THEATROPEDIA #13 – Il grande attore

THEATROPEDIA #13 – Il grande attore

Sono emozionato, ho trovato il biglietto per la prima del teatro “alla Scala” e con esso tra le mani attraverso, a passi felpati, il corridoio dei palchetti, pensando già alla meraviglia che da qui a poco si magnificherà davanti ai miei occhi. Con accuratezza tento di aprire la porta, devo fare forza, fino a che una volta riuscitoci l’imbarazzo più totale mi fa desistere dall’entrare. Chiedo scusa a chi, all’interno, dopo aver chiuso le tendine del palco, si sta scambiando effusioni; chiudo la porta. È lunedì 26 dicembre 1831, Santo Stefano; a alla Scala di Milano c’è la prima della Norma di Vincenzo Bellini e a teatro è possibile fare anche questo: l’amore, come in un moderno privé. Guardo bene il biglietto, è colpa mia, ho sbagliato palco, entro in quello affianco, quello giusto, ci sono due signorotti per bene che gentilmente mi salutano, ricambio, noto che hanno con loro del cibo, stanno mangiando, per ora, dopo chissà; nel dubbio mi siedo.

Nel XIX secolo il teatro di prosa perde la sua rilevanza, gli attori, quelli importanti, sono i tenori, considerati interpreti completi che danno forma al genere teatrale più in voga: l’opera lirica. Sono questi gli anni del grande attore. Qui, oggi, nel 1831, quando lo spettatore si reca ad uno spettacolo l’unica cosa di cui si interessa, anticipatamente, è sapere da chi l’opera sarà interpretata, quali sono gli interpreti protagonisti. Nasce il gossip, quello sui vip. Questo grazie anche ai giornali che si occupano sempre di più, seriamente (e non), di critica teatrale, seguendo spesso le vite dei protagonisti della scena e generando così il mito del grande attore che cambierà la concezione del teatro avuta finora: il teatro degli attori, la compagnia, diventa dell’attore, il divo.

Nel frattempo il sipario si alza, inizia l’opera, il coro canta: “Ita sul colle, o Druidi, Ite a spar ne’ cieli…”; ed io mi perdo nella magnificenza della scena che soddisfa del tutto la mia curiosità. Appena il coro finisce di cantare sento sbatter le porte degli altri palchi e poi anche quella che chiude il mio posto… è incredibile, gli spettatori si fanno visita tra loro come se fossero ognuno a casa propria ad ospitare l’amico. C’è chi è addirittura appoggiato al parapetto del palco con le spalle rivolte al palcoscenico, disinteressato completamente allo spettacolo. Ogni tanto qualcuno butta un occhio, qualcun altro esclama, “io vedo solo gli intermezzi ballati”, qualcuno poi, “ancora deve uscire Donzelli”, il tenore. Mi vien da pensare: possibile che solo io trovo insensato questo comportamento? Mi guardo meglio intorno e la risposta è: no! C’è pure chi con un monocolo all’occhio guarda interessato ma infastidito l’opera proprio come a chi, invece, sembra dar fastidio la musica che di sottofondo (dell’opera) disturba le sue ciarle. Il teatro è un momento centrale della vita degli uomini dell’Ottocento, un momento di svago, un occasione di incontro. Non c’è la televisione, il cinema, il campionato di calcio, Sanremo e le canzonette, il concerto, non c’è nient’altro che il teatro come fonte di divertimento. Ed è una macchina economica non di poco conto; proprio per questo lo Stato italiano nel 1868 introdurrà una tassa del 10% sugli introiti lordi delle rappresentazioni teatrali per far fronte ai debiti finanziari del Bel Paese.

Finita la prima della Norma, tra applausi scroscianti e gente in visibilio, tutti si portano all’uscita degli artisti, vogliono vedere, alcuni toccare, conversare con il tenore Domenico Donzelli e la soprano Giuditta Pasta, sanno tutto di loro; un signore mi ha mostrato su di un foglio le loro carriere, anno per anno, le opere a cui hanno preso parte, proprio come si farebbe oggi con i calciatori e le squadre in cui questi hanno militato. Io, mi allontano dalla calca, dalla confusione e gironzolo nella capitale del Regno Lombardo-Veneto pensando a quel che sarà il teatro negli anni venturi, non so cosa mi piaccia di più. Ora, immaginatevi questa situazione sociale del teatro e pensate a come un attore di prosa si possa inserire nel divismo perpetrato dall’opera lirica, a come possono reggere il confronto quelle piccole compagnie di guitti con le grandi compagnie iper-finanziate dell’opera. Per scoprirlo ci dobbiamo spingere giusto di qualche anno più in là del 1831 e andare a Firenze.

Tredici maggio 1865, in occasione di alcune celebrazioni per il sesto centenario della nascita di Dante Alighieri, al Teatro Cocomero (oggi Niccolini) di Firenze va in scena Francesca da Rimini di Silvio Pellico. Fin qui niente di importante per gli uomini di quel tempo, lo abbiamo detto, gl’interessa soltanto sapere chi è il grande attore che si esibirà. Lo spettacolo è significativo perché vede in scena, insieme, i tre attori considerati “i più grandi del tempo”: Adelaide Ristori; Ernesto Rossi; Tommaso Salvini. A guardarli in scena la prima cosa che si nota è la loro tecnica attorica con la quale riescono a fronteggiare il successo di quelli dell’opera lirica. Il grande attore di prosa è riuscito a forgiare un tipo di comunicazione che accomuna volto, gesto, voce, creando una tensione drammatica che riesce ad attrarre anche lo spettatore più distratto. Difatti l’attore Salvini, interpretando con la sua verità il personaggio cattivo del Lancillotto riesce a far affezionare il pubblico anche al suo personaggio negativo. La sua interpretazione sarà ritenuta da tutti fenomenale. Il grande attore di prosa si è adattato agli ampi palcoscenici dei teatri dell’opera con i suoi movimenti balenanti; con gli intervalli di musica sotto forma di partitura musicale. È il cosiddetto animale da palcoscenico: Salvini intona le sue battute con le tonalità da basso, Ernesto Rossi con quelle del baritono, Adelaide Ristori recita in inglese pur non conoscendolo. Nessuno ai loro spettacoli ha nostalgia del melodramma, recitano le parole in modo armonioso, il loro copione è un vero e proprio spartito musicale.

Il teatro di prosa alla fine dell’Ottocento è ad appannaggio del divo. Il grande attore non si preoccupa più del valore artistico del testo che è visto come una intelaiatura in cui agisce il personaggio da interpretare a proprio gusto, spesso lo stesso personaggio, infatti, infonde nel pubblico un’impressione contraria a quella prevista dal drammaturgo. Per meglio far comprendere la situazione ho tra le mani alcune lettere intercorse tra Adelaide Ristori e il drammaturgo Paolo Giacometti, in una in particolare si legge della preoccupazione dell’attrice sui costumi di Maria Antonietta, personaggio che la stessa dovrà interpretare in un’opera drammatica che l’autore, a cui l’attrice si rivolge, ancora non ha scritto; difatti la Rinaldi ci tiene a precisare al povero drammaturgo: “il costume viene prima del testo”.

Sto per lasciare Firenze e il 1865 con una certezza, questi appariscenti divi del teatro hanno donato l’intera vita alla loro arte attorica che non consiste nel ritrovare, “semplicemente”, ogni volta se stesso nel personaggio, ma piuttosto nello sforzo di annullare sé nel momento stesso in cui si crea il personaggio. D’altronde negli anni a venire la Rinaldi rinfaccerà alla sua erede, Eleonora Duse, il fatto che la giovane interpreti un repertorio limitato di personaggi tutti uguali, e sostanzialmente tutti eguali a se stessa, invece di cimentarsi nello sforzo dilacerante di annullarsi per dar vita all’altro. Un attore può avere tutte le doti possibili, ma se gli manca quella “della trasformazione della sua soggettività”, proprio come un autore fa quando compone, resta solo un semplice attore, afferma Ernesto Rossi che dà a questa attitudine, del grande attore, una malcelata qualità divina, innata, che non si può “acquistare mediante lo studio”.

Gli attori dell’Ottocento, dunque, vissero anche di vana gloria, ma gli va ascritta col senno di poi che la loro fama fu davvero costruita con fatica e meticolosa dedizione, oggi che i divi son ben altri, beh non vedo poi così strano il secolo del romanticismo e, come un grande attore, solo me ne vo per la città a intonare anche io la mia voce e non chiedetemi chi sono perché son pronto a diventare un altro.

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Theatropedia è un blog di Aniello Nigro concepito come enciclopedia essenziale, raccontata, del Teatro. Fonte di informazioni per un primo approccio alla materia e spunto prolifico di approfondimenti tecnici. Segue un suo percorso tematico (non sempre cronologico) dall’origine del Teatro ai giorni nostri, ogni voce è formata da una parte romanzata ed una parte tecnica dell’argomento in questione. Ad affiancare le voci principali ci saranno poi quelle correlate dei protagonisti che siano essi drammaturghi, registi, attori o altro.

Delirio Creativo, rito d’improvvisazione collettiva nel cuore di Napoli

Delirio Creativo, rito d’improvvisazione collettiva nel cuore di Napoli

Nel cuore di Napoli, nel mezzo del cammin della città, c’è una lunga e dritta via che delimita l’antica Partenope da un luogo alieno. Siamo in Via Foria al numero 93, dove un caos di vite erranti si riunisce in un rito d’improvvisazione collettiva: Il Delirio Creativo, un’intuizione artistica e sociale di Raffaele Bruno.

Un luogo – un teatro – in cui non v’è l’attore, non v’è lo spettatore; chi vi partecipa porta in dote solo il proprio vissuto, le proprie ambizioni, la propria essenza per allenarla alla vita ch’egli vuole per davvero. Il Delirio Creativo si configura come una vera e propria palestra dell’anima che stimola, in primis, a mettere in scena la propria essenza a se stessi. Sorprendendosi di essere belli, intelligenti e, perché no, anche positivamente stupidi. È il momento in cui ognuno decide di amarsi e di rispettarsi, inducendosi al passo che va oltre la vita ordinaria e che porta a quella straordinaria. Per questo sembra proprio che, una volta finito il rito d’improvvisazione, ognuno torni a casa lasciando la propria anima lì in costruzione, per poi ritrovarla nel rito successivo. Invero è un “non luogo” (come dice, la co-conduttrice Federica Palo nell’intervista) che ha insito in sé innumerevoli possibilità di altri e nuovi mondi. Uno spazio vuoto in cui si lavora, forse inconsapevolmente, alla rottura (n.d.a.) dello status sociale, delle convenzioni; creando quel dramma sociale di Turneriana memoria che fu la base del rito e del conseguente teatro. Qui ogni attimo o gesto, estrinsecato attraverso l’improvvisazione dell’arte performativa, è primordiale ed eterno. Chi da anni vi partecipa, potrebbe testimoniarvi che in quel luogo “strano” e fuori dal comune, si è magnificamente confortati. Perché è baluardo dell’oltre, del possibile ed anche se non vi saprà spiegare bene cosa sia, vi dirà che esso è necessariamente essenziale. In fondo non è proprio questo quello che diceva Ionesco a proposito del teatro? Un’attività che non serve a niente ma che è assolutamente necessaria.

Il Delirio Creativo è uno dei motivi per cui oggi si ha ancora bisogno del teatro, un’attività che insegna a cercare la bellezza nelle pieghe più cupe di ogni vita. Non a caso il rito collettivo d’improvvisazione, punto cardine del Delirio, da anni è proposto nelle carceri, nelle cliniche psichiatriche, nelle strade periferiche e nelle scuole; dove il delirio che si trova in certi personaggi, più che in altri, viene filtrato dalla creatività che lo rende comprensibile, catartico, affascinante e didattico.

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“Sono tredici anni che vediamo il volo di fantastiche farfalle che giungono al Delirio Creativo credendosi bruchi”, afferma Raffaele Bruno. Una trasmutazione questa che la si può percepire ed osservare assistendo ad uno dei riti che, una volta al mese, avviene al civico 93 di via Foria; oppure nelle tante iniziative organizzate dallo stesso Bruno coadiuvato da Federica Palo ed i partecipanti del Delirio. Luoghi dove la bellezza è spesso offuscata dall’indifferenza politica e sociale. Chi provar non vuole a sorprendersi e sorprendere? C’è qualcuno che davvero si riconosce allo specchio e può dire: io sono…?! Siamo tutti stati generati e ad un certo punto bisogna pur conoscersi e magari perché no ricrearsi. Questo “non luogo” da quinta parete, quest’isola felice e vagabonda in un mare d’incomprensione umana, è un intimo auspicio che il mondo, spesso nel caos più totale, possa divenire un luogo più comprensibile e godibile in un moto perpetuo da delirio creativo.

THEATROPEDIA #11 – Il teatro giapponese. L’erotismo un problema di Stato

THEATROPEDIA #11 – Il teatro giapponese. L’erotismo un problema di Stato

Camminando lungo il fiume Kamo, nella Kyōto del 1606, tra il cinguettio degli uccellini che armonizzano l’ambiente e lo scrosciare dell’acqua che sembra essere preludio di un imminente quanto imprevedibile fenomeno naturale, sono attirato da un piccolo gruppo di persone che stanno sedute davanti al greto del fiume. Avvicinandomi scorgo, tra le loro teste, delle tavole di legno poste proprio sulla riva. Sembra un palcoscenico improvvisato. Penso sia davvero strano. Difatti, secondo i miei ricordi, l’arte performativa in Giappone nel 1606 ha convenzioni rigide tramandate da secoli. La più conosciuta tra tutte è quella del che è un genere teatrale frutto di un’evoluzione artistica e culturale di due precedenti generi performativi: il sarugaku-nō e il dengaku-nō. Nella prima forma troviamo una mescolanza d’arti coreutiche musicali, acrobatiche e mimiche messe in scene allo scopo di divertire. “L’attuale forma di circo”. La seconda è letteralmente l’abilità del canto corale eseguito, in origine, dai lavoratori agricoli coreani, simile al canto delle mondine italiane. Il ha avuto il “merito” di elevare il teatro del passatempo, fino a quel momento senza regole, in un’arte sofisticata e colta. Una disciplina dello spettacolo molto influenzata dal pensiero sacro del buddismo zen il quale si basa sul benessere interiore che si raggiunge nell’unione con la totalità dell’essere e attraverso il superamento dei desideri individuali.

È per questo che i più noti drammi mettono in evidenza le paure degli uomini attraverso la rappresentazione di spettri, demoni, anime tormentate che hanno vissuto una vita terrena schiavi dell’amore, dell’onore e del piacere. Dal punto di vista drammaturgico si segue uno schema rigido che pone in scena in primo luogo l’innocenza e la pace del mondo degli dei, poi la caduta dell’uomo, il pentimento, la possibilità della redenzione e infine la sconfitta delle forze che si oppongono al mantenimento della pace e dell’armonia. La conclusione è sempre a lieto fine ed è sottolineata con una danza di ringraziamento agli dei.

Tornando alle tavole di legno sul greto del fiume mi chiedo: Lo schema drammaturgico del Teatro può essere sviluppato scenicamente su questo palcoscenico improvvisato? Impossibile, qui di fronte a me non v’è l’architettura del per cui lo spettacolo, in mancanza della scena ordinaria, sarebbe insignificante. Essa è, infatti, parte integrante, indispensabile, del e, nel 1600, ha già raggiunto la sua canonica definizione: è un palcoscenico coperto da un tetto retto da quattro pilastri, simile a quello indiano, un ponte che collega il retropalco ad una stanza, detta degli specchi, oltre che agli spogliatoi, e un dipinto di un pino contorto a fondo scena. Il palco e la platea, poi, è diviso da sabbia bianca, mentre vicino al ponte vi si trovano tre alberelli di pino. Chiaramente questi elementi non sono semplici sostegni o decorazioni ma hanno dei significati necessari perché lo spettacolo possa essere compreso. Il tetto che copre il palcoscenico, rappresentante il luogo terreno, delinea l’area sacra del luogo sovrannaturale, ed è collegato a quest’ultimo dai pilastri che si configurano, quindi, come i tramiti dei due luoghi, la stessa funzione ha poi il ponte collegante il mondo terreno del palcoscenico all’altro mondo della camera degli specchi. Il pino è anch’esso un simbolo mutuato dal rituale shintoista che lo vuole come il mezzo con cui le divinità scendevano sulla terra. Ogni elemento è intriso di simboli e significanti di conseguenza acquisiscono una particolare funzione drammaturgica. Guardando ancora quella piattaforma sul fiume si nota l’assoluta mancanza di simbologia che esclude ogni dubbio, succederà sì qualcosa su quel palco ma di sicuro niente che ha a che fare con il .

Mi siedo, cerco di interloquire con uno spettatore e gli chiedo quale spettacolo sta per andare in scena. Non mi risponde ma da come mi guarda capisco che anche lui non sa bene di cosa si tratta e questo arcano accentua ancora di più la mia curiosità che è al limite, oramai, dell’impazienza.

D’improvviso cala il silenzio, anche il fiume sembra frenare la sua impetuosa corsa. Dei musici, al lato del palcoscenico, suonano un motivo melodico e maestoso che magnifica l’entrata di una donna vestita da uomo, all’occidentale, il signore al mio fianco scuote la testa. L’attrice travestita dicono sia la figlia di un sacerdote shintō di Izumo, si chiama O Kuni, è da tre anni che si esibisce in questo luogo, fa teatro itinerante. Lo spettacolo inizia con una danza rivolta al Buddha Amida, eseguita dalla stessa “sacerdotessa” in collaborazione con le ballerine, poi più si va avanti e più la proverbiale aurea sacra del teatro orientale sembra perdersi, i movimenti dell’attrice e delle danzatrici diventano sempre più liberi e sinuosi, la musica “alta” giapponese è sostituita da quella popolare e i costumi così particolareggiati e simbolici sono semplici vesti colorate. E non è solo la mimica e la scena a differire dal classico teatro nipponico ma anche la tematica, infatti, la storia evocata in scena parla di due amanti, uno dei quali, lui, è colpevole di un omicidio e questo è il contrasto principale che rende la relazione dei due impossibile, per via dell’onorabilità familiare della donna. La storia si configura come un “Romeo e Giulietta” giapponese, senza samurai, né grandi mire spirituali. È il kabuki. Lo spettatore a mio fianco fa cenno di avvicinarmi, mi fa una confidenza, dice che questa è una storia vera e che la protagonista nella realtà è la stessa O Kuni. Dal mormorio però del pubblico capisco che quest’arcano rilevatomi con il sorriso di chi sa, non è poi tanto un segreto, sembra che tutti lo sappiano. Intanto lo spettacolo finisce tra applausi scroscianti. Sono pronto per andar via ma noto che stranamente c’è una ressa formata prettamente da uomini: tutti diretti verso il palcoscenico. Pare che lo spettacolo continui. Cerco di farmi spazio, qualcuno mi fa capire che per “partecipare” a quella calca c’è bisogno di un biglietto, una prenotazione, desisto. Vado via incuriosito.

Sono abbastanza distante da sentire le voci chiassose di quegli uomini accalcati come un leggero brusìo quando si avvicina un uomo, mi chiede una cosa strana, “se le donne dello spettacolo erano già pronte”. Mi domando: pronte a che? Lo guardo stupito, lui invece mi sorride e da come muove la testa mi fa intendere che quelle donne a fine spettacolo sono pronte a concedersi. Da quello che mi dice pare sia consuetudine che le donne dello spettacolo offrano prestazioni sessuali agli spettatori. Il signore è molto informato, è un ispettore mandato in città dallo shōgun in persona e mi fa capire che stanno per arrivare seri provvedimenti a carico di quella compagnia teatrale.

Il kabuki da quando O Kuni tre anni prima l’aveva ideato ad oggi ha avuto un’enorme prolificazione di emuli. E se da una parte il suo successo si deve attribuire alla facilità del linguaggio meno ricercato e più quotidiano di quello elitario del , dall’altra parte le compagnie improvvisate per ingordigia hanno capito che sfruttando come specchietto per allodole i movimenti sinuosi contenuti in questi spettacoli, potevano incrementare la platea facendo prostituire le ballerine o comunque offrendo meretrici prima e dopo lo spettacolo. Il Kabuki, nato per uno scopo nobile e popolare da un teatro sacro, etico, come il , si configura oggi nel 1606 come un luogo di libertà sessuale.

Lascio il fiume Komi, la capitale Kyōto, ma non il Giappone perché avendo la possibilità di viaggiare temporalmente con facilità, voglio proprio vedere se quell’ispettore aveva ragione e cosa ne è stato del kabuki successivamente. Per questa ragione mi ritrovo a Tōkyō nel 1696. In questi anni gli spettacoli più popolari sono quelli delle marionette che si contendono il primato proprio con il kabuki il quale nel frattempo ha avuto un’evoluzione importante.

Me ne sono accorto appena sono entrato a vedere uno spettacolo del genere in un teatro molto simile a quello se non per una particolare differenza, il ponte non collega più la stanza degli specchi ma si protende tra il pubblico quasi come a voler significare che quel teatro è per tutti, voler fare partecipi della storia gli stessi spettatori. Non solo, le innovazioni tecniche sono anticipatrici dei più moderni teatri del novecento europeo ho visto un palcoscenico girevole e dei cambi-costume velocissimi, possibili grazie a un particolare kimono composto da una serie di fili che tirati scoprono altri costumi o decorazioni simboliche al di sotto del primo abito indossato, tecnica usata dai trasformisti del primo novecento. La cosa che di più colpisce è che, in questi tempi, il kabuki può essere rappresentato soltanto dagli uomini. Quell’ispettore aveva ragione. Difatti lo shōgun nel 1629 ha proibito il kabuki a tutte le donne colpevoli a suo dire di istigare, con le loro movenze, la perdizione morale degli uomini e di conseguenza creare disordine sociale. A ragione di ciò decise di far interpretare gli spettacoli del kabuki da giovanissimi ragazzi ma anche a loro, nel 1652, gli fu proibito perché risultavano seducenti quanto le donne e fu permesso, dallo shōgun, di rappresentare questa forma di spettacolo solo agli uomini e solo a una condizione che questi si rasassero la fronte per non accentuare la bellezza fisica.

Certo la situazione del teatro orientale non ce la saremmo aspettata così complicata dal punto di vista materialistico, sapendo che essa nasce dal mero spiritualismo. Sembrerebbe che in quel periodo gli ormoni dirigessero un’arte secolare che per secoli non aveva avuto sentore di manifestazioni orgiastiche. Lascio il Giappone del ‘600 con un dubbio: non è che la crescente fama del kabuki, il teatro che aveva fatto breccia nel popolo, desse fastidio “all’ordine militare costituito”? La libertà di pensiero data alle masse non è mai piaciuta ai dittatori, per ovvie ragioni.