Bernini, il potere e la seduzione dell’ellisse

Bernini, il potere e la seduzione dell’ellisse

Bernini e il suo rapporto con il potere, la sua teatralità e la sua arte, figlia del ‘600, secolo per eccellenza dell’oscillazione ellittica, capace di trascinare la prospettiva fuori dal suo centro e sdoppiarla, in grado di parlare all’uomo di una duplicità da cui imparare a guardare a se stesso e al mondo. Lettere a Bernini, monologo del regista Marco Martinelli, dato alle stampe per Einaudi a novembre e in scena al Teatro Rasi di Ravenna dal 3 al 15 dicembre, racchiude in poche decine di pagine temi cari al regista, regalando però al pubblico che segue il Teatro delle Albe aspetti inediti della sua produzione drammaturgica.

Innanzitutto un testo pubblicato, per la prima volta, prima delle prove e quindi diverso rispetto alla versione andata in scena, che risente inevitabilmente della entelechia scaturita dal rapporto col testo dal vivo, sul palco. 

In secondo luogo la sua genesi, raccontata dallo stesso regista all’incontro del 7 dicembre scorso al Rasi di Ravenna con Mauro Bersani, consulente per la casa editrice torinese. Lettere a Bernini prende infatti le mosse nel 2015 con la visita di Martinelli, insieme ad Ermanna Montanari (co-ideatrice dello spettacolo), nella chiesa di San Carlino alle Quattro Fontane a Roma, progettata da Francesco Borromini, rivale di Bernini. 

Un edificio considerato tra i capolavori dell’architettura barocca, che “pur con le sue piccole dimensioni, costringe l’osservatore a guardare in alto, verso la volta, aprendosi così verso il mistero in cui siamo immersi”. 

Il regista, affascinato, decide di approfondire la conoscenza attraverso una considerevole quantità di letture che tuttavia lo conducono, paradossalmente, proprio verso Gian Lorenzo Bernini, l’acerrimo nemico di Borromini. 

Due geni e due personalità antitetiche. L’uno arrogante, dispotico, scaltro e capace di ingraziarsi le simpatie dei potenti, in grado di sopravvivere a cinque papi e di procurarsi le loro commissioni. L’altro introverso, triste,  insofferente alle regole dell’architettura e morto suicida. 

Un testo, quindi, partito esso stesso da una polarità, da un’oscillazione che interroga l’artista su quanto sia disposto a vendersi per potersi esprimere. 

Così, se all’inizio, racconta Martinelli, avevo pensato ad un dialogo tra i due, poi Bernini, come un vampiro, ha reclamato in modo prepotente lo spazio. Perché è accaduto? Perché Bernini è il teatro stesso. Eccolo quindi sul palco, interpretato dall’attore Marco Cacciola, che con una straordinaria padronanza vocale e scenica, dà voce al Bernini corrotto e venale, che si vanta della propria sfrontatezza e sbeffeggia il Borromini paragonandolo a un corvo. Frasi brevi, dal tono concitato, che alternano il colorito dialetto napoletano alla lingua italiana, che si susseguono ad un ritmo serrato e incalzante, senza stacchi predisposti. 

Una scelta, come Bersani ha evidenziato, che richiama il Pasticciaccio di Gadda, altra opera in cui è evidente “come l’oscillazione di questi due fuochi, il dialetto e l’italiano, si adatti in modo particolare al teatro che non dà risposte, ma serve a causare incidenti di percorso tra due posizioni possibili”. Lo stesso monologo conosce frequenti intervalli in cui si inserisce un narratore esterno, che racconta gli avvenimenti in terza persona, in quella che Bersani ha definito amalgama polifonico. Forse Bernini stesso, depurato dall’acredine della sua invettiva contro l’intagliatrice di pietre che lo cita davanti ai cardinali per non essere stata retribuita equamente. 

Il lettore/spettatore è quindi  di fronte al Bernini furioso che tormenta il suo modello di undici anni, preso dalla strada per posare come angelo con la corona di spine, che impreca contro San Carlino, che definisce cuillon il sovrintendente Colbert, che si vanta di saper stare al mondo, che “parla e disegna (… ) veloce come una lucertola”. Ma emerge anche un altro Bernini, mentre parla della sua lotta per rendere molle la pietra, per farla diventare carne viva, del suo rovello per giungere ogni volta a catturare la luce. Per poi finalmente riconoscere la grandezza di Borromini, col suo “cielo di cerchi e croci di stucco”, quando viene a sapere che è morto. 

In questa trascinante traiettoria ellittica, le prove del Coviello, farsa pensata dal Bernini per Sua Santità, in un inquietante spostamento dal Barocco all’età contemporanea, in cui Cacciola-Bernini apre le gigantesche ante delle scatole di legno sul palco e compaiono le immagini video del concerto che Wilhelm Furtwängler diresse nel 1942 alla fabbrica dell’AEG in Germania, in pieno delirio hitleriano. La musica è di Wagner, gli operai guardano Bernini, sulle immagini la scritta in latino Hoc theatrum hic labor est (“questo teatro è qui per lavorare”), forse proprio questo l’incidente tra le due visioni possibili su cui la drammaturgia di Martinelli vuole richiamare l’attenzione.

Lenz Fondazione, verso una nuova e divergente Rivelazione

Lenz Fondazione, verso una nuova e divergente Rivelazione

Fondata a Parma nel 2015 da Maria Federica Maestri, compositrice teatrale e artista visiva e dal dramaturg e artista visivo Francesco Pititto, Fondazione Lenz emerge nel panorama della produzione e creazione teatrale contemporanea come una realtà tra le più poliedriche e complesse, in grado di unire le performance multidisciplinari al pensiero ecologico e filosofico, ma soprattutto di ripensare l’arte visuale in una fitta rete di relazioni ontologiche con il mondo della natura, della cultura e della psiche. 

Riparazione e rigenerazione sono due concetti chiave con i quali il lavoro di Lenz, affiancandosi a quello delle associazioni ambientaliste, sta portando avanti la teatro-azione tesa a re-immaginarsi la natura antecedente al disumano processo di urbanizzazione degli ultimi secoli. A dare vita ad un’ecologia profonda che investa il pensiero stesso e la percezione di sé come parte di un tutto, di una molteplicità da cui l’essere umano è inseparabile e di cui non ha più memoria, a causa della sua visione antropocentrica. 
Riflessioni che riprendono il pensiero poetico-filosofico di Friedrich Hölderlin e di Jakob Lenz per quanto riguarda il rapporto tra uomo e natura, ma anche dello psicanalista di stampo junghiano James Hillman, scomparso nel 2011, tra i teorici della visione immaginale.

Di seguito l’intervista a Maestri e Pititto, a pochi giorni dalle Apocalissi Gnostiche, in scena dal 25 al 31 ottobre scorsi a Parma, negli spazi di Lenz Teatro e dopo la presentazione, nel marzo scorso, del progetto Haiku – Dove prima era Aria, poi riproposto a settembre, nell’ambito di Insolito Festival. 

Partiamo dal vostro progetto Haiku- Dove prima era Aria che è parte di un progetto pluriennale. Come è nato e che cosa rappresenta in questo preciso momento per la vostra ricerca artistica?

Il pensiero performativo di Haiku_Dove prima era Bosco|Acqua| Aria|Roccia interpreta artisticamente i presupposti politico-culturali delle associazioni ambientaliste per potenziare le azioni pratiche di ripristino della natura su larga scala. Il progetto tende a re-immaginare la natura scomparsa nelle città e a restaurare la memoria dell’ambiente perduto, attraverso la potenza di versi brevi secondo la formula giapponese dell’haiku dedicati alla sacralità dell’esistenza nel ri-vivente animale e vegetale. 

Come dice Danilo Selvaggi, Direttore generale Lipu – Bird Life Italia e Coordinatore Policy, Ecologia della cultura: “Abbiamo bisogno di due grandi opere di rigenerazione: quella della natura, che è stata progressivamente impoverita dall’avanzare dell’urbanizzazione, e quella della cultura, che deve riscrivere il proprio alfabeto ecologico con nuove consapevolezze scientifiche e morali. Anche per questo il contributo di Lenz è prezioso: ci aiuta a guardare la realtà con occhi diversi, sorpresi, non abitudinari, il che in molti sensi è già un esercizio ecologico”.

“La poesia in atto agisce secondo il principio della riparazione: il danno che l’uomo ha provocato nella natura non si limita infatti alla distruzione effettiva dell’ambiente, ma intacca la capacità stessa di saperci/sentirci nel tutto, parte di una cosmogonia plurale: esseri nel molteplice. Quindi la rigenerazione dovrà essere duplice: riparare la perdita e ricostruire ciò che abbiamo perduto ‘fuori’ e ‘dentro’.”

Installazione, performance, arte visuale, drammaturgia, pensiero ecologico e filosofico: in che modo si sviluppa la vostra ricerca in cui co-esistono e si incrociano molteplici prospettive? Qual è il punto di partenza e quale il momento in cui avete consapevolezza di aver raggiunto una sintesi tra tutti questi differenti sguardi?

In una convergenza estetica tra fedeltà esegetica alla parola del testo, radicalità visiva della creazione filmica, originalità ed estremismo concettuale dell’installazione artistica, le opere di Lenz riscrivono in segni visionari tensioni filosofiche e inquietudini estetiche del presente. Illuminati fin dagli inizi del nostro percorso artistico dal pensiero poetico-filosofico di Friedrich Hölderlin e di Jakob Lenz abbiamo sempre sentito che non possiamo prescindere dall’unità tra uomo e natura, una fusione profonda con la radice da cui veniamo, liquida, magmatica, ibrida, ctonia. Ce ne siamo allontanati ed è per questo che stiamo morendo, che siamo irreparabilmente malati. Ma aspettando la fine “continuiamo a gridare fino all’esaurimento impossibile dell’eternità immensa”.

Il concetto di imagoturgia e il modo in cui si inserisce nella vostra pratica drammaturgica e performativa.

Dagli inizi del Duemila la ricerca plastica e visuale diventa centrale nel nostro processo creativo: la partitura attoriale si incunea tra la scrittura per immagini e la re-invenzione materica dello spazio, che eccede i limiti funzionali dell’impianto scenografico per farsi opera artistica non subordinata all’azione performativa. Dagli anni Dieci il lavoro è caratterizzato da una più ampia e articolata azione installativa che ci porta a creare, in stretto dialogo con le imagoturgie di Francesco Pititto e il disegno sonoro di diversi musicisti della scena elettronica internazionale ambienti performativi e visuali site-specific in importanti complessi architettonici e monumentali. 

Rimangono sempre sopra ogni cosa, ogni atto, ogni fatto sempre le stesse domande: perché fare, perché per-formare, perché teatr-agire, a quale fine, superato ogni intento comico-tragico delle più svariate forme della finzione, ricercare infine quel che dovrebbe essere sinceramente la verità vera; il mondo come io lo vivo e vedo? Serve un corpo altrui per svelarmi il mio interno? il mio esterno mondo? Anche se io sono cieco io vedo di dentro, immagino e creo il mio mondo fuori. Movimento empatico non verso l’altro ma con l’altro. Sono immagini quelle che vediamo, ogni istante immagini che si fanno toccare, intoccabili e irreali, ma anche al tocco una pietra è sempre, prima, una pietra-immagine. 

Tra l’Io e il mondo il dialogo è per immagini, e anche oltre, nell’inconscio di un sogno, nel delirio di una patologia, di un rito sciamanico, di un haiku 7+5+7 sillabe poi immagini, la Natura e il pensiero. Ma immaginare per dare uno scopo al fare forse non è abbastanza, fare altre immagini-pensiero, immagine_emozione, riflessi e rifrazioni, immaginazione al potere per il tempo del per-formare. Ma non è sufficiente, forse creare realtà dal fare immagine, ma quale immagine? Immaginarsi l’utopia, una realtà che verrà mai? Divisa dal nostro tempo interiore che la desidera adesso e non domani? 

L’immaginazione non è soltanto pensiero ma il luogo dove abitano insieme la realtà esterna, concreta e tangibile, e la realtà interna, invisibile e intangibile. L’immaginazione è il tramite tra le due, comunicano tra loro. E comunicare forse non basta, serve il fare nel suo habitat. Un luogo originario, quello del cuore e del pensiero insieme. Dove si fa l’anima. 

“Nelle tradizioni sapienziali e spirituali antiche l’anima selvaggia, l’io istintuale, si esprime nell’immaginale o “liminale” la zona tra inconscio e conscio dove immaginazione e realtà operano congiuntamente. In questo “luogo”, che è un non luogo, troviamo i simboli e gli archetipi, che sono le forme dell’esperienza umana…Prende le sue radici dalle tradizioni spirituali, i rituali sciamanici delle tribù animiste, la mitologia greca, l’arte, la letteratura, la poesia, l’ecologia profonda. Capacità di stimolare una percezione differente degli eventi, considerando la realtà come una proiezione della propria psiche e trovando in se stessi le risorse per agire costruttivamente su questa. Quindi utilizzare un approccio immaginale significa, in primis, lavorare con le immagini.” (Rifrazioni da Mundus Imaginalis, o l’Immaginario e l’Immaginale di Henry Corbin e James Hillman). 

Lavorare con le immagini dentro se stessi per cambiare lo stato di cose fuori, di ognuno e per ognuno. Nello stato di rappresentazione del Sé, nel tempo performativo, l’agente artistico può tendere a vivere una realtà ricreata in un tempo percepito che non corrisponde al tempo codificato. E, rifratta, farcela vivere. Ogni capitolo creativo di Lenz pone al centro queste questioni fondamentali per l’arte teatrale, coinvolge persone artistiche per le quali cambiare lo stato di cose diventa l’opera più compiuta, o incompiuta ma sempre permanentemente in costruzione. L’utopia è capovolta, il Potere è all’Immaginale.

Il rapporto tra spazio naturale e testo, con particolare riferimento alla poetica di Pier Luigi Bacchini e alla sua influenza nella vostra pratica drammaturgica.

In Haiku_Dove Prima Era scorrono in un flusso pulsante le liriche di Emily Dickinson, Rainer Maria Rilke, Ingeborg Bachmann, Ezra Pound, Antonia Pozzi, Friedrich Hölderlin, Patrizia Cavalli, Marina Cvetaeva, e naturalmente le poesie di Pier Luigi Bacchini, poeta parmigiano scomparso nel 2014, autore amatissimo a cui Lenz ha dedicato dal 1996 al 2015 numerose e vibranti letture sceniche curate dal dramaturg e artista visuale Francesco Pititto.

E a proposito del progetto triennale Natura dèi Teatri, teso verso l’ibridazione di materia filosofica, scientifica e artistica? Questa contaminazione ha sempre fatto parte del vostro percorso?

La drammaturgia del nostro primo lavoro del 1986 Lenz da Büchner, si apriva con una lunga citazione dal De Rerum Natura di Lucrezio, ma conteneva anche un frammento dell’Apocalisse. Quindi fin dall’inizio abbiamo sentito necessaria una duplice visione: quella della visione scientifica del mondo, dell’universo, dell’infinitamente piccolo che contiene il tutto e quella del mistero, del sacro, dell’ignoto, dell’inspiegabile, di cui si nutre l’atto artistico.

Delle vostre passate esperienze nelle Associazioni Culturali Lenz Rifrazioni e Natura Dèi Teatri cosa avete conservato e cosa avete rielaborato/trasformato o abbandonato?

Nella Fondazione si sono fuse le due anime, quella creativa e produttiva di Lenz Rifrazioni e quella dialogica di Natura Dèi Teatri, confluita nel progetto Parentele_Femminile_Animale portato avanti nello scorso triennio. Si sono stretti i legami con un’area molto interessante del panorama italiano, interpretata da artiste dallo sguardo aperto, autentiche, dalla forte identità linguistica.

Apocalissi Gnostiche chiude il progetto sulle Sacre Scritture. Come siete giunti ad interrogare  i Codici di Nag Hammadi?

Dopo La Creazione (2021), Numeri (2022) e Apocalisse (2023), Apocalissi Gnostiche prosegue la nostra ricerca sulle scritture del sacro e apocalittiche, dando corpo scenico ad alcuni Codici di Nag Hammadi, un antico tesoro testuale di recente e casuale ritrovamento (Egitto, 1945), costruito con sequenze narrative oscure e lampeggianti, denso di immagini criptiche, radicali e brucianti, che indicano strade ignote per arrivare alla nuova conoscenza. La ragione della ricerca di Lenz nelle pieghe dei codici gnostici, la cui datazione risale al I e II secolo dopo Cristo, sta nel bisogno di essere narrati da una diversa apocalittica – così già processata dalla storia passata e presente – di essere ‘illuminati’ da una nuova e divergente Rivelazione. 
Le Apocalissi Gnostiche annunciano con parole-immagine l’avvento di un’altra sapienza umana_non-umana, senza età, senza ordine, senza volontà, una Sophia che ci invita a percorrere la via del paradosso linguistico per tornare alla radice ed essere guidati nelle tempeste della materia del presente da una ‘femmina nata dalla femmina’.

Progetti futuri?

Un nuovo progetto pluriennale sulla violenza con un lavoro anatomico sull’Iliade, come il primo grande libro dell’Occidente che trascrive poeticamente i temi quali il conflitto, la prevaricazione, la violenza, l’empietà, affiancati in questa indagine dal pensiero di Hannah Arendt e Simone Weil. Parallelamente a questa ricerca drammaturgica e proseguendo il lavoro iniziato nel 2024 con Gina Pane, ci avventureremo, sempre nei prossimi tre anni, nella ri-trascrizione performativa delle opere di alcune artiste fondamentali per il nostro percorso estetico: Leonora Carrington, Marisa Merz di cui ricorrono nel 2026 i 100 anni dalla nascita e la grandissima Louise Bourgeois

Nephesh, dialogo tra l’uomo e la sua ombra

Nephesh, dialogo tra l’uomo e la sua ombra

Una città nella città, il Cimitero Monumentale di Ravenna, in cui ha debuttato il 7 ottobre Nephesh-proteggere l’ombra, ideato e diretto da Alessandro Renda, evento conclusivo del prologo alla Stagione dei Teatri 2024-2025. Uno spazio arcano e una soglia da oltrepassare come individui e come comunità. Guidati, attraverso gli auricolari che gli spettatori sono invitati a indossare, dalle parole del testo che Renda ha scritto a quattro mani insieme a Tahar Lamri. Sono infatti Renda e Lamri, insieme a Gemma Hansson Carbone, a dar voce alle domande sul significato della morte, sul modo in cui si elabora un lutto, soprattutto quello di una persona scomparsa prematuramente, su come la morte influenzi il nostro linguaggio. Ma anche su temi molto più concreti e prosaici dell’impatto ambientale che lascerà il nostro corpo, una volta morto, a seconda della scelta tra sepoltura, cremazione o compostaggio umano.

Un dialogo tra l’uomo e la sua ombra, che passa attraverso un complesso e raffinato apparato sonoro, creato da Francesco Tedde, che spazia dalle disturbanti cacofonie ai suoni limpidi e cristallini dell’acqua che sgorga, dalla malinconica Passacaglia della vita al rumore delle ruspe fino al suono nero avvertito all’avvicinarsi di un terremoto. Una sonorità vivida, metallica o sinuosa a seconda del momento, perfettamente incastonata nella narrazione e al tempo stesso autosufficiente in ogni suo singolo segmento.

Questa singolare esperienza sensoriale col quale ogni sera, dal 7 al 20 ottobre, a partire dalle 17, Renda-Lamri accompagnano un pubblico ristretto di 20 persone per volta, sembra volerci trasmettere l’idea che il Cimitero abbia un suo legame vitale, a più livelli, con le persone, la città e il territorio. Molto infatti concorre a percepire il cimitero come rappresentazione, “teatro immobile in cui i defunti sono gli attori che vengono agiti”. Visitati, gratificati con doni floreali, ricordati, pianti, interrogati. La loro vita, sembra dirci Renda, non è cessata, ma passata su un piano diverso da quello sensibile, non per questo meno autentico.

Il cimitero, costruito nel 1817 sulle rive del canale Candiano ed edificato, nella parte monumentale sullo stile delle certose lombarde nel 1878, dall’ingegnere Romolo Conti, è disposto su vari piani. Con i monumenti funebri, le ricercate decorazioni e i raffinati addobbi floreali della parte superiore dove si trovano i personaggi celebri che vi sono sepolti: Corrado Ricci, Luigi Rasi, Filippo Mordani, Francesco Negri. Mentre gli oscuri anfratti delle tombe sotterranee, che vengono visitate nella seconda parte della passeggiata, in una sorta di pellegrinaggio onirico, procedendo lentamente e illuminati dalla luce fioca dei fiammiferi, riportano al tema della morte legato all’oscurità, alla stagnazione, all’oblio.

Tra l’uno e l’altro, però, il lungo e articolato tragitto nel bios del cimitero oggi: la sovrapposizione stratigrafica del terreno, gli stili architettonici, le incisioni, le foto, le sculture, i materiali usati, i diversi tipi di sepoltura, i terreni ancora incolti, le tombe dei caduti in guerra, il paesaggio austero attraversato da mausolei e imponenti tombe di famiglia.

Quando, attraverso una scalinata, il pubblico raggiunge lo spazio dell’ossario, agli spettatori viene chiesto di  prelevare ciascuno un biglietto da un contenitore. Ogni foglietto arrotolato contiene la breve biografia di un defunto e una sua immagine: ad esempio, un soldato francese caduto durante la prima guerra mondiale, uno scienziato squilibrato alla ricerca dell’elisir dell’eterna giovinezza, deceduto dopo essersi iniettato il sangue di un giovane malato di tubercolosi; un illusionista, Tommy Cooper, morto di collasso durante un suo spettacolo, solo che lo spettacolo era talmente comico che il pubblico non si è accorto che era morto sul serio. Queste e tante altre piccole perle biografiche, alcune tragiche, altre umoristiche coi quali il pubblico spezza la tensione e sorride.

Diversi anche i momenti tattili-olfattivi durante il percorso: toccare la pietra, aprire il tappo di una bottiglietta da cui si sprigiona odore di sapone e lavanda, prendere un fiore dalle mani del regista e scegliere a chi donarlo tra il pubblico. Non sono mancati i momenti di commozione ed empatia, ascoltando le parole sulla morte Elisabetta, la figlia quattordicenne di Renda e il senso di rabbia e di ingiustizia che lo ha accompagnato per tanto tempo. Ǎgape e Thanatos. Nephesh-Proteggere l’ombra è una co-produzione Teatro delle Albe-Ravenna Teatro, patrocinato dal Comune di Ravenna e in collaborazione con Marco Turchetti e Azimut-Servizi Cimiteriali, che ha commissionato l’opera per sensibilizzare le persone sulla possibilità di vivere il luogo del cimitero non solo come deputato alla memoria ma anche come luogo di arte, cultura e identità collettiva.

Eugenio Sideri, la corsa, la drammaturgia e l’oltraggio

Eugenio Sideri, la corsa, la drammaturgia e l’oltraggio

A un anno dal debutto a Cà Tiepolo, in provincia di Rovigo, Olmo. Io corro per vendetta, monologo interpretato da Enrico Caravita scritto e diretto da Eugenio Sideri, torna a calcare le scene il prossimo 14 settembre, questa volta sulla riviera romagnola. Ispirato al campione della corsa ultra trail Marco Olmo, atleta protagonista di sfide estreme quali  la Marathon des Sable con 230 km nel deserto marocchino, la Desert Cup di 168 km in quello giordano e la Desert Marathon in territorio libico. Ma anche della competizione sul Monte Sinai e in Martinica, per affrontare successivamente la corsa nel deserto della California e diventare campione del mondo a 58 anni nel 2006 vincendo negli oltre 165 km nell’Ultra Trail du Mont Blanc in Europa.

 Una vita spinta sull’acceleratore, non solo per il brivido dell’avventura ma anche per un desiderio di riscatto esistenziale e di vita intensa, vissuta sempre fino in fondo. Poi, due anni fa, il suo incontro con il regista e drammaturgo Sideri, fondatore di Lady Godiva Teatro a Ravenna, che già con Inizia per A nel 2012, aveva portato a teatro la vita di Alfonsina Strada, prima donna a correre in bici in Romagna, in un periodo ancora pieno di pregiudizi e divieti. È nato così il monologo dedicato all’ultramaratoneta in cui la corsa e le sfide estreme sono metafora della vita e delle scelte radicali che questa può spingere a compiere, oltraggiose, per riprendere appunto un termine caro a Sideri.

Come è nato il monologo dedicato al campione di ultratrail Marco Olmo e quando lo hai conosciuto cosa ti ha colpito di lui?

Il monologo nasce da una suggestione di Alberto Marchesani, che è un runner di ultra trail e inventore dell’Epica dell’Acqua, una 100 km non competitiva che attraversa i suggestivi paesaggi del Delta del Po.

Ci conosciamo da tempo e, casualmente, parlando di alcuni protagonisti solitari delle mie storie (Alfonsina Strada, Filottete, ad esempio) una sera mi ha detto: “Ma tu la conosci la storia di Marco Olmo? Secondo me potresti farne uno spettacolo”. Questo succedeva quasi due anni fa. E la faccenda poteva finire lì… tante volte incontro persone che mi propongono personaggi e storie che potrebbero diventare narrazioni a teatro o spettacoli veri e propri… in fondo era capitato così con Patrizia Bollini, quando mi aveva parlato, nel 2012, per la prima volta, di Alfonsina Strada (e da allora raccontiamo la sua storia in giro per l’Italia e pure all’estero, con lo spettacolo Finisce per A).

Mi sono incuriosito. Ma chi sono, mi dicevo, questi matti che fanno ‘ste cose da matti”? E così Alberto mi ha prestato un paio di libri di Olmo. Ma solo dopo alcuni mesi li ho letti velocemente. E mi sono sembrati un po’ noiosi. Mi sembrava un mondo di persone davvero particolari (mi riferisco al mondo dell’ultra trail) … gente che sfida se stessa e il destino in condizioni climatiche assurde, dai ghiacci ai deserti con cibo e acqua razionate, in gare in cui i compensi sono coppe, medaglie e basta! Non mi sembrava materiale abbastanza interessante per scriverne uno spettacolo. C’era qualcosa che non capivo: al di là delle imprese sportive, che comunque appartengono ad una nicchia (seppur relativamente ampia) di sportivi, a chi potrebbe interessare la vicenda di un uomo che ha corso intorno al Monte Bianco per 167 km? E ha vinto, quella corsa a 57 anni, appunto la Ultra Trail Mont Blanc, davanti a sportivi allenati e preparati e più giovani, provenienti da tutto il mondo? Qualcosa non mi tornava e così ci siamo nuovamente incontrati con Alberto, a cena. Stavolta è scattata la molla: mi stava raccontando una corsa che lui stesso aveva fatto tra i ghiacci islandesi e a un certo punto ho visto nei suoi occhi la sconfitta e la rivincita, occhi lucidi che mi raccontavano di come ci si possa sentire sconfitti dalla natura, dagli eventi, dalle cose che ci succedono nella vita. E magari sono proprio quelle situazioni o parole o cose che ti sono successe alle elementari o da adolescenti o al lavoro, a scuola, magari quella ragazza che ti ha rifiutato, quell’amico che ti ha umiliato, quel capo che ti ha licenziato o semplicemente tu stesso che la sera, prima di andare a letto, ti guardi allo specchio e vedi il vuoto, che un altro giorno è trascorso inutilmente… Ecco, mentre mi raccontava questo, ho pensato a quante volte poteva essere successo anche a me e quanto siano stati importanti il teatro e la scrittura quasi anche a strumento di riscossa, di rivincita. È scattata la molla, dicevo: in quella chiacchierata ho intuito, credo, che c’era una storia che meritava di essere raccontata e che non era semplicemente una storia sportiva, ma qualcosa di più….

Da un anno porti in scena questo monologo. Che tipo di pubblico attrae?

Abbiamo recitato all’Epica dell’Acqua, al debutto, a Cà Tiepolo, nella cornice della splendida isola di Albarella, tra acque, canneti, casoni di pescatori e una natura che pare ancora incontaminata. Il pubblico erano i runners che stavano correndo le tre tappe di 100k in totale, completamente immersi nella Delta del Po… e tra il pubblico c’era Olmo in persona! Eravamo emozionatissimi! Alla fine, mentre il pubblico dei runners ci applaudiva entusiasta, Olmo è venuto in scena ad abbracciarci! È stata un’emozione incredibile! Era un pubblico di corridori, appunto, che conosceva benissimo Olmo e le sue imprese. Poi siamo stati in carcere, con i detenuti che ci guardavano sorpresi, un po’ forse perché disabituati al teatro, ma soprattutto increduli che un uomo potesse compiere imprese così e forse qualcuno si è un po’ ritrovato, vedendo le proprie sconfitte e cercando la forza per la rivincita. Poi i festival teatrali, con pubblico “teatrale”, che ha accolto commosso lo spettacolo, dandoci molta soddisfazione. Pubblici diversi, di vario tipo, in cui ciascuno trova, nella storia di Olmo, la sua personale storia, anche se non ha mai corso un passo…

In questo tuo lavoro, di riflesso, tu affronti anche il tema del tempo nelle sue declinazioni: quello legato alla corsa in sé, quindi al presente, al passato (al ricordo e al non detto), al tempo futuro come possibilità. In quale ti trovi più a tuo agio, nello scriverne?

Come dici tu, non c’è un tempo solo nella mia scrittura. Attraverso il tempo, in una corsa continua tra la memoria e il futuro, cavalcando il presente. È il presente del teatro che mi interessa, il suo farsi mentre succede, il suo hic et nunc: in quel presente che succede mentre si svolge la scena, ecco che avvengono le cose (azioni, fatti, racconti, emozioni, sorrisi, lacrime). È il tempo del teatro, che succede mentre si svolge lo spettacolo e che raccoglie tanti altri tempi, ma è come se ne disegnasse uno solo, mentre avviene. A me interessa quel tempo lì, sulla scena. Il resto è finzione.

Il tema della vendetta a cui si riferisce il titolo, invece, che ruolo gioca nell’avventura di Olmo?

È fondamentale. Ma non va intesa la vendetta come qualcosa di cattivo, di negativo, anzi. È la rivincita, la rivalsa, il trovare il proprio respiro, la propria strada verso ciò che ci rende compiuti, che ci fa sentire a posto con noi stessi. Ognuno ha la sua, ognuno corre la sua corsa.

In questo tuo lavoro dedicato a Olmo, l’attore Caravita cosa porta di se stesso e cosa porta di te sul palco (oltre al personaggio che interpreta)?

Enrico dice spesso che per lui l’attore è un corpo a prestito. Credo sia un’ottima definizione per rispondere. È compito dell’attore mantenere la propria verità per indossare il personaggio che non è mai altro da sé: è altro, ma sicuramente non finzione, almeno non nel senso che molti credono e che tanto teatro ha fatto credere. Partiamo sempre da noi stessi, da ciò che siamo, dalle nostre storie, dai nostri percorsi… è la verità che abbiamo addosso che ci fa indossare degli abiti diversi che, ognuno di noi, indossa a modo suo.

In questo caso Enrico è partito da un aspetto fisico: Olmo è molto alto, magrissimo, runner. Lui è più basso, robusto, pratica sport ma non la corsa. Ci siamo chiesti come avvicinarci ad Olmo, proprio sapendo la diversità e quasi subito è nato un gioco di dichiarazione d’intenti, metateatrale: “Ci vorrebbe che Marco Olmo venisse qui…”, questa la prima battuta dello spettacolo, una dichiarazione appunto d’intenti, in cui l’attore dichiaratamente afferma di non essere quel personaggio, di non assomigliargli, ma che ne racconterà le vicende come se fosse quel personaggio.

E poi la storia personale di Enrico, che ad un certo punto del suo percorso teatrale ha scelto di diventare un portuale (e lo è tuttora), per vari motivi, tra cui la sicurezza economica che il teatro non ti dà. Ha scelto la famiglia e ha scelto il teatro con la serietà e l’impegno di un vero professionista. Ecco, Marco Olmo, nella sua vita, era uno escavatorista, alla Unicem, un’azienda che produce cementi e calcestruzzi. Ha guidato, come operaio, l’escavatore per 30 anni. Enrico è partito da qui, dalla affinità con Olmo nell’essere, entrambi, operai e Olmo stesso, quando abbiamo chiacchierato, ha apprezzato molto la scelta di Enrico. Ha sentito l’affinità, l’empatia di avere cammini simili. Io stesso ho scavato nelle mie vendette, in quelle storie della vita che mi hanno dato e mi danno dolore. In particolare il mondo dell’adolescenza, il liceo, dove ho vissuto esperienza che mi hanno profondamente segnato.

L’avventura sportiva e umana di Marco Olmo che tu porti sul palco parla del rapporto dell’uomo con se stesso e i suoi limiti. Come sviluppare un monologo efficace che non cada nella retorica e nel già detto?

Non lo so… sinceramente non mi sono posto e non mi pongo queste domande, le considero un po’ dei falsi problemi. Mi spiego: da secoli, fin dai Greci, il teatro indaga sul rapporto dell’uomo con i suoi limiti. Il tempo passa e le opere si succedono, affrontando l’uomo sempre in relazione al tempo passato e ai nuovi presenti. Ognuno, credo, scrive e riscrive. Büchner diceva che “scriviamo sempre lo stesso libro”. Ecco, nel mio piccolo, anche io provo a scrivere il mio.

Olmo è una figura solitaria, che fa scelte estreme e, riprendendo una parola a te cara, oltraggiosa (perdonami, anche se è un uomo non ho resistito a fare questo accostamento). Oltraggiosi si nasce o si diventa secondo te?

Olmo è assolutamente oltraggioso, ci mancherebbe. Quando ho scelto questa parola per nominare il gruppo di adolescenti con cui lavoro da 5 anni (Le Oltraggiose, appunto) volevo proprio il significato antico del termine, quello di superare il limite imposto, da se stessi e dagli altri. Olmo, in questo senso, è davvero oltraggioso! Io credo che si possa nascere oltraggiosi e lo si possa però anche diventare. In ogni caso non basta un’indole ribelle, un desiderio, se vuoi anche innato, di rivalsa. Occorre coltivarlo, ampliarlo, portarlo a compimento nella vita stessa che attraversiamo. Voglio dire: posso anche essere arrabbiato con i limiti che la società impone, posso contestarli, fare rumore, ma non basta, occorre cercare una propria via, una strada per correre la propria corsa oltraggiosa e correrla tutta, fino a quando il respiro ci sosterrà. È spesso un percorso che si fa in solitaria e la solitudine fa paura. E non mi riferisco necessariamente a quella fisica, che comunque gioca il suo ruolo e la sua importanza, ma a quella mentale, di scegliere altri passi dentro a un sistema di cose dai sentieri già tracciati. Si tratta di impegno, costanza, determinazione e di obiettivi che scegliamo di porci. Ricordando che le vie, mentre le si percorre, a volte cambiano direzioni, ci portano altrove rispetto a quanto pensavamo, a volte tornano indietro. È una scelta forte e faticosa l’oltraggio. Sempre, comunque, in direzione ostinata e contraria.

Teatro-danza e yoga, un circuito di continue risonanze

Teatro-danza e yoga, un circuito di continue risonanze

Danzatrice, allieva di Monica Francia e di Masaki Iwana poco più che ventenne, oltre che collaboratrice di Silvia Rampelli, responsabile della compagnia Habillé d’Eau, creata da Iwana nel 1996. Ma anche assistente coreografa del regista Romeo Castellucci per il progetto Tragedia Endogonidia dal 2002 al 2007.

Classe 1975, laureata in Conservazione dei Beni Musicali, Francesca Proia unisce la passione per la danza e la coreografia alla pratica yogica intesa come ricerca poetica appoggiata sulle tecniche sottili di cui ci parla nell’intervista. I suoi lavori coreografici, l’ultimo dei quali How to grow a lotus, frutto di un percorso di ricerca condiviso con il Teatro delle Moire di Milano, sono stati fin dall’inizio connotati dal supporto concettuale e sensoriale dello yoga. Allo yoga sono dedicate peraltro diverse sue pubblicazioni, tra le quali ricordiamo Declinazioni yoga dell’immagine corporea, (Titivillus, 2011); La strada collettiva (Il Vicolo Editore,2015) oltre al debutto online nel 2016 con il progetto Mìnera, scuola di yoga in absentia; La cattura del respiro: Piccola guida yoga del signor Pranayama per le Edizioni del Girasole, nel 2017, e l’ultima, dal titolo Yoga – La composizione delle tecniche per una pratica viva, ed. Astrolabio Ubaldini, del 2022.

Partiamo dalla pratica yoga e dal suo rapporto con la danza e l’elemento coreografico e con quello teorico-filosofico. Come si sviluppa una performance abitata da così tante dimensioni? Qual è il tuo punto di partenza e quand’è che intuisci di essere arrivata a una sintesi? 

In questo momento sono molto interessata a indagare come la pratica di un gruppo di persone possa diventare performance/coreografia senza che i performer perdano l’intento interiore proprio dello yoga, il suo tipico permeare la coscienza. È necessario perciò creare strutture coreografiche che inquadrino in una poetica lo stato di vera concentrazione intensiva di chi è in scena. Bisogna lavorare per sottrazione, togliere proprio tutto ciò che visivamente colleghiamo allo yoga, ed è proprio questo l’aspetto stimolante. Sicuramente il respiro è, in questo senso, un mezzo fondamentale. L’aspetto teorico/filosofico è una dimensione ulteriore, i cui germi si sviluppano dalla pratica ma che poi evolvono in concetti in modo indipendente. Si tratta pur sempre di un pensiero connesso alla percezione intensiva che la pratica innesca, ma che continua a fruttificare, a stratificarsi, a complicarsi. Spesso queste elaborazioni tornano poi come una strana linfa a nutrire la pratica, in una sorta di circuito di continue risonanze.

L’esperienza dello yoga porta ad un’amplificazione della corporeità e della percezione. Questo aiuta anche la creazione artistica e la dimensione coreografica? Ci sono immagini o suggestioni nel tuo lavoro con lo yoga che hanno ispirato i lavori coreografici che porti in scena?

Certamente. Le immagini nutrono in modo costante il mio lavoro. Per esempio, l’insegnamento dello yoga per me passa attraverso la messa in vita di (l’offerta agli allievi/e di) una ghirlanda di immagini in grado di orientare l’esperienza che propongo ma facendo attenzione a non esaurirla: l’immagine deve essere più simile a un varco che a un quadro concluso. Ovviamente le immagini creano e supportano anche il lavoro coreografico: per esempio un mio assolo danzato, Qualcosa da Sala, era costruito a partire da quelle posture yoga in cui il corpo somiglia a un pugno chiuso ma, sempre, molte altre immagini fluiscono spontanee durante le prove e durante la danza, si impigliano nei gesti a suggerirne la possibilità di molti altri. Questo stato di ascolto alla potenziale ulteriorità infinita del gesto per me è fondamentale nella danza.

Pratica dello yoga e rappresentazione teatrale: qual è il loro rapporto? L’uno sembra richiamare uno sforzo di concentrazione e di ricerca sul sé, l’altro per sua natura non può prescindere dall’elemento della finzione. Qual è secondo te il loro terreno di incontro e di complementarietà?

Prima ancora che di finzione o di rappresentazione teatrale, in questo caso parlerei di struttura. Se c’è un’idea e c’è una struttura, allora abbiamo le condizioni affinché la materia viva dello yoga sia accolta entro un dispositivo teatrale e coerente con la visione e la percezione che il teatro richiede.

Altro rapporto importante tanto nel teatro-danza quanto nello yoga, è quello tra corpo, respiro e componente vocale. Ti chiedo sulla parte vocale, anche in relazione alla tua ricerca nell’ambito del centro Malagola di Ermanna Montanari ed Enrico Pitozzi.

Malagola è un bellissimo progetto, letteralmente un vivaio. Il respiro abita il corpo dalla testa ai piedi: fin sulla pelle se ne può percepire l’onda. Ogni respiro rinnova quella pulsazione primaria del corpo in rapporto allo spazio: l’alternarsi continuo di espansione e riposo/dissoluzione. Il respiro per gli indiani è il mantra originario, che se lo si ascolta suona so ham, ovvero io sono quello: io esisto ma sono pur sempre immerso in una trama generativa universale che mi ha emesso e che mi riassorbirà. La voce allora si origina da questa dinamica tra corpo e invisibile. A partire da questi presupposti, e pensando alla ricchezza delle tecniche yogiche che riguardano il respiro, la voce, l’ascolto, Ermanna ed Enrico mi hanno invitata a pensare per i ragazzi una strada che rendesse più percepibile il legame tra voce e “corpo sottile”. Il corpo sottile nello yoga è un concetto che indica la vita nelle sue espressioni invisibili. Abbiamo fatto un lavoro per sentire che la voce è a un tempo emanazione di tutto il corpo ed entità che addensa l’invisibile.

Cosa ci puoi raccontare della tua adesione, nel 2023, al progetto Scholé, una serie di proposte di studio sul corpo?

Scholé è una formazione di ricerca pura che coinvolge diversi docenti la cui poetica in qualche momento è entrata realmente in dialogo con l’anima del Teatro delle Moire, ovvero Attilio Nicoli Cristiani e Alessandra De Santis. Questo ha creato spontaneamente una scuola che è una comunità dinamica di ricercatori, sfaccettata ma risuonante. Ciascun docente porta i suoi temi e le sue pratiche ma nascono continui rimandi il cui merito va all’alchimia che Attilio e Alessandra hanno saputo predisporre. La formazione che porto avanti qui si chiama How to grow a lotus; si tratta di una serie di seminari sulla questione mai esauribile del corpo sulla scena: corpo come creazione che genera altra creazione ancora.

Il tipo di pratica teatrale che gravita intorno al pensiero filosofico orientale si propone di annullare il principio di individualità per giungere al principio del Tat tvam asi che porterebbe finalmente alla pace riconoscendo se stessi presenti in ogni forma di (apparente) alterità nel mondo vivente. Ti senti vicina a questo tipo di ricerca?

Di certo la scena induce una condizione permeabile, porosa, percettivamente unica. Non credo però che questo esaurisca la faccenda: c’è per esempio tutta la dimensione del rapimento, dell’ispirazione, del selvatico, e poi c’è la tecnica, che ha con l’ispirazione un rapporto misterioso e complesso. Penso che non sia possibile porsi in rapporto alla scena con un’attitudine troppo pacificata, o dominata da convinzioni troppo vincolanti.

Una considerazione infine sulla tua partecipazione, nei giorni scorsi, al Crisalide Forlì Festival di Gualdo con un’esperienza immersiva in un contesto naturalistico. 

Sarà una breve proposta, rivolta a tutto il pubblico, volta a indurre una maggiore disponibilità percettiva. Di certo la natura favorisce quella sensazione del sentire la risonanza delle cose nel proprio corpo. 

Quando hai iniziato la pratica yoga e quando la danza e la coreografia? Cosa ci puoi raccontare sulla tua formazione e quali sono stati i tuoi autori di riferimento per ciascun ambito?

Ho iniziato la danza e lo yoga nella primissima adolescenza. La pratica della coreografia è arrivata un po’ più tardi, intorno ai diciotto-vent’anni. Mi sono laureata in Conservazione dei Beni musicali e poi mi sono formata come insegnante di yoga a venticinque anni. In generale mi sono sempre spostata senza riserve per andare a incontrare i maestri il cui lavoro mi attraeva. Gli incontri importanti sono stati tanti ma non mi sono mai trovata nel desiderio di essere davvero, per lungo tempo, apprendista di qualcuno. Presto o tardi, anche nelle incertezze, ho sempre sentito che dovevo riprendere una strada mia. Sicuramente porto nel cuore il coreografo di danza butoh Masaki Iwana, per il quale sono stata danzatrice dai ventuno ai ventitré anni. Masaki univa in sé tanti aspetti contrapposti: una specie di  malinconia, finezza estetica, animalità, spirito; e poi Romeo Castellucci, che ritengo mi abbia insegnato a osare nella ricerca, a non risparmiarmi e a non avere paura di sbagliare né di non soddisfare aspettative, ma mi ha anche dato molto valore e questo mi ha aiutata a riconoscermi. Per lo yoga un mio riferimento sempre presente è il compositore e maestro di yoga Giacinto Scelsi.