamin in occasione dell’ultima edizione della rassegna, che parla di un rapporto di reciprocità, di dare e avere tra le persone di un gruppo di lavoro. Cosa senti di aver dato e di aver ricevuto in questi anni?
Sono molto d’accordo con questo modo di vedere il lavoro. Tra le cose più importanti che l’esperienza mi ha regalato sento di dire l’allenamento all’imprevisto e il riconoscere la forza della fragilità, che è stata una grossa scoperta. Di solito, soprattutto in ambito artistico, la fragilità è qualcosa da nascondere e camuffare. Ma che potenza può avere invece regalarla in scena?
Come senti siano cambiati i tempi dal 2000 quando hai iniziato ad oggi, quando si parla di arte e disabilità?
Nel 2000 era difficile far capire alle persone quanto potenziale artistico ed espressivo avessero dei ragazzi diversamente abili, far capire che anche loro potevano essere artisti. Oggi almeno è una possibilità che viene presa in considerazione, in certi contesti. Sono stati fatti passi da giganti, ma c’è ancora molto lavoro da fare, soprattutto quando parliamo di integrazione tra performer disabili e non. Io trovo sia una cosa estremamente preziosa e per niente scontata. Noi ci siamo riusciti perché abbiamo avuto la fortuna di trovare danzatori propositivi, pieni di fiducia e che soprattutto si divertissero facendolo. È stato un innamoramento reciproco.
Le precedenti amministrazioni comunali avevano già stabilito la residenza della Compagnia Xe nel nostro prezioso Teatro Niccolini, raggiungendo il grande traguardo di aver inserito gli spettacoli del progetto Personae nel cartellone per gli abbonati del teatro. Mi sento di volere e dovere proseguire questo cammino per concretizzare finalmente una parola spesso abusata quando si parla di disabilità, ovvero la parola integrazione. L’amministrazione comunale, con l’inserimento dello spettacolo in cartellone, vuole favorire l’opportunità della reale integrazione tra i nostri ragazzi e il pubblico normodotato. Come genitoresono felice che attraverso questa operazione teatrale, tutte le persone possano finalmente godere dell’emozione che produce il connubio fra disabilità e bellezza artistica, che devono e possono convivere. Come madre posso testimoniare che l’incontro con il teatro, sia da fruitore prima che da attore poi, ha funzionato nel riservare uno spazio all’anima inquieta di Timothy in un contenitore accogliente e adatto alla sua natura. Guardando e recitando sfoga e realizza quella parte di sé che altrimenti non avrebbe collocazione proprio perché leggermente, come suol dirsi, fuori di testa. La mente di mio figlio Timothy è sempre costretta a limitarsi per produrre azioni e comportamenti adeguati alla socialità delle persone comuni e solo raramente si può dilatare fino a esternare dei ritratti nascosti dentro di sé, sconquassati e a volte incomprensibili perfino a se stesso. La recitazione diventa l’operazione necessaria per l’attivarsi dell’azione coraggiosa di uscire da quel guscio, che tende a comprimere ogni cosa per il quieto vivere del disabile nella società. Entrare in un personaggio diverso dal ‘solito sé’, con la consapevolezza di farlo perché questa trasformazione avviene su un palcoscenico e davanti a un pubblico, dal quale alla fine si riceve addirittura approvazione attraverso l’applauso, è un’operazione di crescita fantastica. Per un carattere come quello di Timothy, tendenzialmente amante del protagonismo e della socializzazione a trecentosessanta gradi e per tutte le ragioni che ho appena espresso, il teatro è un vero toccasana. È azione terapeutica, è impegno relazionale di gruppo e infine è gioco. Non a caso la lingua inglese usa lo stesso vocabolo per indicare recitazione e gioco: to play. Come mamma di Timothy non posso che provare anch’io divertimento nel vedere mio figlio che recita, uscendo allo scoperto, per gioco. Il passo successivo di me genitore, come avviene dopo una seduta dallo psicologo, è cercare di trovare i modi per accogliere le tematiche incandescenti che bruciano dentro di lui e che attraverso l’attività teatrale sono finalmente emerse. La grande abilità di Julie Ann e dei collaboratori della Compagnia Xe, nel progetto Personae, sta proprio nel dare questa grande possibilità ai ragazzi che vi partecipano, restituendo comunque al pubblico comune uno spettacolo artisticamente bello, da vedere e da ascoltare. Ed è per questo che non finirò mai di ringraziare Julie Ann e tutta la Compagnia per l’impegno che da anni impiegano in questa complessa operazione. Maura Masini, madre dell’attore Timothy Ward Booth Assessore alle Politiche per lo sviluppo culturale, Comune di San Casciano Val di Pesa
Nasce in provincia di Siracusa nel 2000 e affianca la maturità classica allo studio in ambito performativo frequentando l’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa e la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano, dove ad oggi frequenta il corso Danzatore e persegue uno studio personale circa la storia della performance digitale e le sue future declinazioni. Il suo primo studio coreografico Else_or the january blues debutta a giugno 2021 in occasione del Festival Dominio Pubblico – La città agli Under 25 negli ambienti di Spazio Rossellini a Roma.
Nato nel 1980, Alexander Whitley è un danzatore e coreografo londinese, direttore della Alexander Whitley Dance Company. Si diploma alla Royal Ballet School ma viene ben presto folgorato dalla danza contemporanea, che gli permetterà di fare esperienza con compagnie quali la Rambert, la Michael Clark Company, la Sydney Dance Company e la Wayne McGregor Random Dance. In qualità di coreografo, cura i lavori di alcuni tra i nomi di spicco della danza contemporanea inglese come Balletboyz e Candoco, riservando però solo alla sua compagnia il compito di testare i limiti della danza dal vivo. La AWDC nasce infatti nel 2014 in risposta alle nuove possibilità creative offerte dalle nuove tecnologie digitali e le pratiche interdisciplinari che ne possono derivare. L’intenzione è quella di indagare la rilevanza del movimento attraverso i vari media, usando la tecnologia digitale come strumento di coinvolgimento profondo del pubblico. Lavora sul concetto di presenza e accessibilità dell’opera d’arte nei confronti di spettatori che possano effettivamente partecipare alla stessa esperienza anche se molto distanti tra loro. All’inizio del lockdown nel Marzo 2020, per l’appunto, Whitley inizia a lavorare a un database, che più tardi diventerà il progetto Digital Body, di sequenze di danza realizzate usando la tecnologia di Motion-Capture, rendendo il lavoro disponibile gratuitamente per tutti i digital artist che volessero usufruirne.
L’opera
Il progetto Digital Body esplora come il movimento umano possa essere rappresentato utilizzando la tecnologia di motion-capture e animazione 3D. Quanto si può rendere astratta la figura di un corpo e riconoscerla ancora come umana? Come può la motion capture animare forme che siano diverse da quelle anatomiche? In reazione diretta a queste e altre domande che gli sviluppatori e i digital artist iniziavano a porsi, nasceChaotic Body, lavoro di danza e digital art che prevede la produzione di tre brevi video-performance. In attesa dell’ultimo capitolo del trittico, il team di digital artist ha messo a disposizione le prime due parti, Strange Attractor e Liminal Phase. Entrambe le composizioni prendono in prestito i pattern naturali come pretesto per testare le soglie di ciò che rimane riconoscibilmente umano quando il corpo è ridotto a un insieme di punti nello spazio. Partendo dallo studio della fisica matematica, il processo creativo è volto a indagare la Teoria del Caos. Non è la prima volta che Whitley si lascia ispirare dalla scienza, basti pensare a 8 Minutes, sull’esplorazione dello spazio, o Butterfly Effect, che indaga tempo e casualità. Come egli stesso spiega, “La natura descrive sistemi dinamici, proprio come dovrebbe fare una coreografia”.
Chaotic Body 1: Strange attractor
Il primo capitolo del progetto Chaotic Body è stato commissionato dal Romaeuropa Festival con il supporto del British Council, ed è frutto della collaborazione tra il coreografo e l’UL Collective, team di digital artist. Uno fra loro, Chris Waters, in occasione della premiere mondiale nell’ottobre 2020, ci parla delle fasi creative nello sviluppo della stanza virtuale che avrebbe fatto da scena alla coreografia. Che cosa si sarebbe potuto ottenere creando uno spazio con regole fisiche molto complesse con cui i danzatori potessero convivere? Il risultato è inaspettato e imprevedibile, un sistema di interazione basato sulla sensibilità dello spazio alla danza e alla musica. La coreografia, la musica e l’arte visiva si arricchiscono a vicenda.
Il titolo fa riferimento al concetto di attrattore strano, particolare regione di spazio in un sistema dinamico entro la quale si manifestano interazioni di andamento caotico. La sequenza di danza catturata in motion capture della danzatrice si ripete in loop. Il punto, spiega Whitley durante la premiere mondiale, non è creare una sequenza virtuosa di passi che si susseguono, ma vedere come l’interazione con regole fisiche altre in uno spazio digitale riesca a trasformare una semplice sequenza in qualcosa di irriconoscibile rispetto al punto di partenza.
Durata: 6 minuti Performer: Tia Hockey Pubblico: chiunque possieda un device con connessione internet Spazio: stanza virtuale Suono: composizione di Qasim Naqvi
Chaotic Body 2: Liminal Phase
Debutta nell’estate 2021 presso il VRHAM Festival di Amburgo, confermando la presenza dello stesso team di creativi, con l’aggiunta del compositore americano Missy Mazzoli. Si tratta di un breve lavoro per due danzatori, che pone l’accento sul respiro umano per dissolvere i confini tra la forma dei loro corpi e l’ambiente in cui si trovano. I due danzatori hanno registrato la loro sequenza senza sapere cosa l’altro avrebbe danzato, eppure il risultato finale ottenuto è un duetto in cui le due ombre sembrano comunicare incessamente tra di loro, e dissolversi l’una dentro i confini dell’altra.
Durata: 6 minuti Performer: Hannah Ekholm, David Ledger Pubblico: chiunque possieda un device con connessione internet Spazio: stanza virtuale Suono: composizione originale di Missy Mazzoli
Nasce in provincia di Siracusa nel 2000 e affianca la maturità classica allo studio in ambito performativo frequentando l’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa e la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano, dove ad oggi frequenta il corso Danzatore e persegue uno studio personale circa la storia della performance digitale e le sue future declinazioni. Il suo primo studio coreografico Else_or the january blues debutta a giugno 2021 in occasione del Festival Dominio Pubblico – La città agli Under 25 negli ambienti di Spazio Rossellini a Roma.
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