da Andrea Zardi | 22 Mag 2019 | Uncategorized

Fondato nel 1979 da Loredana Furno, il Balletto Teatro di Torino ha affrontato negli anni un repertorio molto vasto e si è contraddistinta come compagnia legata ad un coreografo residente che lavorava tutto l’anno con la compagnia sviluppando un linguaggio molto preciso, una sorta di “firma” autoriale riconoscibile e formando quindi anche il vocabolario fisico e dinamico dei danzatori. Nel 2017 Loredana Furno ha passato il testimone della direzione della compagnia a Viola Scaglione, che ha danzato – e danza tuttora – nel BTT, con cui ho avuto il piacere in diverse occasioni di confrontarmi.
Negli ultimi due anni il Balletto Teatro di Torino ha iniziato un percorso di crescita sviluppando progetti interdisciplinari in Piemonte e in realtà nazionali (Concept #1, We can be waves, Stage to screen – Experiment #1, Perfect Broken), oltre alla messa in scena di “spettacoli d’autore”: da Josè Reches (Kiss me hard before you go) a Jye-Hwei Lin (I love you but) e Laura Domingo Agüero, fino ai più recenti Andrea Costanzo Martini ed Ella Rotschild (Balera/Timeline), il duo Ivgi&Greben (Document) e un progetto in cantiere con Manfredi Perego.
Viola Scaglione non definisce questa fase della compagnia come una trasformazione, ma come una naturale presa di coscienza maturata in anni di esperienza. Oltre al suo impegno come danzatrice, Viola ha affiancato tutti i coreografi che nel corso degli anni hanno collaborato alle produzioni della formazione artistica. Proprio questa esperienza ha fatto maturare l’idea che il modello di compagnia d’autore non fosse più l’unico riferimento possibile. L’impronta adottata dal Balletto Teatro di Torino è quella della massima versatilità, all’insegna dello slittamento continuo fra autori, stili diversi e linguaggi coreografici. Connotato rilevante alla luce del panorama italiano, ormai stretto nella morsa dei soli, dei duetti e delle produzioni express, declinabili a ogni situazione performativa,
Come una compagnia sceglie i propri coreografi? In base a quali parametri? In base a quali – dato raro e quanto mai confortante – principi etici e professionali?
L’attuale direzione, alimentata da una continua curiosità nei confronti del panorama contemporaneo, sceglie gli autori in base alle loro metodologie e tecniche di trasmissione, agli spazi che vengono dati al processo creativo, il quale assume un’importanza equivalente al momento finale della messa in scena. L’approccio condiviso, rispettoso e sano fra coreografo e danzatore, mai sottoposto all’abitudine di un lavoro sempre uguale e riconoscibile, chiede a noi di guardare con occhio diverso il percorso di una compagnia e scrutandola come un organismo continuamente in cambiamento, non solo dal punto di vista formale, ma soprattutto artistico.

Il Balletto Teatro di Torino ha dimostrato in questa stagione l’efficacia del cammino intrapreso attraverso le due nuove creazioni: Timeline, della coreografa israelo-tedesca Ella Rotschild e Balera del piemontese Andrea Costanzo Martini. Questi due coreografi, accomunati da una formazione estremamente tecnica e anche dal comune percorso lavorativo sia per la Batsheva Dance Company che per Inbal Pinto, hanno lavorato con i danzatori con esiti estremamente diversi.
In Timeline, pièce ambientata in uno spazio scenico cupo ed essenziale, i danzatori entrano solennemente fino a porsi davanti al pubblico attivando un gioco basato sulle trasmissioni di movimento da un corpo all’altro. La linea del tempo disegnata dalla Rotschild passa attraverso le quotidianità e gli accadimenti del nostro vivere, focalizzandosi su come questi vengono interpretati ed elaborati dalle persone. Il centro di questa creazione è una danzatrice, abbandonata in un angolo dello spazio, mentre il gruppo si perde in una concitata conversazione ignorando quello che è accaduto a un altro essere umano.
Il tempo viene riletto dalla coreografa, e interpretato con puntiglio dai performer, come un inesorabile processo che può essere frammentato, concentrato, dilatato dai ricordi vissuti dai performer. Il succedersi di azioni, ripensamenti, ricordi avviene in chiave ironica, ma la discontinuità apparente dei vari momenti trova la sua chiave nella continua interazione spaziale fra i danzatori.
Più diretto ed esplicito – come d’altronde ha già dimostrato in altre sue creazioni – è Balera di Andrea Costanzo Martini. In questa creazione l’impronta fisica dell’autore risulta maggiormente risaltata nella sua chiave stilistica riconoscibile, soprattutto nell’uso dei tempi e intensità di movimento e nelle disposizioni spaziali. In questa pièce emerge con forza il grande lavoro di trasmissione che è stato realizzato in fase di costruzione. La scena si apre con uno schieramento di sedie, i danzatori vestiti con abiti scelti in tinte grezze e monocromatiche e un grande cono/grammofono appeso sovrasta tutta la scena e modifica l’illuminazione sul palco, in un gioco di ombre a tratti sinistro. Il grammofono ricorda curiosamente il logo della casa discografica di inizio Novecento His Master’s Voice.
Combinazione intrigante se si pensa che questo lavoro esplora il rapporto fra codici di movimento stringenti e “rigidi” e il piacere della dinamica libera. Sulle sedie i danzatori sono presi da una serie di piccoli movimenti controllati ma estremi, con una precisa intensità espressiva volta a esplodere in diversi momenti verso il pubblico. Una voce dall’alto impone ai danzatori i passi da eseguire, le parti del corpo da muovere, fino a portarli a una liberazione dinamica ed esplosiva, interpretata in chiave ironica nell’esasperazione del vocabolario classico e dei balli folklorici. Una scelta ardita quella di concludere lo spettacolo con una coreografia scritta su una canzone dal ritmo persistente e riconoscibile, che tocca in qualche modo l’immagine dei balli di gruppo di una balera.
Queste due creazioni hanno dato modo al pubblico torinese di vedere una compagnia che punta a crescere in ambito nazionale ed europeo e che punta ad ampliare il proprio repertorio all’insegna del continuo cambiamento, con energie sempre rinnovate e obiettivi rinnovati. La città di Torino ha bisogno, oggi come non mai, delle realtà solide che da anni lavorano sul territorio e fanno assurgere la città a centro di produzione coreica di rilievo.
TIMELINE
Coreografia Ella Rothschild
BALERA
Coreografia Andrea Costanzo Martini
Disegno luci: Yoav Barel
Costumi: Walter&Hamlet
Assistente: Lorenzo Ferrarotto
Danzatori del Balletto Teatro di Torino: Lisa Mariani, Viola Scaglione, Wilma Puentes Linares e successivamente Nadja Guesewell, Flavio Ferruzzi, Hillel Perlman, Emanuele Piras
Creazione 2018 per il Balletto Teatro di Torino
Con il patrocinio e il sostegno dell’Ambasciata di Israele in Roma
In collaborazione con la NOD – Nuova Officina della Danza
da Andrea Zardi | 3 Set 2018 | News

Spellbound Contemporary Ballet
Al Teatro Vascello, nella suggestiva estate teatrale di Roma, arriva la danza contemporanea nazionale e internazionale, sotto la cura organizzativa di Valentina Marini. Dal 2016 il festival Fuori Programma propone una programmazione curata di spettacoli, e da quest’anno la stessa Marini ha preso in toto la direzione artistica del festival: impresa sicuramente rischiosa, in una città dove le risorse e la promozione vengono quasi interamente indirizzate ad eventi all’aperto.
Abbiamo voluto farle solo un paio di domande a proposito di come si inserisce il suo lavoro di programmatrice in questa missione, all’interno della sua attività con il DAF e della compagnia Spellbound. In una piacevole conversazione, è emersa quella che è stata la firma che ha contraddistinto questa edizione del festival: in primo luogo l’idea che la danza, nel suo significato più compiuto, si debba esprimere pienamente come opera del corpo per un pubblico che la cerca, la desidera, senza doversi immergere in panorami performativi altri per trovare giustificazione. In seconda istanza, questo festival si divide fra spettacoli di rilievo in ambito internazionale (Vertigo Dance Company, Hillel Kogan, Dunja Jocic) e produzioni italiane sia provenienti da diverse zone della penisola (Abbondanza/Bertoni, Spellbound Contemporary Ballet, Compagnia Zappalà Danza).
Valentina Marini racconta come il suo obiettivo, trasversale nelle attività di direzione come in quelle di organizzazione e distribuzione, sia quello di creare una comunità di professionisti che si identifichi in un luogo e in uno spazio e sia rappresentativa di un territorio. Il compito della programmazione è un percorso pieno di imprevisti e ostacoli, per questioni legate alle economie e al difficile dialogo con gli enti del territorio, e deve scontrarsi con lo spettro della presenza del pubblico. Nel caso di Fuori Programma, gli spettatori hanno riempito la platea e accolto le proposte con grande entusiasmo. Nel sostenere questa iniziativa, si può facilmente intuire come possa diventare un’ottima vetrina non solo di spettacoli già affermati, ma anche di nuove proposte capaci di avvicinare un pubblico più vasto dell’usuale sparuto gruppo di operatori e addetti al settore.

Spellbound Contemporary Ballet
Il percorso che va dalla creazione, messa in scena fino alla distribuzione della danza contempla, soprattutto per alcune eccellenze autoriali, che gli operatori siano disponibili a costruire un dialogo comunitario e critico con gli artisti. L’importanza di valorizzare i prodotti artistici basandosi non sul rapporto fra giovane età anagrafica e innovazione creativa o su semplici reti di circuitazione, va ad incidere sulle reali capacità creative e innovative dell’artista, stimolandolo a migliorare la creazione e a dare una continuità al processo creativo negli anni. Marini, coadiuvata da un potente staff, sperimenta da diversi anni la formula giusta per coniugare la necessità di gestire compagnia, festival e spazi in un’ottica aziendale e prettamente funzionale, alla volontà di stare dentro la sala di danza e di conoscere il materiale umano e creativo.
In queste giornate romane, ho potuto assistere allo spettacolo di Spellbound Contemporary Ballet, in prima nazionale con Full Moon. Nella vasta produzione di Mauro Astolfi per la compagnia, questo lavoro si inserisce in un filone maggiormente ispirato all’astrazione tematica e alla sospensione dell’intento narrativo. Iniziato lo scorso anno con un cast diverso (sono stati inseriti nuovi danzatori nell’organico della compagnia), il materiale sperimentale è diventato ben presto una creazione integrale. Astolfi si ispira alle fasi lunari – una curiosa coincidenza, proprio nella settimana dell’Eclissi – e ai richiami atmosferici che queste fasi hanno nell’immaginario fisico e psicologico dell’uomo, facendo muovere i nove danzatori come se fossero animati da un deus ex machina superiore, una sorta di moto sovrannaturale che spinge i corpi, fuori dal controllo del giudizio. L’atmosfera rarefatta viene sostenuta dalle luci di taglio e da controluce molto verticali, che richiamano agli ultimi lavori di Wayne McGregor.
Un fascio luminoso, come se filtrasse da una persiana, sceglie cosa mostrare allo stesso attore in scena e rafforza – forse in maniera un po’ didascalica – le continue entrate e uscite dei danzatori. Gli stessi mostrano una tecnica molto forte nel lavoro di Mauro Astolfi, il quale conferma la sua vivacità nella costruzione dei numerosi duetti che si succedono: questa energia, da un punto di vista drammaturgico, va spesso a perdersi in una continua voracità cinetica, “bruciando” alcuni momenti che potevano essere portati a un climax maggiore. Il lavoro mantiene la sua efficacia nei passaggi interattivi fra quello che avviene in scena e ciò che risulta nella penombra, illuminato dietro il fondale, in momenti di trasformazione fisica, quasi epidermica. La musica non è mai interrotta, raggiunge alcuni apici sonori che però non trovano corrispondenza in una visione d’insieme del lavoro, facendo emergere talvolta la necessità di momenti di silenzio e di creazione di atmosfere differenziate: riferendosi al paesaggio lunare, la memoria va a Vollmond di Pina Bausch, punto imprescindibile di riferimento per la creazione dei paesaggi del corpo.
Full Moon è una creazione che affida alla bellezza e instancabilità dei corpi l’ambientazione fisica, il racconto delle relazioni, la nascita di nuove “creature” nell’oscurità della notte attraverso danzatori che rimangono ben ancorati alla propria umanità e alla propria capacità di interazion
da Andrea Zardi | 26 Lug 2018 | Uncategorized

“Quando immaginavo il suo corpo libero dai vestiti, ai miei occhi apparivano immediatamente movimenti contorti, irrequieti, una torsione delle membra e una deformazione della spina dorsale, quali si potevano vedere nelle raffigurazioni dei martiri, e nei grotteschi spettacoli degli artisti di fiera”.
Robert Musil, ne I turbamenti del giovane Törless, descrive una corporeità scomposta, frammentata, deformata. Questi corpi, privi di ogni indumento, sono la materia su cui è stata scritta La Morte e la Fanciulla della storica compagnia Abbondanza Bertoni, spettacolo andato in scena al festival Fuori Programma al teatro Vascello sotto la direzione di Valentina Marini (Leggi l’intervista a Valentina Marini).
In questo lavoro i due coreografi ritraggono le rotture, le emotività graffianti e le asperità evocate da Egon Schiele in Morte e ragazza: la morte segna l’esistenza, è repulsione e attrazione, divide gli uomini fra un prima e un dopo ma al contempo li unisce. Le tre performer in scena (Eleonora Ciocchini, Valentina Dal Mas, Claudia Rossi Valli) colpiscono immediatamente il pubblico in un dialogo senza compromessi e senza esitazioni, forti di un senso di presenza fisica ormai difficile da riscontrare nei danzatori di ultima generazione. Il rapporto a tre è costruito in perfetta sintonia con la partitura musicale del quartetto di Schubert, in cui il Lied iniziale porta l’immagine della Morte come un’amica onnipresente. Si direbbe quasi che Michele Abbondanza e Antonella Bertoni abbiano costruito con concerto di corpi con la partitura in mano.
La nudità, insieme alla musica, è il tratto fondamentale dello spettacolo: è una nudità a cui lo spettatore viene introdotto, tramite una svestizione dichiarata ma eseguita dietro le quinte e testimoniata dal video, creando una continuità fra il palcoscenico e il mondo che vi è dietro. Lo spettatore si abitua a questi corpi, resi immateriali da un disegno luci tagliente e cromaticamente minimale, tanto che la nudità è essa stessa il tessuto su cui si racconta del turbamento e dell’angoscia provata. Oltre al palco orizzontale, vi è quello “verticale”, su cui vengono proiettati dei video ripresi con camera a mano, invadendo lo spazio fisico delle protagoniste. L’occhio digitale le disturba e le coglie di sorpresa e, nell’ultima parte dello spettacolo, si sovrappone in maniera perfettamente coordinata a quello che avviene live.

Sul libretto di sala – curato anch’esso sia nel formato che nella veste grafica – la danza viene definita dagli autori come “crepuscolare, colta, nelle nostre intenzioni, proprio nel suo attimo impermanente e transitorio”, richiamando immediatamente il “Perpetual vanishing point”, con cui Marcia B. Siegel, nel 1972, definisce questo linguaggio.
Le varie parti del quartetto, fra Lied e Allegro, Scherzo molto allegro e Presto, corrono parallele attraverso un alternarsi di caos, tranquillità e continui “sismi” dinamici che tengono la tensione sempre a un livello decisamente elevato. La danza evoca dimensioni simboliche e i corpi sono tratteggiati come furie che balzano tra la dimensione del reale e quella onirica, come nelle atmosfere simboliste di Böcklin. La forma pura del corpo si configura in perfetta sintonia con la musica, in un rapporto di astrazione della danza nell’idea classica di una rispondenza suono-movimento: gli autori non abbandonano il vocabolario grafico e tagliente di una certa danza d’antan, ma lo lasciano contaminare dalle personalità delle danzatrici. Cura del dettaglio periferico – dalle imposizioni delle mani all’uso delle chiome lunghissime – e sintonia negli insiemi indicano un cesello nel lavoro di prova e di costruzione drammaturgica difficilmente riscontrabile in altri spettacoli.
Lo spettacolo costruisce un dialogo progressivo con l’umanità, eredità di quel modo di fare coreografia difficile da attuare per una compagnia odierna: ovvero la creazione come esito di un processo di elaborazione lungo e paziente, continuamente messo in discussione e rivisitato, ma con la sicurezza di poter maneggiare una grande opera per raccontare il vivere odierno.
da Andrea Zardi | 23 Giu 2018 | Uncategorized

Ultima Vez in “In Spite of Wishing and Wanting”
Risale al 2012 quando vidi al Teatro Della Pergola di Firenze lo spettacolo Oedipus/Bêt Noir, e fui letteralmente conquistato da una serie di impressioni, descrivibili poi con quegli aggettivi e sostantivi che vengono da sempre utilizzati per descrivere il lavoro di Wim Vandekeybus: tensione, conflitto, istintivo, passionale, impulsivo, esplosivo…la lista potrebbe continuare a lungo su questa scia.
Vandekeybus, artista belga avvicinatosi al teatro tardivamente e uscito dalla fucina creativa di Jan Fabre, ad oggi è uno degli artisti di punta della danza contemporanea europea, che mantiene ancora strettamente il primato della ricerca sul corpo e un’idea della danza come spettacolo “totale”. Il suo legame con l’Italia e con il pubblico italiano non è mai stato un mistero, e così può capitare di vedere in programmazione – come un faro di speranza nelle tenebre – uno spettacolo della sua compagnia, Ultima Vez. Quest’anno il Teatro Bellini di Napoli, grazie all’accurata programmazione di danza di Manuela Barbato ed Emma Cianchi, ha portato ad un pubblico entusiasta uno spettacolo del 1999 di grande successo, In Spite of Wishing and Wanting. Il titolo dice molto e spesso quando si parla della danza pochi si soffermano sul significato di quelle poche parole. Va riletto alla luce di alcune impressioni.
Lo spettacolo inizia con due performer e una corda tesa, tenuta stretta fra i denti. Tutt’intorno gli altri uomini scalpitano come cavalli in uno stato di inquietudine e una malsana agitazione che va a contagiare anche il pubblico. Vengono utilizzati molti controluce e luci frontali, che rendono lo spazio del teatro come un continuum fra platea e palco, in particolar modo quando i performer agiscono – e succede in tutto lo spettacolo – sul proscenio. La corda tesa è una storia che non è narrazione ma che è esplorazione della natura più intima dell’essere uomo e maschio nella società odierna. Le persone sono in preda alla propria animalità: provano paura, desiderio, panico. Scappano e gridano, scalciano contro la scenografia. Il tutto però è orchestrato da uno stalliere che, come un deus ex machina, sposta, comanda, spaventa, in un crudele e malizioso gioco basato sulla paura. Questa paura esplode come il cuscino in scena, un colpo che libera nell’aria centinaia di piume, che rimarranno a svolazzare in scena fino alla fine dello spettacolo.
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Ogni performer acquista una propria personalità nel corso dello spettacolo: ci sono momenti di lite scherzosa e goliardica, momenti di contrasto e di sfida, momenti di espressione massima dell’istinto al nutrimento e ai bisogni più basici (eccezionale l’interpretazione di Knut Vikström Precht) dell’essere umano: ma soprattutto parti in cui loro si alleano, fanno gruppo, diventano consapevoli dei loro desideri e delle loro aspettative, e delle parole che più li corrispondono. Spesso anche momenti di tenerezza, ricerca di un contatto umano e protettivo, perfettamente incorporato in cui ognuno, con la sua parte di arancia in mano, cerca il partner che ha l’altra esatta metà. Il cibo e la fame, elementi che riconducono alle esigenze basilari dell’essere umano, sono presenti un po’ in tutto lo spettacolo.
Le parole: sono i pilastri fondamentali di questo spettacolo. Le parole non conoscono lingua di trasmissione (si parla in italiano, in inglese, in francese e spagnolo) e sono il filo conduttore di tutto l’atto. Le parole diventano presa di coscienza di ognuno, vengono rubate dallo stalliere e rese una proprietà privata. Il tentativo di descriversi corrisponde al tentativo di ogni uomo che si sta formando di prendere coscienza di sé stesso e di trovare i termini per descriversi e per parlare di ciò che vuole e di ciò che non è riuscito ad ottenere. In un gioco drammaturgico estenuante, che ricorda il tentativo vano del personaggio di Beckett nei suoi Atti senza parole. Lo stalliere possiede le parole di tutti i presenti, ne ha il potere e quindi ha in pugno anche la loro volontà. Vandekeybus innesca su questo tema un meccanismo di continuità fra i diversi piani di lettura dello spettacolo che interagiscono fra di loro: il parlato, la danza, i momenti di attesa e silenzio e il cinema. Ad un certo punto lo spettacolo è interrotto da un estratto di Racconto senza morale di Julius Cortàzar: le parole, i sospiri, le grida sono la merce che un uomo vende ai mendicanti, ai passanti e persino al tiranno.
La danza in questo spettacolo rimane però non sostanziale ma strutturale, risultando spesso chiusa in sequenze giustapposte tra un momento drammatico e l’altro: il vocabolario di Vandekeybus non brilla per varietà di linguaggi e qualità, ma sicuramente si distingue per la capacità immaginifica che le sue danze creano insieme alla musica (originale) di David Byrne e ai costumi larghi, aerei, in contrasto fortissimo con la violenza e poderosità della danza. Moltissima l’energia esplosiva fra salti, acrobazie e movimenti raso terra, sempre però direzionata ad una chiara conclusione verso un passaggio alla scena successiva. Da un lato la tensione del corpo è mantenuta su un filo teso come in una situazione di tregua sul campo di battaglia, dall’altra la danza viene usata nella natura stessa di espressione del mondo maschile, ovvero di essere presente, estemporanea, di non poter essere fermata nel momento in cui si manifesta. In una visione che strizza l’occhio a Schopenhauer, la catarsi che provoca il vedere la danza aiuta l’uomo a liberarsi ma non gli permette né pace né riposo dei sensi.
In questo spettacolo l’uomo “sublima” sé stesso nei desideri e nella sua identità: In spite of wishing and wanting… nel titolo risiede il significato di questa eterna ricerca: nonostante il desiderio e la volontà, questi 11 uomini mostrano che sotto l’energia della superficie tutto il resto nella loro natura è profondo e ancestrale. Come nel finale, anche quando tutti si addormentano sui propri corpi, un cavallo continua a percorre il palcoscenico, senza redini e, stavolta, senza alcun controllo.
da Andrea Zardi | 30 Mag 2018 | Uncategorized

Border Tales – Racconti di frontiera
Border Tales – Racconti di frontiera è il titolo della performance della compagnia londinese Protein, diretta da Luca Silvestrini e basata sul tema della migrazione e dell’integrazione nel Regno Unito. Questa produzione è il risultato di una ricerca iniziata nel 2013 con migranti e rifugiati nei vari paesi e sviluppata attraverso un laboratorio con il Centre for Refugees and Migrants di Londra, e portato a Torino grazie alla Fondazione Piemonte dal Vivo e Associazione Filieradarte, Associazione Didee e Università degli Studi di Torino.
Il coreografo e regista ha analizzato la sua esperienza di artista italiano residente da diversi anni all’estero: nell’intervista con Rita Maria Fabris, nell’incontro Scuola dello Spettatore organizzato prima dello spettacolo, Silvestrini ripercorre i diversi approcci con i soggetti che ha incontrato nella fase di ideazione dello spettacolo, senza distogliere l’attenzione dai grandi stravolgimenti politici degli ultimi anni (la Brexit, l’elezione di Trump, la deriva populista in Europa). Uno spettacolo che apre con una potente suggestione sul tema del confine, con un danzatore che danza in bilico su una linea che divide il palco in tutta la sua lunghezza. Se questa scelta può sembrare troppo dichiarata rispetto al tema dello spettacolo, non lo è stata la trattazione fisica e tematica di questo confine: i sei danzatori – e il musicista, sempre presente sul palco – definiscono il confine del loro corpo, difendendolo dagli altri, ma proteggendo anche il proprio spazio personale con una danza dalla potente dinamica e dominata da un forte senso di propriocezione.
I vari personaggi presentano sé stessi attraverso quelli che sono gli stereotipi legati alla loro cultura, in un’esasperazione continua di stilizzazioni e monologhi iperbolici, rimanendo comunque aderenti a un approccio teatrale che amalgama danza e parola in modo strutturale in tutto lo spettacolo.
Il fulcro centrale è l’ambientazione di una festa, dove il “maestro di cerimonie” è il tipico uomo inglese che accoglie i propri ospiti ingabbiandoli in quelli che presume possano essere le loro preferenze musicali, religiose e alimentari (ad esempio, il saluto alla ragazza cinese con l’inchino e del tè al gelsomino, o chiedere all’ospite arabo se fosse di religione musulmana). Questa volontà di integrazione, velata dal falso perbenismo di chi non vuole mancare di rispetto rimarca però forti differenze e distanze (Just saying…). I punti culturali dove corrono i binari dello scontro culturale sono la religione, la differenza fra paese di nascita e paese di origine, le domande continue sulle motivazioni dello spostamento e le risposte che circoscrivono l’individuo a uno spazio “riservato” a lui. Un’accoglienza “condizionata” che però nello spettacolo viene ribadita in maniera prolungata ed insistente fino a toccare momenti attoriali iperbolici: in alcuni punti fanno perdere l’effetto di straniamento desiderato.

Border Tales – Racconti di frontiera
I danzatori incorporano egregiamente il senso di dislocamento che hanno provato nella loro famiglia di origine o dal loro paese: l’uso dello spazio aperto, circoscritto e condiviso apre il senso di questa percezione nei confronti dello spettatore. La musica del colombiano Anthar Kharana, eseguita in parte dal vivo, è strutturale alla solida drammaturgia dello spettacolo e lascia spazio ai danzatori per creare uno spazio di comunicazione ampio.
Questo lavoro, in conclusione, è un’eccellente dimostrazione di come la danza possa rendersi consapevole dei cambiamenti sociali, ma soprattutto delle influenze antropologiche che questi cambiamenti causano. Scoprendo come l’Arts Council of England abbia finanziato un progetto di questo spessore sociale, rimane da chiedersi quanto in Italia potremmo imparare da questo modello di creazione veramente “contemporanea”: una progettualità nata non da un’elaborazione esclusivamente intellettuale, ma da un’esperienza laboratoriale che va ad operare in precisi contesti sociali e li porta a conoscenza di un pubblico preparato.