La danza urbana di Futura

La danza urbana di Futura

Gruppo nanou, Tu Hoang e CollettivO CineticO hanno inaugurato la venticinquesima edizione del Festival Ammutinamenti, intitolato Futura.
Un titolo scelto, Futura, per unire il cammino fatto dagli anni ’90 a oggi. Un progetto che ha coinvolto oramai tre generazioni, con l’affrancamento della danza contemporanea dagli spazi tradizionali, portata nelle strade e nelle piazze, oltre che in luoghi inediti quali musei e siti archeologici, per fruirne in modo nuovo e modificare la percezione e la possibilità di vivere uno spazio pubblico.

La rassegna apre con la performance Arsura di gruppo nanou all’interno del Mar museo d’arte della città, in cui Rhuena Bracci, la danzatrice, si muove in fondo a uno dei corridoi della galleria del museo illuminato di rosso, e musicato con note ossessive e ridondanti, a sottolinearne lo stato di allerta insieme ai movimenti ripetitivi e gli spostamenti da una stanza ad un’altra. La lontananza dal pubblico presente accentua una vicinanza impossibile, una solitudine inesorabile.

A seguire, sempre al Mar, Congegno emotivo, curato dal gruppo Y e formato da un gruppo transgenerazionale, guidato in precedenza, attraverso pratiche corporee relazionali, a mettere in discussione il rapporto tra chi guarda e chi è guardato, a esplorare il rapporto di vicinanza sia con il contatto fisico che con quello visivo. Ciò che avviene durante il laboratorio agisce a livello sottile e inconscio, per gli adolescenti e danzatori (ma anche per il pubblico che lo desidera) avvolti in un rito iniziatico silenzioso che esplode in una finale danza liberatoria. 

Sul dualismo-corporeo vicinanza/allontanamento gioca anche lo spettacolo del vietnamnita Tu Hoang, primo premio al New Dance for Asia in Seoul, intitolato Trial su musiche di Loscil, in piazza San Francesco, insieme al danzatore Tuan Tran, in cui l’iniziale sincronia e armonia della danza iniziale si incrina, in un primo momento attraverso movimenti impercettibili, poi sempre più evidenti, fino alla differenziazione e alla scissione delle due identità. Spettacolo finale della prima giornata alle Artificerie Almagià con CollettivO CineticO, in prima regionale con Urutau Extintion Party, performance rituale partecipata, già in corso all’ingresso degli spettatori, in cui i danzatori si sfidano in una prova di resistenza a chi riesce a giacere immobile più a lungo.

Dedicato all’uccello sudamericano Urutau, che i Collettivo considera affine alla filosofia espressa nel suo Manifesto Cannibale, ne riprende l’immobilità, la mimetizzazione, la posa improbabile, per affermare la possibilità di evoluzione e di metamorfosi anche nella più completa stasi, la necessità di focalizzarsi sul singolo istante anziché sulla progressione temporale.

Promosso dall’associazione Cantieri Danza con il sostegno di Comune di Ravenna, Regione Emilia Romagna, Ministero per la Cultura e Fondazione Sabe per l’Arte.Il Festival Ammutinamenti prosegue fino al 16 settembre.

Andrea Argentieri, da Primo Levi a Charles Manson attraverso il teatro

Andrea Argentieri, da Primo Levi a Charles Manson attraverso il teatro

Vincitore del Premio Ubu 2019 come miglior interprete under 35 per lo spettacolo Se questo è Levi, diretto da Luigi De Angelis che ne intuisce le potenzialità interpretative e la sua capacità di lasciare spazio al personaggio e diventare un tramite attraverso il quale la testimonianza del superstite ai lager nazisti possa arrivare nel modo più corretto ma anche intenso al pubblico di ascoltatori.

Ma anche lo psicologo imbonitore Guglielmo Bonora e il dottore senza scrupoli di Docile, portato in scena con la compagnia Menoventi e un inedito Amleto accanto a Chiara Francini nei panni di Ofelia, nella versione ironica e drammaturgicamente innovativa della tragedia shakespeariana riscritta da Chiara Lagani e diretta sempre da Luigi De Angelis su testo di Berkoff.

Tutto questo è Andrea Argentieri, attore e performer impegnato tanto nel teatro civile quanto in quello di ricerca, che sta per cimentarsi ora in un’altra esperienza interpretativa impegnativa quale quella del criminale statunitense Charles Manson, nato nel 1934 e morto nel 2017, a capo di una setta chiamata Manson Family, ritenuto il mandante degli omicidi dell’attrice Sharon Tate, in attesa di un figlio, oltre che dell’eccidio di Cielo Drive, sontuoso quartiere di Los Angeles, avvenuti tra l’8 e il 10 nell’agosto 1969.

In occasione del debutto dello spettacolo, sempre insieme a Fanny&Alexander, previsto per la fine di settembre a Milano, lo abbiamo intervistato.

Hai interpretato Se questo è Levi e I sommersi e i salvati sul nazifascismo, diretto da Luigi de Angelis di Fanny & Alexander. Qual è stato il tuo approccio alla figura di Primo Levi e verso il teatro civile in generale nel tuo percorso artistico?

Se questo è Levi è una performance che ha segnato in modo incisivo il mio percorso artistico. Il mio approccio si è basato principalmente sull’osservazione e l’ascolto profondo di Primo Levi. Essendo la drammaturgia composta dalle pure interviste dello scrittore, proprio queste sono state il fulcro del mio lavoro, oltre ovviamente ad essermi nutrito dei suoi scritti parallelamente.

Il lavoro di squadra è stato prezioso, i Fanny & Alexander, Luigi De Angelis e Chiara Lagani, sono stati due guide fondamentali, ed è proprio da questa prima collaborazione con loro che ho capito di aver avuto la fortuna di incontrare un cantiere d’arte che corrispondesse alla mia poetica sulla scena, in questo caso legata a doppio filo con il teatro civile. Proprio grazie a questo spettacolo ho appreso quanto sia importante intraprendere un percorso che vada oltre la semplice interpretazione di un personaggio, per abbracciare una vera e propria missione. 

Ho capito quanto sia essenziale mettere a disposizione la mia voce e il mio corpo per storie che toccano la coscienza collettiva. Per usare un termine di Levi, cerco di essere come un’antenna che intercetta e riporta alla luce questioni che spesso vengono ignorate o dimenticate. È un vero e proprio viaggio fatto insieme al pubblico che mi mette in contatto con la mia vocazione in modo profondo e significativo, poiché esso permette a me e come ho potuto constatare anche al pubblico che assiste, di identificarsi e sentirsi parte di qualcosa di più grande.

Tu hai portato in scena Se questo è Levi, di recente, in Cina. Com’è il pubblico e che tipo di atteggiamento ha verso questo tipo di spettacolo? Cosa ti ha lasciato questa esperienza?

Il messaggio di Primo Levi è riuscito a raggiungere anche la Cina. I cinesi sono un popolo straordinario, molto curioso e molto attento. Abbiamo portato un’edizione speciale di Se questo è Levi ispirata ad una delle parti dell’intero progetto, dal titolo Il sistema Periodico. Attraverso il libro e la passione per la chimica di Primo Levi abbiamo raccontato la sua storia al Gran teatro della Cina di Shanghai.

Lo spettacolo ha avuto molto successo, specialmente con il pubblico dei più giovani. Abbiamo avuto un riscontro profondo su diverse questioni, sia rispetto al “Levi chimico”, e più nello specifico riguardo le tematiche politiche.
Questo viaggio è stato molto intenso per me, sia come persona che come interprete.

In Cina ci sono diversi rituali anche a teatro che fanno sì che sia il pubblico che l’interprete si calino da subito in una sorta di meditazione collettiva, come per esempio entrare in scena non un minuto prima né uno dopo il terzo gong.
Sentivo un’energia molto intensa da parte del pubblico, che leggeva i sottotitoli, ma che allo stesso tempo non voleva perdersi la corporeità dell’interpretazione.

Abbiamo collaborato con gli studenti dell’accademia teatrale di Shanghai, che comparivano nei video durante lo spettacolo per porre le domande a Primo Levi. Ho passato molto tempo con loro e ho potuto apprendere quanta passione e studio mettano in ogni cosa che fanno.
Questa esperienza è stata fondamentale. Esibirsi in Oriente aggiunge sicuramente qualcosa di importante e indelebile nella vita di un performer, io ho avuto l’occasione di aggiungere questo valore al mio percorso tramite uno dei progetti ai quali sono legato visceralmente. 

Sempre per Fanny&Alexander hai interpretato L’amore segreto di Ofelia, insieme a Chiara Francini, su testo di Steven Berkoff, che è una riscrittura ironica. Com’è stato lavorare a un genere di spettacolo così diverso e com’è stato lavorare con Chiara Francini che è un’attrice brillante tra le più popolari in Italia?

Lavorare a L’amore segreto di Ofelia di Fanny & Alexander è stato commovente e divertente allo stesso tempo.
Questo lavoro è nato in periodo di lockdown Covid, quando ancora gli attori in scena dovevano stare a debita distanza l’uno dall’altra.Quindi s’interroga proprio sulla distanza, e sulla potenza dell’amore che aumenta attraverso una separazione forzata, in questo caso tramite l’epistolario erotico fra Amleto e Ofelia, immaginato da Berkoff.

Chiara Francini è un’interprete dalle mille sfaccettature, ognuna delle quali ha una caratteristica in comune: la genuinità.
Da quando prende in giro Amleto con la sua inimitabile verve a quando lo guarda con occhi intensamente lacrimanti nel momento in cui lui le dice che dovrà andarsene. La cosa sulla quale ci siamo trovati da subito penso sia stata la nostra esigenza comune di portare verità sulla scena.

Mi sono divertito e allo stesso tempo emozionato molto con lei, Chiara è un’interprete estremamente sensibile e ironica allo stesso tempo, attenta, e con una ammirevole dedizione al lavoro che al giorno d’oggi non è affatto scontata, ho imparato molto da lei e spero di rincontrarla presto sulla scena. 

Altra opera di cui ti chiedo è Docile, che hai interpretato insieme a Consuelo Battiston di Menoventi, diretti da Gianni Farina. Qui si parla dei rapporti di potere e di manipolazione e tu interpreti appunto la parte del manipolatore, nella duplice veste dello psicologo e del dottore che cerca di sottrarre all’ingenua ragazza-gallina le sue uova d’oro. Come si è sviluppato questo vostro lavoro? 

Docile costituisce un’altra tappa importante del mio percorso attoriale. Con la compagnia Menoventi è scattata fin dall’inizio del nostro incontro una brillante sintonia che ci ha permesso di esplorare liberamente le possibili vie di questo lavoro.
Siamo partiti da delle improvvisazioni e letture di diversi testi fino ad arrivare alla vera e propria drammaturgia dello spettacolo che Consuelo Battiston e Gianni Farina hanno scritto a quattro mani. È stato molto bello lavorare con loro perché hanno sempre accolto le mie opinioni o idee in fase di costruzione, facendomi quindi sentire sempre coinvolto nella creazione del progetto.

In questo spettacolo ho interpretato una figura manipolatrice dalle diverse forme: uno psicologo che tiene lezioni di empowerment Guglielmo Bonora, e un medico eccentrico molto attento ai propri interessi, Anselmo Malora, entrambi tentano subdolamente di impadronirsi del tesoro di Linda, la protagonista interpretata con estrema delicatezza da Consuelo Battiston.

Il mio primo approccio a queste due figure è stato molto pratico inizialmente, per quanto riguarda la figura di Guglielmo lo psicologo mi sono letto molti libri sull’empowerment oltre ad aver frequentato dei veri e propri corsi su questo tema, mentre per la figura del dottore ho fatto lunghe chiacchierate con i miei genitori medici, oltre che aver consultato i loro libri di medicina.

Dopodiché ho lavorato sulle fratture di questi personaggi. In più anche questa volta è stato fondamentale avere al mio fianco una partner d’eccezione come Consuelo Battiston oltre che un occhio attento come quello del regista Gianni Farina. Alcune scene le abbiamo provate moltissime volte di fila, e proprio da questa ripetitività sono venute fuori cose inaspettate.

Veniamo al tuo prossimo lavoro dedicato a Charles Manson. Perché la scelta di un personaggio così negativo e anche in questo caso ti chiedo che approccio hai scelto e cosa c’è da aspettarsi?

Per qualsiasi personaggio che approccio sulla scena in quanto attore/ performer la prima cosa fondamentale da attuare proprio per esserne puro tramite è sospendere il giudizio; ovviamente su una figura del genere non è così facile, ma pur sempre doveroso.
Anche in questo caso il materiale di studio e che compone buona parte della drammaturgia dello spettacolo sono state le interviste che Charles Manson ha rilasciato nei suoi anni in carcere. Perché non portare un personaggio come questo a teatro?

Al cinema è permesso tutto, vediamo di tutto e di più e sono proprio determinate figure che rappresentano il male ad attrarci di più a volte, e perché? Anche il teatro in fondo lo fa, pensiamo a Riccardo III per esempio. Ma perché attorno a figure come Charles Manson ci deve essere come una sorta di pudore se si parla di portarle a teatro?

Io credo che il teatro sia un riflesso di varie sfaccettature della natura umana, anche di quelle più oscure. Penso che grazie a figure complesse come Manson si possa guardare direttamente nell’abisso dell’animo umano e riflettere sulle cause che possono condurre al male. Ma che cos’è il male? E chi era effettivamente Charles Manson?

Dallo spettacolo Manson , che debutterà il 29 e 30 Settembre a Milano in un luogo che ho nel cuore e cioè Il Teatro La Cucina all’ex Paolo Pini, c’è da aspettarsi qualcosa che va oltre la semplice cronaca dei fatti, pur sempre inevitabilmente presente anche nel lavoro creato assieme a Fanny & Alexander, di cui si è tanto parlato negli anni e che ha dato vita al mito Charles Manson.

Masque Teatro, quando il teatro dialoga con la filosofia

Masque Teatro, quando il teatro dialoga con la filosofia

Pluralità del sensibile, questo il titolo del Crisalide Forlì Festival 2023, realizzato dalla compagnia Masque Teatro, che quest’anno giunge alla sua trentesima edizione, con una prima parte, che si svolge dal 25 al 27 agosto al Giardino di Gualdo, con ospiti Ultimi Fuochi Teatro, C&C Company, gruppo nanou, Roberto Magnani e Giacomo Piermatti, Stefania Tansini ed Enrico Malatesta, mentre la seconda, in scena tra ottobre e novembre al Teatro Felix Guattari, avrà tra gli ospiti Marco D’Agostin, Laminarie, Cristina Kristal Rizzo, Teatro Akropolis, Dewey Dell, Motus, Francesco Marilungo, Ateliersi, Aristide Rontini, Quotidiana.com, Teatro Koreja.

Una cifra stilistica, quella di Masque, in cui il teatro dialoga con le discipline filosofiche ed esplora le dinamiche tra la figura del danzatore-performer ed uno spazio scenico che si fonde a volte con la natura e l’ambiente, altre volte è esso stesso a fondere visionarietà e realtà concettuale. Incisivo, nel suo percorso di ricerca artistica, il pensiero del filosofo e psicanalista francese Felix Guattari, al quale peraltro è stato intitolato lo spazio teatrale che ospita le attività di produzione della compagnia, il progetto Residenze Artistiche nei Territori, il festival Crisalide e la stagione di Contemporaneo Corpo:Pathos.

Autore, insieme al filosofo Gilles Deleuze, dei due volumi Capitalismo e schizofrenia, di cui il più noto L’Anti Edipo pubblicato in Francia nel 1972, ma soprattutto dell’opera Le tre ecologie del 1989, Guattari riprende da Arne Næss il concetto di Ecosofia e lo sviluppa alla luce dei registri non solo ambientale ma anche sociale e mentale.

Masque Teatro ripensa quindi il teatro e le sue potenzialità educative alla luce di una nuova forma di ecologia che sappia indicare le strade di una trasversalità di intenzioni e di azioni all’interno di una pluralità dei sensibili, sempre, comunque, nell’ottica di una risingolarizzazione e quindi di una univocità dell’essere nella prospettiva di un riallaccio con le forze vitali dell’alterità.

Tra i lavori più apprezzati e conosciuti della compagnia, sia in Italia che all’estero, Coefficiente di Fragilità (Triennale di Milano, 1998), Omaggio a Nikola Tesla (Bitef Festival, Belgrado 2003), Materia cani randagi (Teatro delle Passioni-Modena 2009), Just Intonation (Festival di Santarcangelo 2011) e i più recenti Luce (2019), Kiva (Teatro Koreja 2022), mentre a Crisalide saranno presenti con la loro ultima produzione Vivarium.

Nell’occasione abbiamo intervistato Lorenzo Bazzocchi, fondatore di Masque Teatro, dal 1998 affiancato dall’attrice e performer Eleonora Sedioli.

Come nasce Masque Teatro, come è nato il Crisalide Festival e cosa rappresenta per voi questa edizione numero 30?

Masque Teatro nasce nel 1992, Crisalide di lì a qualche anno. La prima edizione è del ’94. Il festival ha preso vita certamente grazie ad una serie di interconnessioni, al serrato dialogo con artisti e artiste provenienti da diverse discipline, dal teatro alle arti visive, ma è al concetto di crisi che, sin dalle prime edizioni, lega le sue tensioni tese al rinnovamento della scena teatrale e all’affrancamento delle pratiche artistiche da una sempre più assillante richiesta di efficacia e efficientismo. Crisalide fa sua la necessità, avanzata dalle leve più impegnate della generazione artistica a lei coeva, di superare il formato vetrina e di impostare la propria progettualità intorno ai concetti di imbattersi fortuito e di avamposto, maturando una visione dell’opera come processualità.

Arduo è il tentativo, volgendosi indietro, di cogliere la natura del percorso che si è affrontato in un tempo così vasto, ma dovendo dire che cosa rappresenti questa trentesima edizione, l’unica cosa che sento emergere forte è la certezza di aver sempre comunque cercato di costruire delle connessioni tra la pratica artistica e l’elaborazione teorica che la precede e che essa stessa produce.

Il tema di quest’anno è Pluralità del sensibile, richiamandovi al pensiero del filosofo Felix Guattari. Come si intreccia il pensiero filosofico all’arte performativa e alla potenzialità educatrice del teatro e delle arti in genere?

Vorrei premettere che il tema/titolo, con cui ostinatamente cerchiamo di definire le nostre Crisalidi, non è per noi lo strumento cui ci si avvale per operare scelte, quanto per indicare un recinto di studi all’interno del quale ci si prepara ad accogliere gli ospiti, siano essi artisti, artiste o studiosi. In tal senso può essere compresa la nostra tensione ad affiancare pratiche artistiche e pratiche di pensiero.

Ed è proprio sullo scambio sinergico tra queste prassi che contiamo per un reale potenziamento delle capacità dell’artista nel difficile compito di analisi del proprio fare. Esorcizzare lo spettro della mano. La complessità che caratterizza la creazione teatrale conduce infatti spesso ad un allontanamento precoce dai presupposti teorici che l’hanno generata. Anche in tal senso accogliemmo ben volentieri, dieci anni or sono, la sollecitazione di Carlo Sini e Rocco Ronchi a valutare la fattibilità di incontri filosofici a cadenza annuale a Forlì. Nel 2014 nasceva così la scuola di filosofia Praxis. È la stessa tensione a portare, quest’anno al festival, i trialoghi filosofici di Fuorilogos curati da Paolo Vignola, Sara Baranzoni con la presenza di Federica Timeto. 

Guattari parlava anche del rischio di anestetizzazione indotto dalla tecnologia sempre più pervasiva nel nostro modo di comunicare e relazionarci. Le arti sono ancora al riparo da questo rischio, in particolare quella performativa, legata alla danza e alla corporeità?

Guattari non contestava l’utilizzo delle tecnologie in sé, anzi era convinto della possibilità che esse potessero generare un potenziamento delle sensibilità; era il modo con cui il neoliberismo occidentale ne aveva fatto un ulteriore strumento di controllo, a tormentare il pensatore francese.

Ritornando a noi, è naturale  che le arti stiano sulla difensiva quando il politico individua nel digitale un’arma per risolvere tutti i mali. Questo non significa rifiutare l’integrazione delle tecnologie digitali nelle arti performative, ma il suo utilizzo esasperato. Il corpo, d’altro canto, può trarre potenza dalla tecnologia quand’essa sia in grado di estrarne l’essenza fantasmatica.

In questa edizione presenterete il vostro lavoro intitolato Vivarium. Di cosa tratta e a cosa si ispira?

Tutto nasce da un insetto, il Phasmide, genere phasmoidea. O meglio quando, in una sua visita al “Jardin des Plantes”, George Didi-Huberman scopre, tra le altre,  una teca che riporta il nome dell’antico insetto. Ma la vetrina non sembra mostrare nulla. È solo dopo qualche istante che egli si accorgerà che è l’intero habitat, che dovrebbe riprodurre le condizioni di vita dell’essere che né è ospite, ad essere la forma di vita cercata. Il fasmide viene così a coincidere con l’organismo-ambiente, è ciò di cui si nutre e ciò in cui abita.

In Vivarium Masque indaga il corpo, la sua durezza e fantasmaticità, la sua presenza e il suo essere vento, la sua materia e la sua dissomiglianza, il suo movimento e il suo fossile, ed infine il suo rigore e la sua natura di sogno.
Forse, alla fine, l’unica cosa che stiamo cercando, è che, dissolvendo il corpo, possa la qualità del luogo manifestarsi come forma di vita.

Novità e ospiti di questa edizione 2023 del Festival?

Anche quest’anno il festival si svolge in due sessioni distinte: una fase estiva, all’aperto, in luogo agreste e una autunnale, al chiuso, negli spazi del teatro. Se, da una parte, in questa scelta hanno inciso sicuramente i desideri di aperto che la pandemia aveva amplificato negli anni passati, dall’altra hanno contribuito la sensazione di libertà e di pienezza che l’edizione passata aveva vissuto nell’analogo momento estivo, sempre nel giardino di Gualdo, in località Meldola (FC).

Riguardo gli ospiti, oltre alla 3 giorni con gli invitati del progetto Fuorilogos, a cui accennavo prima, ospiteremo, nello step estivo,  Stefania Tansini, con il suo L’ombelico dei Limbi, poi il gruppo nanou con Paradiso, Carlo Massari con il suo trittico, Larva, Blatta, Sapiense Roberto Magnani delle Albe, con Alfabeto apocalittico, mentre in autunno avremo Marco D’Agostin, autore di Anni, spettacolo costruito su una playlist di brani musicali a partire dagli anni Sessanta fino ai nostri giorni con in scena la danzatrice Marta Ciappina, i Motus con Of the Nightingale I Envy the Fate, che reinterpreta in chiave contemporanea il mito di Cassandra. Poi Francesco Marilungo con Dove lei che non c’è, studio tratto da Stuporosa, recente creazione del giovane e talentuoso coreografo che reinterpreta il ballo ancestrale tarantolato del Sud. 

Da ricordare, per comprendere la pluralità delle proposte del festival, la presenza del Teatro Koreja con Cumpanaggiu, di Ateliersi con Il linguaggio degli oggetti, di Aristide Rontini con Back eye black, di Quotidiana.com con il loro ultimo lavoro teatrale I greci gente seria! Come i danzatori, di Akropolis con Apocatastasi, di Città di Ebla con Brave,  infine di Dewey Dell con I’ll do, I’ll do, I’ll do.

Progetti futuri dopo aver festeggiato il 30° compleanno?

Crisalide, al suo trentesimo anno, si presenta come un fanciullo il cui desiderio rimane, nel tempo, il medesimo: vedere bandita, nei programmi di sostegno alla creatività e alla cultura, la oramai non più velata minaccia “Siate commensurabili, oppure sparite”.

Giovanni Testori, il teatro e la sfida della verità

Giovanni Testori, il teatro e la sfida della verità

“Di Testori ho un ricordo legato alla metà degli anni’80, quando partecipò ad un incontro a Milano. Non si fermò a lungo, ma rimasi impressionato dalla sua presenza, dalla sua aura che si percepiva con forza. Come artista mi ha sempre colpito molto la sua capacità di accettare le sfide che il nostro mestiere comporta. Quella col proprio corpo e con la propria psiche, ma soprattutto con la questione della verità”.

Sono le parole di Luigi Dadina, attore e regista, co-fondatore, insieme a Marco Martinelli, Ermanna Montanari e Marcella Nonni, della compagnia del Teatro delle Albe nel 1983. A Testori, nel centenario della nascita e a 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni, Ravenna Festival, col quale il Teatro delle Albe ha consolidato una proficua partnership, ha dedicato I Promessi Sposi alla prova, diretto e adattato da André Ruth Shammah, in scena il primo luglio scorso al Teatro Alighieri, con Giovanni Crippa e Federica Fracassi. La stessa Shammah che portò in scena lo spettacolo nel 1985 al Salone Pier Lombardo di Milano, con protagonista Franco Parenti e che ripropone oggi nella ricorrenza, come ha dichiarato lei stessa, sia per invitare il pubblico a riscoprire il romanzo di Manzoni, sia per ribadire, attraverso la riscrittura testoriana, quello che è l’essenza del teatro, un cammino verso l’affrancamento dalla fedeltà pedissequa al testo scritto e alla rievocazione storica per andare verso un teatro di parola viva, in cui i personaggi escono dai loro ruoli ed entrano nel nostro tempo.

Ma parlare di Testori, significa anche  parlare della questione sulla verità, come si scriveva sopra, che ha attraversato la sua ampia produzione artistica come scrittore, saggista, drammaturgo, pittore e giornalista. Che lo ha portato a vivere fino in fondo le contraddizioni del suo essere figlio della borghesia di formazione cattolica e ad avere la vocazione a raccontare con crudezza il mondo delle periferie e dei perdenti. Dal ciclo I misteri di Milano degli anni Cinquanta e Sessanta, uno  sguardo penetrante ma profondamente umano sulla classe operaia della metropoli con  Il ponte della Ghisolfa, La Gilda del Mac Mahon, La Maria BrascaL’Arialda, prima opera italiana vietata ai minori e sottoposta a censura per i presenti contenuti osceni, e Il Fabbricone, fino a In Exitu del 1988, che racconta, con rimando biblico all’esodo del popolo ebreo dalla schiavitù d’Egitto, le ultime ore di vita di un tossicodipendente omosessuale alla Stazione di Milano.

La sua linea drammaturgica, improntata fin dall’inizio alla sperimentazione linguistica e alla contaminazione tra dialetto lombardo, lingua latina, francese, spagnola e alla creazione di neologismi, che troviamo nella Trilogia degli Scarrozzanti,degli anni Settanta, è anch’essa una ricerca della verità attraverso la parola, che aderisca all’uomo completamente e visceralmente, come già in Pasolini, del quale prenderà il posto come giornalista al Corriere della Sera, dopo la sua morte.

Anche il suo giornalismo, del resto, è stato mordace e impavido, attirando antipatie e scontri, ma ancora attuale, tanto da ispirare con tre suoi articoli dedicati alla violenza sulle donne, scritti tra il 1979 e il 1980, la lettura scenica del Teatro delle Albe intitolata A te come te, nel 2013, su ideazione di Gabriele Allevi del Teatro degli Incamminati e del drammaturgo Luca Doninelli. Riproposta quest’anno, nella ricorrenza del centenario, certo, ma anche per rimarcare il monito di Testori, a rimanere sempre in allerta, a non spegnersi, “a non rassegnarsi al moloch dell’orribile indifferenza”.

Ne I Promessi Sposi alla prova, opera degli anni Ottanta, Testori ci parla invece del teatro in sé e della sua dinamicità e vitalità intrinseca perché legata all’uomo e al bios.Ecco allora tre ore di spettacolo con un solo breve intervallo in cui il romanzo viene raccontato attraverso un continuo processo di composizione e scomposizione di fatti e azioni, portando a riscoprire il testo manzoniano da una prospettiva inedita, ma sempre avvincente per le sue connessioni alla realtà del presente. 

Lo spazio scenico, sviluppato su più piani, accentua la sensazione di continuo movimento ed evoluzione dell’opera che si sta mettendo in scena attraverso le prove degli attori. I temi manzoniani, dalla prevaricazione dei forti sui più vulnerabili alla fede religiosa, sono sfrondati da ogni  paternalismo, attraversati dai pensieri e dalle emozioni degli attori, che entrano ed escono continuamente dai loro personaggi così come entrano ed escono di scena. Gertrude addirittura erompe fuori dal pavimento, come fuoriuscita temporaneamente dal suo inferno di amarezza e recriminazione nel quale è stata relegata ingiustamente dai suoi familiari. Humor e tragedia si rincorrono in continuazione donando allo spettacolo la verve necessaria a tenere alta l’attenzione, per un tempo così lungo, a riflettere e a sdrammatizzare.

I Promessi Sposi alla prova sono una produzione di Teatro Franco Parenti/Fondazione Teatro della Toscana/Fondazione Campania dei Festival con il sostegno dell’Associazione Giovanni Testori.

Paradiso, la performance di Gruppo Nanou al Kursaal Santalucia di Bari

Paradiso, la performance di Gruppo Nanou al Kursaal Santalucia di Bari

Dal 14 al 24 giugno gli spazi della Sala Cielo del Kursaal Santalucia di Bari ospitano Paradiso, performance di danza contemporanea di Gruppo Nanou di Ravenna, dopo il debutto al Ravenna Festival 2022 e le finali dei Premi Ubu 2022 come Miglior Spettacolo di danza e Migliore Coreografia.
Realizzato in occasione delle celebrazioni dantesche, la coreografia e il movimento danno vita, attraverso le composizioni musicali di Bruno Dorella e le suggestioni dell’artista visivo Alfredo Pirri, ad un’esperienza altamente immersiva per lo spettatore che “entra” nell’opera a cui sta assistendo e interagisce con lo spazio scenico.
Una performance in cui danza,  coreografia e musica vivono e respirano degli spazi architettonici della Sala Cielo, così come si esplorano a 360 gradi le potenzialità della luce e del colore in rapporto allo spazio.

L’evento di inserisce nell’ambito della personale di Alfredo Pirri intitolata “Sala Cielo, Progetti e Visioni”, curata da Michele Spinelli  e realizzata dalla Fondazione Pino Pascali. Il progetto è prodotto da Regione Puglia con la Fondazione Pino Pascali e il Teatro Pubblico Pugliese nell’ambito del Piano Strategico della cultura per la Puglia 2017-2025.

Per l’occasione abbiamo intervistato il fondatore e coreografo di Gruppo Nanou, Marco Valerio Amico.

Da Ravenna Festival all’inaugurazione della Sala Cielo del Kursaal Santalucia dopo i restauri. Ci saranno delle novità rispetto al debutto nel 2022?

Paradiso al Kursaal Santalucia è radicalmente diverso eppure identico nella natura. Da subito, da sempre, dall’inizio del pensiero sul progetto, con Alfredo Pirri e Bruno Dorella abbiamo ragionato sul desiderio di rendere Paradiso irreplicabile e quindi su come poterci portare dietro una natura del lavoro che fosse reinnescabile. 
Paradiso è un incontro tra l’arte e i luoghi. Si nutre dei luoghi. Il materiale specchiante, segno peculiare di Pirri, riflette e ribalta il luogo che ospita l’azione. Lo spazio comanda perché detta lui le vie di accesso e di fuga sia per chi guarda che per la coreografia. L’equilibrio coreografico tra l’uso dello spazio, l’allestimento, la luce e il suono, rende tutto necessariamente nuovo. 
In questa occasione, Paradiso agisce l’opera permanente di Pirri, la Sala Cielo del Kursaal Santalucia. 

Dietro questo tipo di performance c’è un ripensamento dello spettacolo dal vivo che si è rafforzato nel periodo post pandemico. Ce lo volete raccontare?

Il teatro ha “il brutto vizio” di rinnovarsi continuamente. L’arte tutta ce l’ha. Credo che l’arte dal vivo abbia il compito di evidenziare il suo essere presente ed epidermica. Per me, con la pandemia si è chiarito quanto l’arte dal vivo possa essere luogo e tempo di incontro, di ritrovo, di avvicinamento dei corpi. Si è chiarito che il rito teatrale può, e forse deve, essere nuovamente messo in discussione per afferrare una ragione solida e inequivocabile che spinga le persone a desiderare di incontrarsi e stare vicine, scambiarsi pensieri e scoprire quanto le esperienze dal vivo, epidermiche, siano necessarie per rinnovare il piacere dell’esperienza sensoriale. 

L’evento si inserisce nell’ambito della mostra di Alfredo Pirri, intitolata “Sala Cielo, Progetti e visioni” curata da Michele Spinelli. Come è nata questa collaborazione e cosa potete  raccontarci invece dell’incontro con Bruno Dorella?

L’incontro con Alfredo nasce da lontano, circa quindici anni fa. Bruno lo abbiamo conosciuto più o meno negli stessi anni. Entrambi hanno visto il nostro primo progetto installativo Strettamente Confidenziale. Da lì sono nate chiacchiere e confronti, dapprima separatamente, fino a quando non si è creata la condizione per poter realizzare qualcosa tutti insieme. La progettazione per le celebrazioni dantesche è stata quell’occasione che ci ha permesso di scrivere il progetto Paradiso e di agire insieme per la sua realizzazione.  

Presentare un lavoro di insieme nella Sala Cielo, opera permanente di Alfredo, è stato quasi un naturale decorso perché il segno di Alfredo è presente in ogni mattone di quello spazio e la coreografia e il suono ne fanno parte naturale perché nati insieme anche al suo pensiero. Durante questi giorni di allestimento e prove, non abbiamo fatto altro che confermarci quanto l’equilibrio trovato fra noi, fra i tre linguaggi, sia esatto per questo luogo. 

La possibilità di dar vita ad uno spazio scenico immersivo per lo spettatore è un’esperienza tutte le volte unica e irripetibile. Come si costruisce una memoria collettiva di ciò che è andato in scena in questo caso

La memoria collettiva è l’esperienza e non il dettaglio. Il sistema coreografico è costruito perché per ognuno, ogni giorno, sia diverso se non in compresenza. Eppure il cuore del lavoro è sempre lo stesso con la sua chiara ed evidente identità. Si potenzia la soggettività di una esperienza collettiva. Le memorie differiscono, progettualmente. È come mettere insieme fatti e opinioni, così uguali eppure diversi. 

La percezione del singolo spettatore è quella di trovarsi fuori dai consueti parametri spazio temporali come richiede appunto la terza Cantica. Diversi critici teatrali hanno parlato a proposito dell’arte visiva di Pirri di “spazialità della luce”. Nelle vostre coreografie anche il colore ha una forte connotazione spaziale, come emerge da un vostro studio coreografico del 2017 proprio su questo…

Il colore altera la percezione dello spazio quanto l’accensione o lo spegnimento della luce. Ciò che viene comunemente chiamata “decorazione” e a cui spesso viene attribuito un significato di diminuzione del valore e dell’importanza, nella sua natura primaria è il dettaglio che ci permette di percepire diversamente le cose. Una stanza colorata di rosso o piastrellata d’oro, un dettaglio che può riflettere la luce naturale del sole cambiando la magnificenza di uno spazio pubblico, sono elementi fondamentali che possiamo trovare in tutta l’architettura antica, medioevale, rinascimentale e moderna. 
Con Alfredo abbiamo scelto dei colori che richiamassero gli acquerelli, che traducessero lo spazio e l’azione in una condizione pittorica. 

L’uso della luce è stato elaborato in termini coreografici creando spazi per i corpi e in dialogo con le azioni. La luce e il colore fluttuano nello spazio e nel tempo costruendo una partitura musicale. Il danzatore si muove tra la luce e ne riscrive i pesi sentendola come ulteriore corpo con cui muoversi e riscrivere l’equilibrio dello spazio. La luce è tempo così come lo sono l’azione e il suono. Insieme si determina un dialogo sinfonico per costruire e scrivere un continuo nuovo equilibrio.  

… così come il rapporto tra il corpo e lo spazio che occupa in scena, sia quello dei danzatori che, soprattutto in Paradiso, quello dello spettatore che “entra” nel Paradiso

In Paradiso, come sottolinei tu, lo spettatore è un corpo, è un peso, è uno sguardo che continuamente riscrive l’azione perché il danzatore ricalcola traiettorie attraverso principi coreografici che contemplano la presenza randomica di uno sguardo sconosciuto. Per questo la danza si fa presenza, oltre che visione. L’azione avviene alle spalle tanto quanto di fronte. Lo spettatore è circondato e portato all’interno dell’ambiente. Pur rimanendo corpo estraneo, come Dante, lo spettatore entra ed è immerso nell’ambiente perché è lo stesso ambiente che lo circonda.

Oltre ai versi danteschi avete avuto altre fonti di ispirazione per creare questa esperienza così totalizzante?

Tante. Tantissime altre fonti. Al cubo poi perché siamo tre entità autoriali. Sarebbe troppo lungo elencarle tutte. Preferisco mantenerle segrete. Eh. Magari ce le raccontiamo dal vivo, durante Paradiso.

Paradiso è prodotto da Nanou Associazione Culturale, Ravenna Festival con il contributo di MIC, Regione Emilia-Romagna, Comune di Ravenna, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna.