Dittature, colonialismo e forza rigeneratrice della Polis

Dittature, colonialismo e forza rigeneratrice della Polis

Spagna e Portogallo, due ex dittature dal passato ingombrante, sono state le protagoniste dell’ottava edizione a Ravenna del Polis Teatro Festival di ErosAntEros, compagnia teatrali tra le più innovative, nata nel 2010 per volontà della drammaturga e attrice Agata Tomsiç e del regista e sound designer Davide Sacco.
Due gli spettacoli-evento, andati in scena il 9 e 10 maggio al Rasi di Ravenna e ai quali è dedicato l’approfondimento, tra gli oltre 35 appuntamenti: Il Portogallo non è un paese piccolo, della compagnia ceco-portoghese  Hotel Europa e Signora Dittatura della spagnola Hermanas Picohueso.

Il primo, costruito con materiale documentario raccolto attraverso le interviste a emigranti portoghesi nelle colonie africane di Angola, Mozambico, Guinea Bissau e India orientale, per ricostruire un’identità storica nel suo difficile percorso di riappropriazione e metabolizzazione del fenomeno coloniale.
Il secondo che indaga, attraverso la figura di Carmen Polo, moglie di Francisco Franco, l’eredità morale della dittatura spagnola nella società attuale, esplorando il tema della caccia, nelle sue declinazioni più disparate, attraverso una narrazione permeata da humor nero e l’utilizzo di un dispositivo multidisciplinare ispirato alla rivista spagnola di gossip iHola!

Entrambi sono recitati in lingua originale e connotati da un ritmo sostenuto, in cui si incrociano linguaggi espressivi come la danza, la performance art e il teatro documentario. La dimensione temporale in entrambi i lavori è non lineare, spesso sfasata o spostata in avanti in Signora Dittatura, dove Franco, morto nel 1975, viene immaginato nel 1984 in una spiaggia europea, già immersa nella speculazione edilizia. O la moglie, morta nel 1988, all’interno delle rovine dell’ex discoteca Four Roses di Madrid, dove il 13 novembre 1992 viene uccisa un’immigrata domenicana e che risulta essere il primo omicidio a sfondo razziale nella storia della Spagna dal dopoguerra in poi.

Ridondante invece, la temporalità de Il Portogallo… che sottolinea la necessità di ritornare ad occuparsi della storia coloniale del Paese e di maturare una maggiore coscienza critica. Il Polis Teatro Festival ha quindi colto l’occasione per offrire al pubblico, dopo lo spettacolo, una riflessione sul tema, attraverso la tavola rotonda dal titolo L’ultima rivoluzione della vecchia Europa: tra garofani e monarchia, con l’intervento degli storici Alfonso Botti e Stefano Salmi, coordinati dal professor Michele Marchi e gli attori e le attrici delle due compagnie.
Sul Portogallo, il punto di partenza non può che essere la constatazione di come questo Stato dalle modeste dimensioni, sia stato uno dei più longevi e vasti imperi coloniali, esteso su più continenti e governato per oltre 40 anni (dal 1933 al 1974) da un regime dittatoriale. Altro aspetto sorprendente, però, è che la transizione dalla dittatura monopartitica e autoritaria di Salazar alla democrazia, sia avvenuta sì, con un colpo di Stato, ma in modo pacifico e senza spargimenti di sangue.

A spiegarne le dinamiche, i relatori Salmi e Botti: l’insofferenza dei militari portoghesi mandati a morire nelle colonie africane, coinvolte nella guerra per la liberazione dal 1961 al 1974, li spinge a costituire il Movimento delle Forze Armate. Saranno loro a guidare la Rivoluzione dei Garofani, conclusasi con il riconoscimento dell’indipendenza delle colonie e, in Portogallo, di un governo democratico.

La natura incruenta di questo golpe così rapido, che prende il via nelle prime ore del 25 aprile 1974 e che vede migliaia di cittadini, durante la giornata, affluire verso le piazze, è accentuato dal gesto di una fioraia che regala garofani ai soldati. Questi li depongono nelle canne dei loro  fucili, dando così una forte valenza simbolica all’evento. Soprattutto, però, la fine della dittatura e l’indipendenza delle colonie significherà per migliaia di portoghesi poter ritornare in patria.
Ma non è una bella notizia, per la maggior parte di loro: hanno lasciato un Paese in condizioni di povertà e analfabetismo, viaggiando nelle stive di una nave. Però, come racconta lo stesso spettacolo Il Portogallo non è un Paese piccolo, le persone, una volta arrivate qui, trovavano luoghi stupendi e incontaminati, vivevano in comunità di coloni vicino alla spiaggia in ville con la piscina e mangiavano gamberi, avevano la servitù indigena che li serviva e riveriva. Erano persino in buoni rapporti con quest’ultima e i figli andavano nelle loro stesse scuole, fino ai primi anni del liceo… poi gli indigeni scomparivano nel nulla.

Sembra insomma che i coloni portoghesi intervistati da André Amȧlio di Hotel Europa non avessero, o non volessero avere, una reale consapevolezza di quanto il loro benessere si fondasse di fatto sullo sfruttamento. Sta di fatto che una volta scoppiate le rivolte indigene, sono stati costretti ad un esodo di massa verso la loro patria. E una volta arrivati, sono stati non accolti, parcheggiati in hotel e pensioni per un tempo indefinito e privati del diritto di ottenere la cittadinanza. Ciononostante, il percorso democratico si è avviato e consolidato anche qui come in tutti i Paesi europei.

Ma oggi, chiede Marchi agli attori e ai due relatori, con gli scenari che abbiamo di fronte, come sta la democrazia in questi due Paesi che hanno conosciuto un lungo periodo sotto la dittatura? Risponde André Amȧlio: “Negli ultimi 10 anni sono cambiate molte cose anche in Portogallo, con partiti reazionari che hanno sempre più appoggio”, mentre sulla Spagna Hermanans Picohueso ammettono che “dopo 50 anni dalla fine della dittatura è ancora molta l’ansia  che accompagna questo spettacolo su Francisco Franco”.

Il relatore Botti, esperto della storia contemporanea spagnola, afferma che “a differenza di quanto avvenuto in Portogallo, con un colpo di Stato, in Spagna la transizione dal regime totalitario verso la democrazia è stato più graduale e guidato dall’alto. Nello specifico dal Re e dalle pressioni internazionali sul Paese affinché, una volta morto Franco, si proseguisse in senso democratico e filo-europeista. C’è stata – ha spiegato Botti – una sorta di democratizzazione dei franchisti che si erano resi conto di quanto il franchismo fosse ormai inadeguato ai tempi”. Ma ha anche sottolineato che “certamente oggi la democrazia sta attraversando un momento di crisi, in cui i partiti si delegittimano e si screditano a vicenda, atteggiamento che ha radici nel franchismo”.

Lo spettacolo di Hermana Picohueso prende le mosse proprio dalla constatazione di quanto il franchismo sia ancora vivo e capace di attrarre e influenzare le persone, facendo leva sull’istinto di sopraffazione che, insito in ognuno, può essere riattivato e manipolato.

Ecco allora che lo spettacolo condensa in rapida sequenza l’intervista rilasciata da uno degli skinheads responsabili dell’omicidio di Sonia Rescalvo Zafra, transessuale, avvenuta in un gazebo all’interno di un parco a Barcellona il 6 ottobre 1991, primo delitto a sfondo transomofobico in Spagna, alle fotografie d’epoca sulle battute di caccia in cui spiccano cadaveri di animali uccisi da Franco e consorte e i loro ospiti. La caccia, come si scriveva sopra, è la parola chiave per decifrare il personaggio di Franco, ma soprattutto della moglie Carmen Polo. Ambiziosa, fiera sostenitrice dell’autoritarismo, con un amore sconfinato per le perle e il lusso, viene rappresentata come ferina e moralmente vacua, ancor più del marito.

L’Iberian Focus del Festival coincide con il 40esimo della vigilia dell’adesione di Spagna e Portogallo alla Comunità europea, un’occasione quindi per riflettere sull’Europa e il suo destino.

Kraugé, la storia raccontata dai non protagonisti

Kraugé, la storia raccontata dai non protagonisti

Un’elegia che procede per atti, che racconta l’Italia degli ultimi 45 anni, che piange i suoi morti. La storia contemporanea di Eugenio Sideri raccontata in Kraugé – Tre tragedie moderne, edito da Pendragon e dato alle stampe in febbraio è, come spiega il docente e critico teatrale Lorenzo Donati che ne cura la prefazione, riportata nel presente perché ancora incompleta, irrisolta.

Ma soprattutto, è una storia raccontata dai non protagonisti, da chi la subisce. Le vittime della strage di Bologna del 2 agosto 1980, ad esempio, narrata nell’opera di apertura, Tantum Ergo, attraverso le voci di 2 delle 85 vittime, Antonella Ceci e Leo Luca Marino, coppia di fidanzati travolti dall’esplosione della bomba mentre aspettavano il treno per Ravenna. Con loro le due sorelle del ragazzo arrivate dal Sud per conoscere la sua fidanzata. 

Un oratorio civile in dodici stazioni, come in una via Crucis, in cui Sideri riprende l’approccio di Antigone delle città di Marco Baliani e Bruno Tognolini nel 1990 sulla stessa vicenda, per riportare la storia nel presente, adottando una prospettiva che parta dal basso e mostri le conseguenze che la macrostoria ha avuto nelle vite della gente comune. 

Nell’ottava stazione, intitolata anche questa Tantum Ergo, l’attrice, sollevando l’abito nuziale consegnatole da due bimbe, inveisce contro i colpevoli rimasti impuniti: Vi odio, voi uomini senza faccia, uomini senza macchia, uomini che avete le chiavi delle stanze, uomini dalle impronte su carta e carne, segni di carta e di carne, macchiati, sporchi, maledetti uomini, senza faccia… (Tantum Ergo, pag. 36)

Ma anche un omaggio al teatro industriale che ritroviamo in autori come Gerhart Hauptmann, Erwin Pescator e Bertolt Brecht, dove il lavoro è visto in tutta la sua ambivalenza: strumento di riscatto sociale ma anche di oppressione. Leo Luca, ad esempio, viene da un paesino del Sud dove vige il caporalato e dove se vuoi lavorare in regola devi andare a cercarlo altrove. Nella provincia del Nord, dove va a vivere, conosce la solidarietà cooperativa e la dignità di una giusta retribuzione. 

Vedremo però nell’opera drammaturgica successiva di Kraugé, intitolata Lo Squalo, che anche nella prospera Romagna degli anni ’80, c’è il caporalato. Qui, il 13 marzo 1987, muoiono 13 operai asfissiati dalle esalazioni di gas all’interno della stiva di una nave, in mancanza di un estintore e di qualsiasi misura di sicurezza per i lavoratori. 

Questa vicenda, considerata in retrospettiva, sembra avere qualcosa di epifanico, un’anticipazione delle ormai ripetute e sempre più frequenti morti sul lavoro che si sono susseguite negli ultimi anni, tanto da diventare nuovamente un’emergenza, in barba alle conquiste sindacali dei decenni precedenti.

…soffocati ecco così che sono morti che li han trovati alcuni che non han fatto neanche in tempo a cercare di scappare… sono morti lì dov’erano … il fumo nero che aveva invaso tutti i cunicoli là sotto la stiva li ha uccisi (Lo squalo, pag. 63)

La narrazione prende qui la forma apparente del dialogo, quello di un uomo scampato alla strage della nave perché quel giorno non stava bene e al suo posto è andato un altro collega. Si rivolge ad un’anziana donna, Betta, diminutivo di Elisabetta, lo stesso nome della nave entro cui sono morti gli operai, l’Elisabetta Montanari
Via via che lo si ascolta, però, si capisce che in realtà questa donna non esiste, sta delirando, sta semplicemente aspettando di morire. Lo squalo a cui il titolo dell’opera allude e ispirato alla scena dell’omonimo film americano di Spielberg, è l’angosciante senso di assedio che l’uomo avverte in attesa della fine, amplificato ancora di più, quando l’opera è andata in scena, dalle sonorità cupe di Fioravanti. 

Nella drammaturgia di Sideri c’è poi una volontà di rivolgersi al teatro come strumento di conoscenza che richiama l’Ascanio Celestini di Memorie di fabbrica e il drammaturgo tedesco Heiner Müller al quale Sideri ha dichiarato più volte di essersi ispirato, anche per il suo metodo di lavoro, che è quello di costruire le drammaturgie a partire da articoli di giornale.Microstorie accatastate l’una sull’altra che ad un certo punto iniziano a riecheggiare dentro e con le quali si entra in connessione e si intuisce che si è aperto un guado per iniziare a scrivere.

Potrà essere un’invettiva, un lamento pieno di rabbia (Kraugé, appunto), una preghiera, una fredda lista di nomi o di eventi, o un dialogo surreale col proprio angelo custode come avviene nell’ultima opera, l’inedita Quasi una farsa (italiana), forse la più tragica perché qui non ci sono più nemmeno le azioni, ma solo gli stasimi del coro, come avveniva nell’Antica Grecia. Ma cosa commentare, su cosa riflettere se tutto è già avvenuto? 

Rimane allora l’importanza della memoria collettiva, anche e soprattutto attraverso il teatro civile, che continua a voler mantenere vivo il dialogo con la storia, malgrado la sua ineluttabile coazione a ripetersi ciclicamente con l’insensatezza delle guerre e delle sopraffazioni. 

Con Kraugé, Sideri dichiara, alla fine del libro,  di avere concluso un ciclo iniziato con il primo e finora unico romanzo, Ernesto faceva le case, del 2021, in cui racconta la storia di una famiglia contadina tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, percorso da sconvolgimenti sociali e politici concomitanti alle due guerre e proseguita con Calēre, del 2022, dedicata a Pier Paolo Pasolini, che  tra i primi intuisce contraddizioni, insidie e ambiguità del miracolo economico e della società industriale. 
Calēre rappresenta così l’anello di congiunzione tra il periodo post bellico, carico di spinte ideologiche raccontate nel romanzo, dove i personaggi sono ancorati ai valori della civiltà contadina ormai al tramonto e la crisi irreversibile che risuona invece in Kraugé

Andrea Argentieri, nel labirinto di Manson

Andrea Argentieri, nel labirinto di Manson

“Io sono dentro ognuno di voi”. Parola di Charles Manson, condannato quale mandante della strage di Cielo Drive, in California, che avviene tra l’8 e il 9 agosto 1969 in cui muoiono l’attrice Sharon Tate, 26 anni, incinta all’ottavo mese e altre 4 persone presenti nella villa. Alla controversa figura di Manson, musicista mancato, figlio di una prostituta, iniziato al crimine fin dall’adolescenza e fondatore della setta religiosa Manson Family, a cui appartengono gli esecutori materiali del pluriomicidio, Fanny & Alexander, compagnia teatrale fondata nel 1992 dal regista Luigi De Angelis e dalla drammaturga Chiara Lagani, hanno dedicato lo spettacolo Manson. Protagonista Andrea Argentieri, lo spettacolo è andato in scena al Teatro Rasi nell’ambito della Stagione curata dal centro di produzione Ravenna Teatro.
De Angelis e Lagani scelgono un impianto narrativo di forte impatto, un radiodramma sonoro in 3d che, nel buio della sala, scandisce sinteticamente le fasi in cui il delitto avviene, per poi consegnare la figura di Manson, seduto su uno sgabello e immerso nella potente luce rossa, al pubblico in sala, nella veste inedita di giuria postuma.

Anche questa volta, come già in I sommersi e i salvati, Argentieri si fa medium, corpo che viene attraversato dal personaggio. È il Manson istrionico, scomposto e ferino, farneticante, a volte grottesco, persino comico nelle sue smorfie. Iperbolico, capace di cambiare aspetto man mano che gli ci si avvicina, pericoloso, proprio in forza di questa ambivalenza perché capace di attrarre e disorientare.
Il pubblico dovrà fare a Manson le stesse domande che gli sono state rivolte nel corso delle interviste che ha rilasciato durante la sua lunga detenzione, durata 45 anni. Lui risponderà in lingua inglese, con il marcato accento dell’Ohio. Se le risposte di Manson-Argentieri saranno le stesse date quando lui era in vita, a cambiare sarà invece il modo del pubblico di stare a teatro. Attraverso le domande che pone, infatti, esce dalla modalità passiva tipica dello spettatore, ed è chiamato a interrogarsi esso stesso su ciò a cui sta assistendo. 

La modalità interattiva, come dichiarato più volte da De Angelis e Lagani nel corso delle interviste in questi ultimi anni, permette a chi assiste di scegliere il modo in cui porsi di fronte allo spettacolo e al tempo stesso di essere consapevole dell’irrevocabilità di quel gesto, decidendo di porre una domanda anziché un’altra nella lista che viene consegnata agli spettatori prima dell’inizio dello spettacolo. Una decisione su cui non si potrà più ritornare. Si accentua così la dimensione di evento irripetibile.
Ma riguardo Charles Manson, che sfida rappresenta per un attore portare in scena un personaggio così oscuro? Ne abbiamo parlato con Andrea Argentieri

Da quali fonti hai attinto per conoscere il personaggio di Manson? Libri, articoli di giornale, testimonianze, biografie…?

Andrea Argentieri: Lo spettacolo Manson è basato sulle interviste che Charles Manson ha rilasciato durante il corso della sua vita in carcere, quindi il mio principale materiale di studio sono state le sue interviste, ho osservato molti video e soprattutto ascoltato a lungo la sua voce.
In più mi è stata molto utile la lettura di Your Children, così intitolata la stesura della sua dichiarazione integrale al processo che lo condannò alla pena di morte il 25 gennaio 1971, che poi fu abolita nel 1972 dallo Stato della California, condannando Manson all’ergastolo. Oltre a questo testo ho letto anche Helter Skelter di Vincent Bugliosi, avvocato dell’accusa e Manson in his own words, libro scritto dallo stesso Charles Manson insieme all’autore Nuel Emmons
Queste sono state letture salienti, ma il fulcro della mia concentrazione è stato rivolto all’osservazione e all’ascolto dei materiali video presenti su fonti on line, come ho già fatto per altri progetti di mimesi, come ad esempio Se questo è Levi. 

Come ti sei preparato ad interpretare il personaggio? Ho letto che per la voce sei stato affiancato da un coach dell’Ohio e che hai seguito una metodologia Actor’s Studio per affrontare la parte. Quali le difficoltà, sia tecniche che psicologiche? In cosa ti sei sentito invece agevolato? Ad esempio avevi già recitato in lingua americana o inglese?

A.A.: Manson è nato grazie all’ospitalità e alla collaborazione di un luogo che ho nel cuore, l’ex Istituto Psichiatrico Paolo Pini di Milano, nel quale per oltre due settimane intense mi sono immerso nella grana della voce di Charles Manson. Questo con non poca difficoltà. Quando si affronta un personaggio del genere bisogna fare i conti non solo con lui, ma anche con se stessi. Dai primi ascolti della sua voce ho intuito subito che non sarebbe stato un attraversamento semplice. 
Sarebbe stato facile saltare sul cavallo dell’istrionismo e fare il matto, specialmente durante i suoi momenti di euforia o agitazione, ma sarebbe stata una caratterizzazione, mentre la mia intenzione da subito è stata quella di lavorare sulla questione del bassorilievo, secondo cui mi faccio veramente tramite della voce di Manson connettendomi intuitivamente alla sua esigenza di parlare. 
Nel momento in cui il corpo e la mente fanno spazio a un’altra voce succede una cosa strana: la voce cambia, il corpo si muove diversamente, ma senza una perdita totale del controllo. Avviene come una sedazione dalla quale appare Manson, ma in cui sono presente anche io e il risultato è simile a quello di una scultura nella quale le figure sono rappresentate su un piano di fondo con un rilievo ridotto rispetto alle sculture ad altorilievo e a tuttotondo. 

Tramite il metodo dell’eterodirezione della compagnia Fanny & Alexander io ascolto la voce di Manson, e me ne faccio tramite all’istante sia fisicamente che vocalmente attraverso quella che io chiamo una possessione controllata. Questa volta al fine di avvicinarmi il più possibile alla figura di Manson ho anche cercato di modificare il mio aspetto fisico nella vita di tutti i giorni, facendo crescere barba e capelli e seguendo una dieta ferrea per perdere peso e impersonare al meglio un corpo abituato alla vita in carcere. La divisa da carcerato che indosso durante lo spettacolo è un dono dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini; era una delle uniformi che indossavano gli ex pazienti psichiatrici, questo per me ha avuto molto significato. Il viaggio di Charles Manson è un viaggio nella psiche. 

Manson era una persona estremamente intelligente ed anche estremamente manipolatoria, sicuramente molto complessa mentalmente, anche per via delle esperienze di vita, per la sua infanzia e soprattutto per il carcere. Di termini a riguardo se ne potrebbero facilmente usare, come schizofrenico o bipolare, ma a me personalmente non hanno mai interessato le definizioni dirette della psiche umana, perché la reputo più ampia.  
Ad ogni modo per me non è stato facile muovermi all’interno del suo labirinto, perché il rischio è che da un labirinto non è sempre facile uscire, ma in questo mi hanno aiutato le parole di un caro amico e bravissimo psichiatra che da anni lavora all’ex Istituto Psichiatrico Paolo Pini: Thomas Emmenegger, il quale afferma che del labirinto non bisogna avere paura, bensì accoglierlo. Dunque mi sono addentrato nel labirinto.

Sviscerare la lingua inglese è stato fondamentale. Al fine di incarnare al meglio il dialetto dell’Ohio, parlato da Charles Manson, ho avuto l’occasione di lavorare con un musicista americano, David Salvage, originario di quelle zone, e sua moglie Gabriella Gruder Poni, che mi hanno aiutato a muovermi nei meandri della lingua di Manson. Per fortuna l’inglese è una lingua che ho sempre sentito molto vicina per vari motivi e che ho sempre parlato fin dall’infanzia avendo anche parenti americani. All’inizio non è stato facile perché la lingua parlata da Manson non era proprio lineare, ma dopo poco non ho avuto problemi con l’aggancio mentale.

Che cosa rappresenta il personaggio di Manson nel tuo percorso artistico? Tu hai interpretato ad esempio Primo Levi, che al contrario è un personaggio di grande coraggio e forza per la sua testimonianza sulla Shoah: è importante per te la versatilità?

A.A.: Manson rappresenta una tappa fondamentale nel mio percorso artistico. Per fortuna è arrivato ad un punto della mia carriera d’attore e di performer in cui ho acquisito una consapevolezza scenica maggiore, perché per affrontare Charles Manson in scena bisogna essere molto saldi. Per me ha rappresentato il mettermi seriamente in gioco a livello psichico. La versatilità è molto importante. Sicuramente Levi e Manson sono due figure molto lontane fra loro, ma comunque affrontano un tema comune: il male, indagando e interrogando le forze che spingono l’uomo a commetterlo. 

Vuoi descrivere le fasi della realizzazione dello spettacolo? Quale è stato il punto di partenza?

A.A.: Il punto di partenza è stata l’intuizione del regista Luigi De Angelis, che come nel caso di Se questo è Levi, ha capito che avrebbe potuto lavorare con me su Charles Manson. Insieme abbiamo deciso che non c’era altro luogo se non l’ex Istituto Psichiatrico Paolo Pini per farlo nascere. Abbiamo fatto una residenza dove abbiamo effettuato vari esperimenti fino ad arrivare al risultato finale, grazie anche all’intervento drammaturgico di Chiara Lagani. 
Durante quel periodo la colonna sonora delle mie giornate era il White album dei Beatles, molto amato da Charles Manson, che ancora oggi ascolto in camerino in fase di preparazione prima di ogni replica di Manson. Lo spettacolo ha debuttato proprio lì, al Teatro La Cucina.

La parte interattiva dello spettacolo, con cui il regista De Angelis rende partecipe il pubblico con le domande in diretta, rende il lavoro ancora più difficile, perché immagino che le stesse domande vengano fatte ogni volta in ordine diverso…

A.A.: Per me fa tutto parte del vincolo di verità. Sono felice che il pubblico crei la drammaturgia delle domande a seconda di come se la sente, ogni volta l’andamento è diverso, proprio come se realmente Manson incontrasse una giuria diversa ogni volta. 

Cosa dice il personaggio di Manson al mondo di oggi?

A.A.: “Am I responsible for your children?” (“Sono io responsabile dei vostri bambini?). Credo che Charles Manson potrebbe rispondere in questo modo a questa domanda. Ovviamente gli omicidi commessi dalla “Family” di Manson non possono essere trascurati e infatti è anche il punto di partenza dello spettacolo di Fanny & Alexander
Lo scopo delle domande del pubblico però non sono solo le risposte di Manson, ma anche le risposte che diamo a noi stessi. Prima di diventare degli assassini i suoi seguaci erano i figli dei propri genitori, cosa gli è successo per commettere tali omicidi, e cosa è successo a Charles Manson? È lui il vero mostro? Dal labirinto di cui ho parlato prima ho appreso che è anche una questione di contesto e non solo del singolo individuo. 
Fra l’altro per me c’è una grande riflessione sulla situazione delle carceri di tutto il mondo, Manson ci ha vissuto tutta la vita e sicuramente ciò ha condizionato la sua esistenza profondamente. A cosa serve veramente il carcere se vissuto come un luogo di sofferenza, tortura e perdizione fisica e mentale? Tutta questa sofferenza cosa genera veramente? In questo momento nel mondo stanno avvenendo vicende atroci, basti pensare ai conflitti in Libia, o la situazione in Palestina che sta raggiungendo delle vette di morti inaudite. Cosa stiamo facendo noi per impedire veramente tutto questo? 
Qualsiasi crimine va condannato, ma purtroppo ce ne sono tanti nel mondo di cui i grandi potenti della terra non se ne stanno veramente occupando, o peggio ancora sono loro gli stessi artefici di tali atrocità.

Arlecchino di Pennacchi e Baliani, servire o non servire?

Arlecchino di Pennacchi e Baliani, servire o non servire?

Un Arlecchino irriverente verso la società borghese, come lo ha voluto Goldoni, ma proiettato sul piano del metateatro e immerso nella contemporaneità italiana, quello ricreato e diretto da Marco Baliani e interpretato da Andrea Pennacchi, in scena al teatro Alighieri di Ravenna. 
A un anno dal debutto, lo spettacolo, che quest’anno ha raggiunto le 70 serate in giro per l’Italia, continua a divertire il pubblico attraverso la parodia dei classici, Shakespeare in primis, nell’esilarante monologo di Arlecchino che si chiede “Servire o non servire?” e rimanda al riemergere di forme di schiavitù e asservimento sociale. Ma Arlecchino? è anche una sfida all’indimenticabile spettacolo di Giorgio Strehler, come ha raccontato Baliani all’incontro con il pubblico al ridotto dell’Alighieri l’8 febbraio scorso, sollecitato dalle domande e riflessioni dello studioso Gerardo Guccini. Se tanti infatti sono i registi che hanno reso popolare questa maschera della Commedia dell’arte, è stato quello innovativo di Strehler, il più longevo, con i suoi 50 anni di repliche al Piccolo di Milano. 

Guccini, docente di storia del teatro e dello spettacolo al Dams di Bologna, evidenzia, a proposito delle due lettere che precedono il testo, quanto siano funzionali alla comprensione che esso procede su un duplice binario. La prima è scritta da Andrea Pennacchi al pubblico e la seconda da Marco Baliani alla compagnia di attori. Mentre Pennacchi pone l’accento sulla condizione di schiavitù che sembra ridiventata attuale oggi e su come il conflitto tra classi sia anche alla base della commedia goldoniana, la lettera di Baliani si concentra invece sulla dimensione laboratoriale che ha accompagnato il lavoro della compagnia sul testo. 

L’Arlecchino sovrappeso con le sue goffe prestazioni e la sua ingordigia, l’improbabile travestimento di Beatrice nei panni del fratello creduto morto, l’irascibile facchino e cameriere di colore che parla in dialetto veneto, l’ironia di Smeraldina sull’infedeltà degli uomini. Un affresco irresistibilmente comico, farsesco, assurdo eppure rappresentativo di iniquità sociali e miopie culturali. 
Arlecchino è stato scritto nel 1745 a Pisa, periodo in cui Goldoni lavora ancora come avvocato anche se si occupa da tempo di teatro. Acconsente a scrivere l’opera su richiesta dell’attore Antonio Sacchi (o Sacco), di dar vita a un canovaccio che esalti la sua personalità truffaldina e mordace. 

“Quasi 280 anni dopo, nel 2024 – racconta Baliani – Andrea Pennacchi, attore tra i più amati da me, mi ha cercato per riportarlo in scena. Ho quindi voluto prima di tutto formare una compagnia di attori veneti, e la prima parte del lavoro si è svolto appunto su di loro. La scelta si è basata non solo sul talento ma anche sulla loro emotività, sulla capacità di relazionarsi tra loro e creare l’atmosfera briosa e leggera che avrebbero dovuto saper trasmettere al pubblico. Soprattutto ho scelto attori che sentissero l’urgenza e l’inevitabilità del loro essere attori, piuttosto che indirizzarmi su interpreti bravi ma freddi, proprio per il carattere ‘operaio’ che traspare da questo lavoro e di cui Pennacchi è maestro”. 

Se l’Arlecchino di Goldoni, infatti, è già abbastanza scaltro da tenere il piede su due staffe servendo due diversi padroni di cui riesce a farsi gioco, quello di Baliani spinge affinché il mondo borghese così solido nelle sue opere venga disgregato dalla drammaturgia. Dove la figura del proprietario viene assorbito completamente dall’attore/operaio. L’operazione metateatrale della compagnia scalcagnata che viene ingaggiata dall’impresario Pantalone tramite agenzia interinale, per portare in scena la celebre commedia goldoniana, amplifica questo aspetto, “creando un gioco di scatole che è molto serrato all’inizio. Poi, man mano che si va avanti, si perde per diventare del tutto irriconoscibile, per volontà del regista, e questo significa che funziona”, come spiega l’attore Valerio Mazzacurato che in scena è Pantalone. 

Stravolgere l’opera classica era fin dall’inizio nelle intenzioni, ha spiegato Pennacchi: “Andarci dentro, giocandoci, rompendola. È una cosa che ho imparato proprio qui a Ravenna: che i classici li puoi spezzare, rovesciare, stravolgere, perché se sono davvero classici rimangono in piedi lo stesso”. Se però è inevitabile, dice ancora Pennacchi, lottare contro la tradizione che soffoca i personaggi che vorrebbe far volare, questo stravolgimento non deve essere fine a se stesso. La commedia a teatro è una porta, oltre la quale c’è un pensiero”. 

Ecco allora che i dialoghi traboccano di battute graffianti su immigrazione, razzismo, sfruttamento economico e disparità di genere, la parola dazi usata al posto della goldoniana dogane perché lo spettatore percepisca quanto il teatro sia sempre agganciato alla realtà contemporanea. “Non è più possibile – spiega ancora Baliani – fare teatro come nell’’800 o nella prima parte del ‘900, perché i tempi sono diversi e perché oggi se non hai la giusta recettività su quel che accade intorno, non puoi fare teatro”.

Bernini, il potere e la seduzione dell’ellisse

Bernini, il potere e la seduzione dell’ellisse

Bernini e il suo rapporto con il potere, la sua teatralità e la sua arte, figlia del ‘600, secolo per eccellenza dell’oscillazione ellittica, capace di trascinare la prospettiva fuori dal suo centro e sdoppiarla, in grado di parlare all’uomo di una duplicità da cui imparare a guardare a se stesso e al mondo. Lettere a Bernini, monologo del regista Marco Martinelli, dato alle stampe per Einaudi a novembre e in scena al Teatro Rasi di Ravenna dal 3 al 15 dicembre, racchiude in poche decine di pagine temi cari al regista, regalando però al pubblico che segue il Teatro delle Albe aspetti inediti della sua produzione drammaturgica.

Innanzitutto un testo pubblicato, per la prima volta, prima delle prove e quindi diverso rispetto alla versione andata in scena, che risente inevitabilmente della entelechia scaturita dal rapporto col testo dal vivo, sul palco. 

In secondo luogo la sua genesi, raccontata dallo stesso regista all’incontro del 7 dicembre scorso al Rasi di Ravenna con Mauro Bersani, consulente per la casa editrice torinese. Lettere a Bernini prende infatti le mosse nel 2015 con la visita di Martinelli, insieme ad Ermanna Montanari (co-ideatrice dello spettacolo), nella chiesa di San Carlino alle Quattro Fontane a Roma, progettata da Francesco Borromini, rivale di Bernini. 

Un edificio considerato tra i capolavori dell’architettura barocca, che “pur con le sue piccole dimensioni, costringe l’osservatore a guardare in alto, verso la volta, aprendosi così verso il mistero in cui siamo immersi”. 

Il regista, affascinato, decide di approfondire la conoscenza attraverso una considerevole quantità di letture che tuttavia lo conducono, paradossalmente, proprio verso Gian Lorenzo Bernini, l’acerrimo nemico di Borromini. 

Due geni e due personalità antitetiche. L’uno arrogante, dispotico, scaltro e capace di ingraziarsi le simpatie dei potenti, in grado di sopravvivere a cinque papi e di procurarsi le loro commissioni. L’altro introverso, triste,  insofferente alle regole dell’architettura e morto suicida. 

Un testo, quindi, partito esso stesso da una polarità, da un’oscillazione che interroga l’artista su quanto sia disposto a vendersi per potersi esprimere. 

Così, se all’inizio, racconta Martinelli, avevo pensato ad un dialogo tra i due, poi Bernini, come un vampiro, ha reclamato in modo prepotente lo spazio. Perché è accaduto? Perché Bernini è il teatro stesso. Eccolo quindi sul palco, interpretato dall’attore Marco Cacciola, che con una straordinaria padronanza vocale e scenica, dà voce al Bernini corrotto e venale, che si vanta della propria sfrontatezza e sbeffeggia il Borromini paragonandolo a un corvo. Frasi brevi, dal tono concitato, che alternano il colorito dialetto napoletano alla lingua italiana, che si susseguono ad un ritmo serrato e incalzante, senza stacchi predisposti. 

Una scelta, come Bersani ha evidenziato, che richiama il Pasticciaccio di Gadda, altra opera in cui è evidente “come l’oscillazione di questi due fuochi, il dialetto e l’italiano, si adatti in modo particolare al teatro che non dà risposte, ma serve a causare incidenti di percorso tra due posizioni possibili”. Lo stesso monologo conosce frequenti intervalli in cui si inserisce un narratore esterno, che racconta gli avvenimenti in terza persona, in quella che Bersani ha definito amalgama polifonico. Forse Bernini stesso, depurato dall’acredine della sua invettiva contro l’intagliatrice di pietre che lo cita davanti ai cardinali per non essere stata retribuita equamente. 

Il lettore/spettatore è quindi  di fronte al Bernini furioso che tormenta il suo modello di undici anni, preso dalla strada per posare come angelo con la corona di spine, che impreca contro San Carlino, che definisce cuillon il sovrintendente Colbert, che si vanta di saper stare al mondo, che “parla e disegna (… ) veloce come una lucertola”. Ma emerge anche un altro Bernini, mentre parla della sua lotta per rendere molle la pietra, per farla diventare carne viva, del suo rovello per giungere ogni volta a catturare la luce. Per poi finalmente riconoscere la grandezza di Borromini, col suo “cielo di cerchi e croci di stucco”, quando viene a sapere che è morto. 

In questa trascinante traiettoria ellittica, le prove del Coviello, farsa pensata dal Bernini per Sua Santità, in un inquietante spostamento dal Barocco all’età contemporanea, in cui Cacciola-Bernini apre le gigantesche ante delle scatole di legno sul palco e compaiono le immagini video del concerto che Wilhelm Furtwängler diresse nel 1942 alla fabbrica dell’AEG in Germania, in pieno delirio hitleriano. La musica è di Wagner, gli operai guardano Bernini, sulle immagini la scritta in latino Hoc theatrum hic labor est (“questo teatro è qui per lavorare”), forse proprio questo l’incidente tra le due visioni possibili su cui la drammaturgia di Martinelli vuole richiamare l’attenzione.