Eugenio Sideri, la corsa, la drammaturgia e l’oltraggio

Eugenio Sideri, la corsa, la drammaturgia e l’oltraggio

A un anno dal debutto a Cà Tiepolo, in provincia di Rovigo, Olmo. Io corro per vendetta, monologo interpretato da Enrico Caravita scritto e diretto da Eugenio Sideri, torna a calcare le scene il prossimo 14 settembre, questa volta sulla riviera romagnola. Ispirato al campione della corsa ultra trail Marco Olmo, atleta protagonista di sfide estreme quali  la Marathon des Sable con 230 km nel deserto marocchino, la Desert Cup di 168 km in quello giordano e la Desert Marathon in territorio libico. Ma anche della competizione sul Monte Sinai e in Martinica, per affrontare successivamente la corsa nel deserto della California e diventare campione del mondo a 58 anni nel 2006 vincendo negli oltre 165 km nell’Ultra Trail du Mont Blanc in Europa.

 Una vita spinta sull’acceleratore, non solo per il brivido dell’avventura ma anche per un desiderio di riscatto esistenziale e di vita intensa, vissuta sempre fino in fondo. Poi, due anni fa, il suo incontro con il regista e drammaturgo Sideri, fondatore di Lady Godiva Teatro a Ravenna, che già con Inizia per A nel 2012, aveva portato a teatro la vita di Alfonsina Strada, prima donna a correre in bici in Romagna, in un periodo ancora pieno di pregiudizi e divieti. È nato così il monologo dedicato all’ultramaratoneta in cui la corsa e le sfide estreme sono metafora della vita e delle scelte radicali che questa può spingere a compiere, oltraggiose, per riprendere appunto un termine caro a Sideri.

Come è nato il monologo dedicato al campione di ultratrail Marco Olmo e quando lo hai conosciuto cosa ti ha colpito di lui?

Il monologo nasce da una suggestione di Alberto Marchesani, che è un runner di ultra trail e inventore dell’Epica dell’Acqua, una 100 km non competitiva che attraversa i suggestivi paesaggi del Delta del Po.

Ci conosciamo da tempo e, casualmente, parlando di alcuni protagonisti solitari delle mie storie (Alfonsina Strada, Filottete, ad esempio) una sera mi ha detto: “Ma tu la conosci la storia di Marco Olmo? Secondo me potresti farne uno spettacolo”. Questo succedeva quasi due anni fa. E la faccenda poteva finire lì… tante volte incontro persone che mi propongono personaggi e storie che potrebbero diventare narrazioni a teatro o spettacoli veri e propri… in fondo era capitato così con Patrizia Bollini, quando mi aveva parlato, nel 2012, per la prima volta, di Alfonsina Strada (e da allora raccontiamo la sua storia in giro per l’Italia e pure all’estero, con lo spettacolo Finisce per A).

Mi sono incuriosito. Ma chi sono, mi dicevo, questi matti che fanno ‘ste cose da matti”? E così Alberto mi ha prestato un paio di libri di Olmo. Ma solo dopo alcuni mesi li ho letti velocemente. E mi sono sembrati un po’ noiosi. Mi sembrava un mondo di persone davvero particolari (mi riferisco al mondo dell’ultra trail) … gente che sfida se stessa e il destino in condizioni climatiche assurde, dai ghiacci ai deserti con cibo e acqua razionate, in gare in cui i compensi sono coppe, medaglie e basta! Non mi sembrava materiale abbastanza interessante per scriverne uno spettacolo. C’era qualcosa che non capivo: al di là delle imprese sportive, che comunque appartengono ad una nicchia (seppur relativamente ampia) di sportivi, a chi potrebbe interessare la vicenda di un uomo che ha corso intorno al Monte Bianco per 167 km? E ha vinto, quella corsa a 57 anni, appunto la Ultra Trail Mont Blanc, davanti a sportivi allenati e preparati e più giovani, provenienti da tutto il mondo? Qualcosa non mi tornava e così ci siamo nuovamente incontrati con Alberto, a cena. Stavolta è scattata la molla: mi stava raccontando una corsa che lui stesso aveva fatto tra i ghiacci islandesi e a un certo punto ho visto nei suoi occhi la sconfitta e la rivincita, occhi lucidi che mi raccontavano di come ci si possa sentire sconfitti dalla natura, dagli eventi, dalle cose che ci succedono nella vita. E magari sono proprio quelle situazioni o parole o cose che ti sono successe alle elementari o da adolescenti o al lavoro, a scuola, magari quella ragazza che ti ha rifiutato, quell’amico che ti ha umiliato, quel capo che ti ha licenziato o semplicemente tu stesso che la sera, prima di andare a letto, ti guardi allo specchio e vedi il vuoto, che un altro giorno è trascorso inutilmente… Ecco, mentre mi raccontava questo, ho pensato a quante volte poteva essere successo anche a me e quanto siano stati importanti il teatro e la scrittura quasi anche a strumento di riscossa, di rivincita. È scattata la molla, dicevo: in quella chiacchierata ho intuito, credo, che c’era una storia che meritava di essere raccontata e che non era semplicemente una storia sportiva, ma qualcosa di più….

Da un anno porti in scena questo monologo. Che tipo di pubblico attrae?

Abbiamo recitato all’Epica dell’Acqua, al debutto, a Cà Tiepolo, nella cornice della splendida isola di Albarella, tra acque, canneti, casoni di pescatori e una natura che pare ancora incontaminata. Il pubblico erano i runners che stavano correndo le tre tappe di 100k in totale, completamente immersi nella Delta del Po… e tra il pubblico c’era Olmo in persona! Eravamo emozionatissimi! Alla fine, mentre il pubblico dei runners ci applaudiva entusiasta, Olmo è venuto in scena ad abbracciarci! È stata un’emozione incredibile! Era un pubblico di corridori, appunto, che conosceva benissimo Olmo e le sue imprese. Poi siamo stati in carcere, con i detenuti che ci guardavano sorpresi, un po’ forse perché disabituati al teatro, ma soprattutto increduli che un uomo potesse compiere imprese così e forse qualcuno si è un po’ ritrovato, vedendo le proprie sconfitte e cercando la forza per la rivincita. Poi i festival teatrali, con pubblico “teatrale”, che ha accolto commosso lo spettacolo, dandoci molta soddisfazione. Pubblici diversi, di vario tipo, in cui ciascuno trova, nella storia di Olmo, la sua personale storia, anche se non ha mai corso un passo…

In questo tuo lavoro, di riflesso, tu affronti anche il tema del tempo nelle sue declinazioni: quello legato alla corsa in sé, quindi al presente, al passato (al ricordo e al non detto), al tempo futuro come possibilità. In quale ti trovi più a tuo agio, nello scriverne?

Come dici tu, non c’è un tempo solo nella mia scrittura. Attraverso il tempo, in una corsa continua tra la memoria e il futuro, cavalcando il presente. È il presente del teatro che mi interessa, il suo farsi mentre succede, il suo hic et nunc: in quel presente che succede mentre si svolge la scena, ecco che avvengono le cose (azioni, fatti, racconti, emozioni, sorrisi, lacrime). È il tempo del teatro, che succede mentre si svolge lo spettacolo e che raccoglie tanti altri tempi, ma è come se ne disegnasse uno solo, mentre avviene. A me interessa quel tempo lì, sulla scena. Il resto è finzione.

Il tema della vendetta a cui si riferisce il titolo, invece, che ruolo gioca nell’avventura di Olmo?

È fondamentale. Ma non va intesa la vendetta come qualcosa di cattivo, di negativo, anzi. È la rivincita, la rivalsa, il trovare il proprio respiro, la propria strada verso ciò che ci rende compiuti, che ci fa sentire a posto con noi stessi. Ognuno ha la sua, ognuno corre la sua corsa.

In questo tuo lavoro dedicato a Olmo, l’attore Caravita cosa porta di se stesso e cosa porta di te sul palco (oltre al personaggio che interpreta)?

Enrico dice spesso che per lui l’attore è un corpo a prestito. Credo sia un’ottima definizione per rispondere. È compito dell’attore mantenere la propria verità per indossare il personaggio che non è mai altro da sé: è altro, ma sicuramente non finzione, almeno non nel senso che molti credono e che tanto teatro ha fatto credere. Partiamo sempre da noi stessi, da ciò che siamo, dalle nostre storie, dai nostri percorsi… è la verità che abbiamo addosso che ci fa indossare degli abiti diversi che, ognuno di noi, indossa a modo suo.

In questo caso Enrico è partito da un aspetto fisico: Olmo è molto alto, magrissimo, runner. Lui è più basso, robusto, pratica sport ma non la corsa. Ci siamo chiesti come avvicinarci ad Olmo, proprio sapendo la diversità e quasi subito è nato un gioco di dichiarazione d’intenti, metateatrale: “Ci vorrebbe che Marco Olmo venisse qui…”, questa la prima battuta dello spettacolo, una dichiarazione appunto d’intenti, in cui l’attore dichiaratamente afferma di non essere quel personaggio, di non assomigliargli, ma che ne racconterà le vicende come se fosse quel personaggio.

E poi la storia personale di Enrico, che ad un certo punto del suo percorso teatrale ha scelto di diventare un portuale (e lo è tuttora), per vari motivi, tra cui la sicurezza economica che il teatro non ti dà. Ha scelto la famiglia e ha scelto il teatro con la serietà e l’impegno di un vero professionista. Ecco, Marco Olmo, nella sua vita, era uno escavatorista, alla Unicem, un’azienda che produce cementi e calcestruzzi. Ha guidato, come operaio, l’escavatore per 30 anni. Enrico è partito da qui, dalla affinità con Olmo nell’essere, entrambi, operai e Olmo stesso, quando abbiamo chiacchierato, ha apprezzato molto la scelta di Enrico. Ha sentito l’affinità, l’empatia di avere cammini simili. Io stesso ho scavato nelle mie vendette, in quelle storie della vita che mi hanno dato e mi danno dolore. In particolare il mondo dell’adolescenza, il liceo, dove ho vissuto esperienza che mi hanno profondamente segnato.

L’avventura sportiva e umana di Marco Olmo che tu porti sul palco parla del rapporto dell’uomo con se stesso e i suoi limiti. Come sviluppare un monologo efficace che non cada nella retorica e nel già detto?

Non lo so… sinceramente non mi sono posto e non mi pongo queste domande, le considero un po’ dei falsi problemi. Mi spiego: da secoli, fin dai Greci, il teatro indaga sul rapporto dell’uomo con i suoi limiti. Il tempo passa e le opere si succedono, affrontando l’uomo sempre in relazione al tempo passato e ai nuovi presenti. Ognuno, credo, scrive e riscrive. Büchner diceva che “scriviamo sempre lo stesso libro”. Ecco, nel mio piccolo, anche io provo a scrivere il mio.

Olmo è una figura solitaria, che fa scelte estreme e, riprendendo una parola a te cara, oltraggiosa (perdonami, anche se è un uomo non ho resistito a fare questo accostamento). Oltraggiosi si nasce o si diventa secondo te?

Olmo è assolutamente oltraggioso, ci mancherebbe. Quando ho scelto questa parola per nominare il gruppo di adolescenti con cui lavoro da 5 anni (Le Oltraggiose, appunto) volevo proprio il significato antico del termine, quello di superare il limite imposto, da se stessi e dagli altri. Olmo, in questo senso, è davvero oltraggioso! Io credo che si possa nascere oltraggiosi e lo si possa però anche diventare. In ogni caso non basta un’indole ribelle, un desiderio, se vuoi anche innato, di rivalsa. Occorre coltivarlo, ampliarlo, portarlo a compimento nella vita stessa che attraversiamo. Voglio dire: posso anche essere arrabbiato con i limiti che la società impone, posso contestarli, fare rumore, ma non basta, occorre cercare una propria via, una strada per correre la propria corsa oltraggiosa e correrla tutta, fino a quando il respiro ci sosterrà. È spesso un percorso che si fa in solitaria e la solitudine fa paura. E non mi riferisco necessariamente a quella fisica, che comunque gioca il suo ruolo e la sua importanza, ma a quella mentale, di scegliere altri passi dentro a un sistema di cose dai sentieri già tracciati. Si tratta di impegno, costanza, determinazione e di obiettivi che scegliamo di porci. Ricordando che le vie, mentre le si percorre, a volte cambiano direzioni, ci portano altrove rispetto a quanto pensavamo, a volte tornano indietro. È una scelta forte e faticosa l’oltraggio. Sempre, comunque, in direzione ostinata e contraria.

Teatro-danza e yoga, un circuito di continue risonanze

Teatro-danza e yoga, un circuito di continue risonanze

Danzatrice, allieva di Monica Francia e di Masaki Iwana poco più che ventenne, oltre che collaboratrice di Silvia Rampelli, responsabile della compagnia Habillé d’Eau, creata da Iwana nel 1996. Ma anche assistente coreografa del regista Romeo Castellucci per il progetto Tragedia Endogonidia dal 2002 al 2007.

Classe 1975, laureata in Conservazione dei Beni Musicali, Francesca Proia unisce la passione per la danza e la coreografia alla pratica yogica intesa come ricerca poetica appoggiata sulle tecniche sottili di cui ci parla nell’intervista. I suoi lavori coreografici, l’ultimo dei quali How to grow a lotus, frutto di un percorso di ricerca condiviso con il Teatro delle Moire di Milano, sono stati fin dall’inizio connotati dal supporto concettuale e sensoriale dello yoga. Allo yoga sono dedicate peraltro diverse sue pubblicazioni, tra le quali ricordiamo Declinazioni yoga dell’immagine corporea, (Titivillus, 2011); La strada collettiva (Il Vicolo Editore,2015) oltre al debutto online nel 2016 con il progetto Mìnera, scuola di yoga in absentia; La cattura del respiro: Piccola guida yoga del signor Pranayama per le Edizioni del Girasole, nel 2017, e l’ultima, dal titolo Yoga – La composizione delle tecniche per una pratica viva, ed. Astrolabio Ubaldini, del 2022.

Partiamo dalla pratica yoga e dal suo rapporto con la danza e l’elemento coreografico e con quello teorico-filosofico. Come si sviluppa una performance abitata da così tante dimensioni? Qual è il tuo punto di partenza e quand’è che intuisci di essere arrivata a una sintesi? 

In questo momento sono molto interessata a indagare come la pratica di un gruppo di persone possa diventare performance/coreografia senza che i performer perdano l’intento interiore proprio dello yoga, il suo tipico permeare la coscienza. È necessario perciò creare strutture coreografiche che inquadrino in una poetica lo stato di vera concentrazione intensiva di chi è in scena. Bisogna lavorare per sottrazione, togliere proprio tutto ciò che visivamente colleghiamo allo yoga, ed è proprio questo l’aspetto stimolante. Sicuramente il respiro è, in questo senso, un mezzo fondamentale. L’aspetto teorico/filosofico è una dimensione ulteriore, i cui germi si sviluppano dalla pratica ma che poi evolvono in concetti in modo indipendente. Si tratta pur sempre di un pensiero connesso alla percezione intensiva che la pratica innesca, ma che continua a fruttificare, a stratificarsi, a complicarsi. Spesso queste elaborazioni tornano poi come una strana linfa a nutrire la pratica, in una sorta di circuito di continue risonanze.

L’esperienza dello yoga porta ad un’amplificazione della corporeità e della percezione. Questo aiuta anche la creazione artistica e la dimensione coreografica? Ci sono immagini o suggestioni nel tuo lavoro con lo yoga che hanno ispirato i lavori coreografici che porti in scena?

Certamente. Le immagini nutrono in modo costante il mio lavoro. Per esempio, l’insegnamento dello yoga per me passa attraverso la messa in vita di (l’offerta agli allievi/e di) una ghirlanda di immagini in grado di orientare l’esperienza che propongo ma facendo attenzione a non esaurirla: l’immagine deve essere più simile a un varco che a un quadro concluso. Ovviamente le immagini creano e supportano anche il lavoro coreografico: per esempio un mio assolo danzato, Qualcosa da Sala, era costruito a partire da quelle posture yoga in cui il corpo somiglia a un pugno chiuso ma, sempre, molte altre immagini fluiscono spontanee durante le prove e durante la danza, si impigliano nei gesti a suggerirne la possibilità di molti altri. Questo stato di ascolto alla potenziale ulteriorità infinita del gesto per me è fondamentale nella danza.

Pratica dello yoga e rappresentazione teatrale: qual è il loro rapporto? L’uno sembra richiamare uno sforzo di concentrazione e di ricerca sul sé, l’altro per sua natura non può prescindere dall’elemento della finzione. Qual è secondo te il loro terreno di incontro e di complementarietà?

Prima ancora che di finzione o di rappresentazione teatrale, in questo caso parlerei di struttura. Se c’è un’idea e c’è una struttura, allora abbiamo le condizioni affinché la materia viva dello yoga sia accolta entro un dispositivo teatrale e coerente con la visione e la percezione che il teatro richiede.

Altro rapporto importante tanto nel teatro-danza quanto nello yoga, è quello tra corpo, respiro e componente vocale. Ti chiedo sulla parte vocale, anche in relazione alla tua ricerca nell’ambito del centro Malagola di Ermanna Montanari ed Enrico Pitozzi.

Malagola è un bellissimo progetto, letteralmente un vivaio. Il respiro abita il corpo dalla testa ai piedi: fin sulla pelle se ne può percepire l’onda. Ogni respiro rinnova quella pulsazione primaria del corpo in rapporto allo spazio: l’alternarsi continuo di espansione e riposo/dissoluzione. Il respiro per gli indiani è il mantra originario, che se lo si ascolta suona so ham, ovvero io sono quello: io esisto ma sono pur sempre immerso in una trama generativa universale che mi ha emesso e che mi riassorbirà. La voce allora si origina da questa dinamica tra corpo e invisibile. A partire da questi presupposti, e pensando alla ricchezza delle tecniche yogiche che riguardano il respiro, la voce, l’ascolto, Ermanna ed Enrico mi hanno invitata a pensare per i ragazzi una strada che rendesse più percepibile il legame tra voce e “corpo sottile”. Il corpo sottile nello yoga è un concetto che indica la vita nelle sue espressioni invisibili. Abbiamo fatto un lavoro per sentire che la voce è a un tempo emanazione di tutto il corpo ed entità che addensa l’invisibile.

Cosa ci puoi raccontare della tua adesione, nel 2023, al progetto Scholé, una serie di proposte di studio sul corpo?

Scholé è una formazione di ricerca pura che coinvolge diversi docenti la cui poetica in qualche momento è entrata realmente in dialogo con l’anima del Teatro delle Moire, ovvero Attilio Nicoli Cristiani e Alessandra De Santis. Questo ha creato spontaneamente una scuola che è una comunità dinamica di ricercatori, sfaccettata ma risuonante. Ciascun docente porta i suoi temi e le sue pratiche ma nascono continui rimandi il cui merito va all’alchimia che Attilio e Alessandra hanno saputo predisporre. La formazione che porto avanti qui si chiama How to grow a lotus; si tratta di una serie di seminari sulla questione mai esauribile del corpo sulla scena: corpo come creazione che genera altra creazione ancora.

Il tipo di pratica teatrale che gravita intorno al pensiero filosofico orientale si propone di annullare il principio di individualità per giungere al principio del Tat tvam asi che porterebbe finalmente alla pace riconoscendo se stessi presenti in ogni forma di (apparente) alterità nel mondo vivente. Ti senti vicina a questo tipo di ricerca?

Di certo la scena induce una condizione permeabile, porosa, percettivamente unica. Non credo però che questo esaurisca la faccenda: c’è per esempio tutta la dimensione del rapimento, dell’ispirazione, del selvatico, e poi c’è la tecnica, che ha con l’ispirazione un rapporto misterioso e complesso. Penso che non sia possibile porsi in rapporto alla scena con un’attitudine troppo pacificata, o dominata da convinzioni troppo vincolanti.

Una considerazione infine sulla tua partecipazione, nei giorni scorsi, al Crisalide Forlì Festival di Gualdo con un’esperienza immersiva in un contesto naturalistico. 

Sarà una breve proposta, rivolta a tutto il pubblico, volta a indurre una maggiore disponibilità percettiva. Di certo la natura favorisce quella sensazione del sentire la risonanza delle cose nel proprio corpo. 

Quando hai iniziato la pratica yoga e quando la danza e la coreografia? Cosa ci puoi raccontare sulla tua formazione e quali sono stati i tuoi autori di riferimento per ciascun ambito?

Ho iniziato la danza e lo yoga nella primissima adolescenza. La pratica della coreografia è arrivata un po’ più tardi, intorno ai diciotto-vent’anni. Mi sono laureata in Conservazione dei Beni musicali e poi mi sono formata come insegnante di yoga a venticinque anni. In generale mi sono sempre spostata senza riserve per andare a incontrare i maestri il cui lavoro mi attraeva. Gli incontri importanti sono stati tanti ma non mi sono mai trovata nel desiderio di essere davvero, per lungo tempo, apprendista di qualcuno. Presto o tardi, anche nelle incertezze, ho sempre sentito che dovevo riprendere una strada mia. Sicuramente porto nel cuore il coreografo di danza butoh Masaki Iwana, per il quale sono stata danzatrice dai ventuno ai ventitré anni. Masaki univa in sé tanti aspetti contrapposti: una specie di  malinconia, finezza estetica, animalità, spirito; e poi Romeo Castellucci, che ritengo mi abbia insegnato a osare nella ricerca, a non risparmiarmi e a non avere paura di sbagliare né di non soddisfare aspettative, ma mi ha anche dato molto valore e questo mi ha aiutata a riconoscermi. Per lo yoga un mio riferimento sempre presente è il compositore e maestro di yoga Giacinto Scelsi.

Don Chisciotte, il fuoco e la bambina senza nome

Don Chisciotte, il fuoco e la bambina senza nome

Con la brace ardente, accesa tra il palazzo in rovina, metafora della memoria che non si spegne sulla tragedia della bambina senza nome e di tutte le tragedie della storia di ieri e di oggi, si conclude la seconda anta dell’opera in fieri Don Chisciotte ad Ardere di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari.

Itinerante e divisa in tre parti, la coproduzione Teatro delle Albe/Ravenna Teatro, Ravenna Festival e Teatro Alighieri, ha accompagnato dal 26 al 30 giugno e dal 2 al 7 luglio i partecipanti alla chiamata pubblica, alla (ri)scoperta del cavaliere visionario e folle di Cervantes.

Dopo la fuga degli erranti dal rogo dei libri, con cui si era conclusa l’edizione 2023, si ritorna davanti  al balcone di Palazzo Malagola ad ascoltare il prologo della maga Hermanita che con la tecnica dei versi dalla testa rotta inventati dal poeta di Siviglia Alvarez de Soria, vissuto tra il sedicesimo e il diciassettesimo secolo, introduce al luogo in cui “si cuciono, si disegnano e si cantano i sogni”. Guidati dal mago Marcus si varca subito dopo  il portone di legno, asse del mondo, per esplorare un universo personale, intimo e onirico. Una dimensione raccontata e scritta dalle persone che siedono operose nell’antro del palazzo, dalle immagini di Stefano Ricci, nell’inconfondibile stile già conosciuto in Madre, dal canto di Serena Abrami e dal silenzioso peregrinare del pubblico da una stanza all’altra. I rimandi al mondo contadino ricordati nelle Minature Campianesi di Ermanna Montanari sembrano rivivere nel pavimento di fieno e nel maiale sacrificato ed esposto prima di uscire nel giardino del palazzo dove il viaggio degli erranti entra nella seconda fase.

È qui che la maga Hermanita evoca i tre fantasmi che escono dalla Trash Room: sono i protagonisti dell’opera di Cervantes: Roberto del Castillo, alias Don Chisciotte, Laura Ross de la Briansa è Dulcine e Sancio Panza, infine, è Aleandro Argnàn de Puerto Foras

Personaggi stralunati e comici, abitati da attori che entrano ed escono dalla loro parte, protestano, litigano tra loro e rischiano più volte di essere tramortiti dalla folla inferocita che si scaglia contro le utopistiche pretese dell’hidalgo. Che sia il coro degli adolescenti impazienti delle Marcelle e dei Marcelli e che tuttavia maga Hermanita riesce a coinvolgere in una fragorosa e divertente glossolalia, o il gruppo dei carcerati che dopo essere stati liberati pensa solo ad andarsene e non si fa scrupoli ad aggredire Don Chisciotte che pure li ha aiutati. O ancora il rogo dei libri della biblioteca di Don Chisciotte messo in atto dai suoi amici, il curato e il barbiere, in cui ancora una volta è la folla manipolata e irruenta a gettare alle fiamme i testi di Italo Calvino, Luis Sepulveda, Fëdor Dostoevskij, Stephan Hessel, Voltaire e Gabriel Garcìa Marquez. Ancora fuoco, che questa volta consuma e distrugge. Il rituale di macabra purificazione prosegue lanciando libri dalla finestra della locanda. Ci sono anche Dante Alighieri, Miguel de Cervantes, Greta Thumberg, Bertolt Brecht, Antonin Artaud, Primo Levi, Alfred Jarry e Cristina Campo.Hermanita, viso da maga e mani di bambina, medium e teatrante, interviene ancora una volta: Cosa ci fate lì imbambolà? Non le vedete le fià?Le fiamme che si alzano in ciè. Che incendiano il mondo! Si comincia sempre così. Si comincia con quattro libretti. Zitti zitti. Un fiammiferino. Uno zolfanello. La carta non fa rumore. Brusar dieci libri. Che vuoi mai che sia? Un rogo. Un rogo sulla pubblica piazza (…) Si comincia col bruciare la carta. Si finisce per bruciare la carne! Si comincia con un rogo di libri. Si finisce con un rogo di donne, uomini, bambini! Scapì! Scapì!

Don Chisciotte
Ph Marco Caselli Nirmal

Ci si prepara alla parte finale dell’opera, allontanandosi dal rogo e guidati ancora una volta da Marcus che conduce gli erranti lungo le strade. Prima ad osservare il fare e disfarsi continuo di uccelli notturni che Stefano Ricci disegna su una pala appesa al muro di una casa. Poi di nuovo sotto il balcone di Palazzo Malagola dove un’Hermanita ieratica e lunare, ricompare e si chiede: Dov’è finito il mio parlar felice?. Catacumbaro? Oggi che il cielo è di fangaccio. E di cemento il gorgo del mar. Dov’è finito il mio cantar deliro? Ma voi. Erranti. Seguite il Marcus che va.

Si arriva così a Palazzo Teodorico, dove gli erranti assistono ad un acceso litigio tra gli attori e volano parole grosse come strazio di fronte alla prospettiva di far recitare Aleandro in spagnolo senza auricolari. Appunto! Appunto caro Don Chisciotte, lo Strazio del mondo, il Dolore insensato dell’intera Umanità, di cui voi, qui, siete lo specchio luminoso e zoppicante. dice Marcus. Il teatro non racconta perfezioni, non dà risposte, ma domande, parti di verità, condivisione. Ci si prepara allora all’atto finale, in cui Hermanita introduce la figura della bambina senza nome, ispirata alla Schiava di Algeri dell’opera di Cervantes, che giace morta in fondo al lago con la sua bimba. Porta il nome di tutte! Viene dall’India, dal Nepal, che importa. Da un villaggio sperduto dell’Africa. Viene dalla Grande Moldavia, dal Kosovo. Dall’immensità sterminata della terra. Cammina come uno spettro. Sulle vie che portano a Roma. La Salaria, l’Appia, la Tuscolana. È uno straccetto. Afferrato e poi buttato via. Nella desolazione di questo Mondo!. Ad interpretarla la giovanissima Giulia Albonetti, adolescente cresciuta nella non scuola e proprio recentemente intervistata dalla giornalista belga Laurence Van Goethem che sarà pubblicata a breve in francese sul sito online La Pointe in cui parla in modo molto intenso di questa sua interpretazione.

La bambina senza nome, riprende Hermanita, può essere vicino a noi, ma non la vediamo. Il fuoco nel braciere allora viene riattizzato ancora di più, perché la fiamma della memoria non si spenga, perché il teatro sia ancora e sempre gioco e dionisiaco piacere, ma anche ricerca della verità.Un allestimento dell’opera-mondo di Cervantes che riprende teatro di massa e sacra rappresentazione. Trasforma, incanta e diverte. Un itinere, un insieme di persone che sono piega, curva, linea retta, metamorfosi inarrestabile, proiezione verso l’infinito.

Sogno di volare, la non-scuola a Pompei

Sogno di volare, la non-scuola a Pompei

“Per tutti gli adolescenti il passaggio all’età adulta è come attraversare un fiume in piena con molte correnti e molto pericoloso. Ma per i nostri ragazzi è attraversare un fiume in piena con gente che spara da tutte e due le rive”. Le parole di Carla Melazzini, insegnante vissuta nel secolo scorso, che si leggono nelle ultime pagine del libro di Francesca Saturnino, La non-scuola di Marco Martinelli – Tracce e voci intorno ad Aristofane a Pompei (Luca Sossella Editore), rendono l’idea della sfida educativa nelle periferie. Per la scuola, ma anche per il teatro.

Sfida che il regista e drammaturgo emiliano-romagnolo ha accettato ancora una volta, ritornando a Napoli a 20 anni da Arrevuoto, con il progetto quadriennale Sogno di volare in cui gli adolescenti di Pompei hanno portato in scena le opere del commediografo Aristofane Uccelli, Acarnesi e Pluto e a cui è dedicato il testo di Saturnino, edito da Luca Sossella nel maggio scorso.

Critica teatrale, giornalista e insegnante, proprio per questo suo essere figura capace di stare sia sulla soglia e di osservare, sia di essere immersa nell’esperienza totalizzante del teatro, Saturnino ci restituisce un testo che mette in luce sia la profonda connessione tra teatro e scuola e le sue potenzialità, sia il salto in avanti che questa esperienza ha costituito per la pratica teatrale stessa del Teatro delle Albe, come si evince dalle interviste a Marco Martinelli e ad Ermanna Montanari contenute nel libro.

Sogno di volare, infatti, rappresenta per Martinelli e Montanari un ritorno e al tempo stesso un proseguimento rispetto ad Arrevuoto del 2004, di cui parlano entrambi come punto di svolta. Martinelli, raccontando come a partire da Scampia non sarebbe stato più possibile limitare l’esperienza della non scuola alle Scuole Secondarie di secondo grado, ma occorreva aprirla anche alle Medie e alle Elementari. “Adolescenti furiosi come quelli d Scampia non li avevo ancora incontrati” (p. 139). Anche i bambini piccoli sono esposti ad una violenza continua di fronte alla scuola e per strada. È il periodo della guerra tra bande Di Lauro e Spagnoli.

Altra importante novità introdotta nella non scuola dopo Scampia è quella di far lavorare insieme gruppi di adolescenti disomogenei tra loro. Martinelli viene invitato da Goffredo Fofi a portare per la prima volta la non scuola anche nelle periferie ma l’allora assessore alla Pubblica Istruzione Rachele Furfaro gli dice che a Napoli o si parte subito con qualcosa di esplosivo o il tutto rischia di arenarsi e gli propone l’idea di far partecipare giovani molto diversi tra loro. Si decide allora che gli studenti di Scampia vadano in scena insieme a quelli del liceo classico di piazza del Gesù. Funziona, nascono amori, amicizie, collaborazioni.

Terza novità determinata da Scampia, è stata quella di non limitarsi ad un solo spettacolo, ma prevedere almeno tre repliche. L’idea di un singolo spettacolo inteso come rito di iniziazione, unico e irripetibile, in quel contesto non avrebbe funzionato. Napoli è platealità. Quindi lo spettacolo è andato in scena davanti al popolo delle Vele, al Mercadante, poi è addirittura partito in tournée ed è arrivato al teatro Argentina di Roma. Una metamorfosi, insomma, a cui il Teatro delle Albe si è sentito chiamato e che nell’esperienza di Pompei sta trovando la sua continuità, grazie alla collaborazione con le istituzioni e con Ravenna Festival di cui il progetto è parte.

Altra suggestione molto forte da parte del regista è la constatazione che se, come diceva Eduardo, Shakespeare è il primo della classe di noi drammaturghi, noi italiani possiamo dire che Napoli è la capitale del teatro italiano. Ha provato, con i testi di Aristofane, a leggerli immaginando la voce di Totò e Peppino e rendevano benissimo.

Ermanna Montanari, invece, nell’intervista di Saturnino, racconta di quanto abbia trovato “la lingua di Napoli, materia incandescente, tellurica, una sfera sonora che crea il mondo” (pag. 152). E ancora: “A Napoli (…) c’è qualcosa di stonato, abissale, la presenza di un Dioniso senza organi, qualcosa che si mette di traverso (…)”. Un luogo di vitalità estrema, sempre prorompente, anche in mezzo agli estremi della violenza e della povertà, la casa di Dioniso, insomma, che dice sì all’irrazionalità della vita. Tanto che Ermanna parla di una cosmogonia vocale magica che ha a che fare con l’urlo (pag. 155). Proprio sull’urlo (della liberazione, della caduta, del parto) ha lavorato con le ragazze, soprattutto del liceo Genovesi, inizialmente più restie rispetto alle altre, abituate ad utilizzare soprattutto la loro voce sociale.

Il progetto Sogno di volare di Pompei, che ha iniziato a prendere vita nel novembre del 2021 è quindi la risultante di una lunga semina e la durata quadriennale sembra corroborare la convinzione che ci sia necessità di tempi lunghi perché dopo lo spettacolo finale si possa avere una restituzione altrettanto potente sulle persone che vi hanno preso parte. Conta, tra le scuole coinvolte, oltre al Liceo Ernesto Pascal e l’Istituto Eugenio Pantaleo di Torre del Greco, il Liceo G. de Chirico di Torre Annunziata e l’Istituto Superiore R. Elia di Castellammare di Stabia.

Ma come nasce Sogno di volare? Parte con l’intuizione del direttore del Parco Archeologico di Pompei, Gabriel Zuchtriegel, di coinvolgere gli adolescenti all’interno del sito Unesco. Avverte il contrasto tra la sua bellezza artistica e paesaggistica e la sua inaccessibilità per i giovani del territorio, che vivono in contesti di degrado urbano e senza prospettive. Da qui il contatto con le varie istituzioni scolastiche e territoriali, poi la richiesta a Franco Masotti, direttore artistico di Ravenna Festival, di poter organizzare “una grande opera lirica e musicale in cui coinvolgere la popolazione soprattutto i giovani adolescenti. Gli abbiamo proposto un altro tipo di operazione” (p. 184.185). L’incontro con Marco Martinelli e il Teatro delle Albe, l’invio del film The Sky over Kibera, poi la strada, aggiunge Masotti, è stata tutta in discesa.

Ecco allora gli adolescenti, che nel Parco Archeologico per 9 mesi si esercitano e riportano in vita il livore delle commedie di Aristofane, il suo antibellicismo e il suo sarcasmo, attraverso la non scuola.

Non scuola, che come leggiamo nel Noboalfabeto, scritto da Ermanna Montanari e Marco Martinelli nel 2001 e riportato nel testo di Saturnino, è incardinata su 4 pilastri: il primo è appunto quello degli adolescenti con il loro essere meravigliosamente asini, quindi spontanei, imperfetti, arrabbiati, senza filtri. Il secondo è quello delle guide, ex adolescenti che hanno seguito il Teatro delle Albe e ai quali Martinelli/Montanari hanno affidato il passaggio del testimone per portare i laboratori nelle varie città italiane. A Pompei sono gli ex arrevuotini Gianni Vastarella, Valeria Pollice e Vincenzo Salzano.
Terzo pilastro è la tradizione degli autori classici, da “massacrare amorevolmente”: al di sotto del del testo, che dopo secoli, se lo si  rappresenta con cieca fedeltà, rischia di rimanere lettera morta, c’è l’emozione che lo ha generato e che rimane universalmente attuale: la rabbia per l’ingiustizia. Così invece, gli adolescenti e il testo, “sfregati come due legnetti” finiscono col riaccendere questa emozione.
Ultimo pilastro è la figura dell’insegnante, come “lucido testimone dello scontro in atto”. Istituzione scolastica e teatro, infatti, sarebbero antitetici: l’uno detta regole e limiti, l’altro richiama all’improvvisazione come pratica necessaria. Eppure da anni questa coppia altamente improbabile nel Teatro delle Albe funziona molto bene, perché l’insegnante collabora, assiste, ma non si sostituisce mai alle guide.

Sogno di volare è una produzione di Parco Archeologico di Pompei, in collaborazione con Ravenna Festival, Teatro Mercadante, Teatro Stabile di Napoli, Pompei Theatrum Mundi e Giffoni Film Festival. Le musiche sono di Ambrogio Sparagna, conoscitore delle tradizioni della tammurriata, le luci di Vincent Longuemare, responsabile unico del progetto Maria Rispoli.

Danio Manfredini e l’eterno ritorno a Jean Genet

Danio Manfredini e l’eterno ritorno a Jean Genet

Formatosi con il drammaturgo e regista argentino César Brie e l’attrice Iben Nagel Rasmussen dell’Odin Teatret, è fondatore del Collettivo teatrale Tupac Amaru a Milano a metà degli anni Settanta. Tante le collaborazioni con le compagnie e gli artisti più innovativi degli ultimi decenni, da Pippo Delbono al Tanztheater di Pina Bausch al Teatro Valdoca fondata da Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri.

Danio Manfredini, attore, regista, drammaturgo, pittore, docente di arti figurative e performer, vincitore di tre Premi Ubu, con gli spettacoli Miracolo della Rosa, Al presente e Cinema Cielo, sarà a Castello d’Argile, in provincia di Bologna per guidare, dal 14 al 16 maggio, il laboratorio teatrale rivolto ad attori professionisti e in formazione intitolato Attore, parola in via di scomparsa nell’ambito del percorso Agorà Formazione 2023-2024, a cura di Anna Amadori, attrice e formatrice.

Un laboratorio finalizzato ad esplorare le potenzialità espressive dell’attore, attraverso il lavoro sul corpo, la vocalità e la memoria emotiva. Oltre agli aspetti del training preparatorio dell’attore saranno affrontati i testi drammaturgici scelti dall’artista che spaziano da Il gabbiano, Il giardino dei ciliegi e Zio Vania di Čechov a Caligola e Il malinteso di Camus; da Salinger e Lotta di negro e cani di Koltès a Un tram che si chiama desiderio e Lo zoo di vetro di Williams fino a Le serve di Genet, Amleto e Macbeth di Shakespeare.

Manfredini sarà poi in scena con Divine, liberamente ispirato all’opera di Jean Genet, sempre all’interno di Agorà, sabato 18 maggio alle 21 a Pieve di Cento (Bo). Per l’occasione, abbiamo rivolto a Danio Manfredini alcune domande.

Vorrei partire da una tua affermazione, quando dici che la creazione drammaturgica non è un atto di volontà ma un atto di ascolto. Ce ne vuoi parlare più in dettaglio?

D.M.: Certamente, per quel che riguarda la mia esperienza personale, intendo per drammaturgia innanzitutto la concezione strutturale dell’opera. A me, in genere, appaiono prima dei dettagli, delle punte dell’iceberg, direi pezzi di scene, frammenti di testi, immagini. Hanno a che fare con il mondo al quale sto cercando di dare forma. Una volta tracciato il fiume in cui far confluire le cose (parole, immagini, scene…) inizia il lavoro di composizione, che segue un flusso un po’ istintivo. In questo senso parlo della necessità di ascolto e dove naturalmente le cose trovano il loro posto.

Nonostante possa arrivare in sala prove con parole e suggestioni varie, è il momento della prova in campo che comincia a dettare un ordine, sia che si tratti di un assolo, sia che lavori con altri attori, è la loro presenza che aiuta a trovare come infilare le cose. È sulla scena che compongo veramente il testo, anche se le parole sono state scritte prima, solo alla fine delle prove il copione ha preso forma e si può apprendere la partitura scenica.

Veniamo ora al laboratorio che condurrai a Castello d’Argile: come si struttura e si articola un percorso sulla ricerca delle possibilità espressive dell’attore? Quali le premesse da cui partire e i risultati a cui tendere?

D.M.: Lo stage contempla alcuni elementi di base di training fisico, che aiutano l’attore ad addentrarsi nella condizione fisica che più aiutare ad affrontare con sensibilità il lavoro teatrale. Contempla inoltre esercizi di lavoro vocale che dispongono la voce ad una buona resa scenica. La parte di recitazione viene affrontata a partire da scene che suggerisco dal repertorio teatrale classico e contemporaneo, che toccano diversi stili, dal naturalismo al lirismo, al linguaggio epico o espressionista. Conduco l’attore nella struttura delle azioni che vivono insieme al testo, per organizzare una pratica, una palestra di allenamento sui diversi stili di recitazione.

Quali le discipline e gli strumenti sui quali lavorare per potenziare l’espressività dell’attore? Si parte sempre dal testo?

D.M.: Dico sempre che il testo è una pennellata del quadro e insieme ad esso vivono anche gli altri aspetti: abitare il luogo in cui si svolge la scena, la circostanza, la sensibilità fisica, vocale, sensoriale dell’attore, la memoria emotiva che mette a disposizione dei personaggi, restano per me aspetti che continuo a considerare quando parlo del lavoro dell’attore.

A proposito del testo, nel laboratorio dedicato alla possibilità espressiva dell’attore, c’è una rosa di opere di autori che saranno affrontati e vanno dal repertorio classico a quello contemporaneo. Perché la scelta di quei testi in particolare?

D.M.: Queste sono alcune delle scene che ho avuto modo di approfondire nel corso del percorso pedagogico e mi attengo a quelle, perché il tempo che abbiamo a disposizione sono pochi giorni e per poter dare delle indicazioni chiare agli allievi, devo conoscere bene l’opera e la scena che segnalo, per condurre l’attore nel mondo dell’autore che stiamo affrontando.

A proposito di Genet ne approfitto per chiederti di Divine, l’opera che porti in scena al Teatro Alice Zeppilli di Pieve di Cento, liberamente ispirata a Nostra Signora dei Fiori-Miracolo della rosa. Dagli anni’90 in cui hai iniziato a scriverla, è cambiato anche il tuo modo di sentire quest’opera e di proporla al pubblico

D.M.: La versione del testo che propongo in Divine come lettura sui disegni, l’ho composta nel 2016. Negli ultimi anni ho avuto modo di presentarla davanti al pubblico con più frequenza. Questo contribuisce, credo, ad una interpretazione più matura. È vero che il romanzo di Jean Genet ha ispirato Cinema Cielo con le stesse parole. Ogni volta che mi addentro nell’opera ho come prima domanda: come risuona in me oggi questo mondo? Mi rendo conto che continua a risuonare, a partire dal fatto che nel frattempo, la vita mi ha fatto incontrare diverse forme che hanno a che fare con l’argomento.

L’incontro con l’opera di Genet e in particolare Nostra signora dei fiori -Miracolo della rosa col quale hai vinto il tuo primo Premio Ubu. Con Genet sembri avere un legame indissolubile e al quale ritorni sempre.

D.M.: Ho incontrato la sua opera che ero un ragazzo in difficoltà e il suo modo di approcciare l’esistenza mi ha aiutato ad aprire un varco anche nella mia vita, personale e artistica. I soggetti che ha ritratto nelle sue opere hanno risuonato di frequente con soggetti che ho incontrato nella vita e che hanno a volte preso forma anche nella scena teatrale.

Ad Anna Amadori chiedo invece il perché il titolo “Attore, parola in via di scomparsa”.

A.A.: Vorrei che Agorà Formazione –  nell’ambito di Agorà/Stagione teatrale diretta da Alessandro Amato – diventasse un punto di riferimento per percorsi che mettano in contatto attori e attrici con una pratica di lavoro di cura e crescita autonoma del proprio potenziale – fondamenta di un’arte che è capacità creativa prima che interpretativa ed esecutiva.

L’attore è artista consapevole e libero, anche dentro la struttura di una regia. Il teatro è insieme antico e futuro: ora il lavoro dell’attore sembra soffocantemente legato ad un presente di occasioni e sopravvivenza e il teatro che vediamo ne propone una idea molto confusa, tesa nella forbice, da una parte, della espressività spontanea e, dall’altra, della tecnica funzionale a progetti produttivi siano essi teatrali, televisivi o cinematografici. Il presente di un attore è spesso un lavoro da fare male e in fretta seguendo logiche forse economiche, nel migliore dei casi, ma mai artistiche.

La parola arte implica studio, pratica, allenamento, immaginazione, intelligenza, tutte parole in disuso come sembra in disuso ormai l’attore inteso nel più alto dei sensi. Ecco, questo spiega il titolo Attore, parola in via di scomparsa mentre la presenza di Danio ne dà ragione: partecipare al suo laboratorio significa approcciarsi all’arte dell’attore con la complessità e la cura di cui quest’arte ha bisogno per essere tale.