La resistenza attraverso l’ascolto. Viaggio all’interno di Torinodanza

La resistenza attraverso l’ascolto. Viaggio all’interno di Torinodanza

Torinodanza

Esserci, resistere e avere fiducia. Attraverso queste tre azioni il festival TorinoDanza ha portato avanti e concluso l’edizione 2020 in mezzo alle ben note difficoltà produttive, creative e logistiche che hanno indebolito il già delicato e precario sistema dello spettacolo dal vivo. Il festival invia una chiamata al suo pubblico, rilancia uno sguardo sul futuro che per un momento ci aiuta a comprendere in che direzione stiamo andando.

Tra i lavori presentati in questa edizione troviamo Toccare. The White Dance di Cristina Kristal Rizzo. La coreografa porta sul palco un lavoro che risponde tacitamente a molte condizioni e riflessioni nate dall’isolamento del lockdown. In una dimensione dove la prossimità dei corpi e il contatto sono elementi esclusi dalla costruzione coreografica, Rizzo ridefinisce il “toccare” come modalità di condivisione comunicativa che non passa attraverso l’imposizione di una presa o la costruzione di gesti definiti e leggibili, ma si affida totalmente a una dinamica di equilibri fra spazio vuoto e corpo, accelerazioni e sospensioni.

Immagini aeree, eteree, fragili – con un rimando esplicito alle atmosfere da ballet blanc – che non temono di fermare il movimento e si lasciano decifrare come schemi iconografici ricorrenti. Si avvicendano, immersi nelle luci taglienti di Gianni Staropoli, le corporeità di Annamaria Ajmone, Jari Boldrini, Kenji Paisley-Hortensia, Sara Sguotti e la stessa Rizzo, attraverso continui rimandi a una co-presenza fra dimensione reale e virtuale, evidente nella presenza degli smartphone. I performers instaurano un rapporto di ascolto delicato e sensibile della partitura di Jean-Philippe Rameau (Pièces de clavencin) eseguita da Ruggero Laganà, Antonella Bini ed Elio Marchesini.

Un panorama totalmente diverso viene mostrato nel mixed bill composto dagli spettacoli di Alan Lucien Øyen, Wang Ramirez e Hofesh Schechter. Øyen presenta due pièce di repertorio, And…Carolyn (2008), su musiche di Thomas Newman e Sinnerman (2014). Il primo è un duetto che riporta lo spettatore a una visione della danza come atto coregrafico attraverso una modalità compositiva molto chiara, di sapore nordeuropeo.

Due corpi, quelli di Daniel Proietto e Mai Lisa Guinoo, in sintonia perfetta e che ci riportano ad un momento in cui la vicinanza e il contatto erano una prassi comunicativa consueta. Sempre Proietto danza l’assolo Sinnerman, infrangendo il virtuosismo accademico sulle note della cantante Nina Simone.

AP15 (2010) è il titolo del duetto composto da Honjji Wang e Sébastien Ramirez: una relazione ironica costruita attraverso il linguaggio dell’hip hop, come un ipercinetico processo di conoscenza fra due individui che raccontano contrasti, affetti e sfaccettature emotive senza mai cedere dalla precisione tecnica e musicale.

Schechter presenta invece Untitled (2005) ed è la sua stessa voce a raccontare “about life, love and death”. Un dialogo cadenzato come un metronomo attraverso il corpo della danzatrice “Elisabetta” (Rachel Fallon), rimettendo allo sguardo molteplice e solidale dello spettatore che si ritrova nella somiglianza con le altre persone, nella condivisione di uno spazio e di un respiro comune.

Dimitris Papaioannou riconferma con il nuovo progetto Ink. An inbetween project la propria statura di artista visionario e mai scontato, in bilico tra l’estasi del corpo e creazione di un immaginario emotivo che si presta alla contemplazione. Il palco è invaso dall’acqua, il silenzio interrotto dal ritmo accelerato di un irrigatore e dal getto che colpisce i fluttuanti teli di plastica che chiudono la scatola scenica.

In questo spazio umido e in penombra lo stesso Papaioannou gioca con l’irrigatore, ne sperimenta le possibilità e lascia che questo getto inzuppi completamente i vestiti: un eremita, un individuo che pare affidare a questa abluzione lo scorrere dei pensieri e la cancellazione della memoria, in una sospensione temporale che pare eterna.

Papaioannou inizia una lotta nel tentativo di dominare uno strano elemento, una figura indefinita che emerge dal pavimento, come un rettile. Questa lotta svela un corpo nudo (Šuka Horn), dalla carnagione chiara che, liberatosi dalla trappola, ribalterà questo rapporto di sopraffazione, piegandolo a una danza di corpi che si tratteggia talvolta di seduzione e morbosa dipendenza reciproca.

L’immaginario della cultura mediterranea viene ribadito da un polipo – all’interno di una boccia di vetro –che diventa da feticcio, testa di neonato da accudire e poi distruggere per mantenere il potere. La bocca di vetro segna un rito di passaggio, un battesimo verso un nuovo immaginario.

Il viaggio che Papaioannou intraprende in questa creazione sospende il tempo in una dimensione cinematografica, attraverso un uso minimale di musiche d’antan, le cui note si percepiscono appena grazie al suono di un giradischi. Rappresenta una stanza della psiche, tra archetipi e oscure presenze della mente, costruendo una dimensione della memoria e del desiderio più recondito, tra immagini surreali che richiamano l’Ulisse di Giorgio De Chirico e chiari riferimenti a Vollmond di Pina Bausch.

Dimitris Papaioannou non cerca ispirazione, ma dialoga e recupera, attraverso la soglia tra due mondi, la weltanschauug della celebre coreografa, come già dimostrato nello stück creato per il Tanztheater Wuppertal dal titolo Seit Sie (Since She, 2018).

A 250 anni dalla nascita di Beethoven, Simona Bertozzi con il quartetto d’archi torinese NEXT porta al festival una creazione in cui la Die Groβe Fuge op.133 diventa ispirazione per un lavoro di sperimentazione sulla materia sonora: le tonalità contrastanti, le interruzioni inaspettate e il virtuosismo emozionale di questo quartetto si infrangono con le fluttuazioni e le intermittenze di Zwischen Den Zeilen di Wolfgang Rihm e con la calma apparente di Ad io di Riccardo Perugini.

Tra le linee di Bertozzi si costruisce attorno ad un potente incontro tra questo complesso organismo musicale e una dimensione coreografica estremamente lucida: custoditi all’interno di bolle fluttuanti di nylon, cinque corpi (Giulio Petrucci, Manolo Perazzi, Sara Sguotti, Oihana Vesga, Simona Bertozzi) creano una ouverture che risuona come una eco, un’attesa che prelude all’impetuoso attacco.

Perazzi e Petrucci aprono a questo scenario definendo una partitura ricorrente e segnando con il corpo una precisa spazialità e una precisa caratterizzazione, lasciando spazio all’energico duo Sguotti/Vesga e alla danza tagliente e sempre al limite dell’equilibrio di Bertozzi. Le cinque traiettorie si tagliano, si intersecano e a volte trovano direzioni inaspettate in un dialogo con la musica che talvolta ridiscute, si oppone, cerca un’altra strada.

In dialogo con Anna Cremonini, direttrice dal 2018 del festival, si è discusso sulla sua personale esperienza nella progettazione e riprogrammazione degli spettacoli in questo periodo di emergenza sanitaria. Quali limiti sono emersi e cosa hanno permesso di scoprire? Cremonini vede nei limiti delle nuove possibilità, e sottolinea il fatto che il Teatro Stabile di Torino ha tenuto aperte le porte anche durante i mesi estivi con una programmazione ad hoc, dando un segno importante alla città e confermando la stagione di Torinodanza.

Anna Cremonini: La mia attitudine è stata di rivolgermi agli stessi artisti che erano stati invitati, confermando gli italiani previsti in programma, dando loro una “carta bianca”: stando insieme nella stessa situazione, possiamo ripensare alla programmazione con qualcosa di nuovo o attraverso la ripresa del repertorio.

Rinviare le date per gli artisti è dura, quindi l’idea di riconfigurare la loro presenza è importante. Ed è altrettanto prioritario poter mantenere la cifra internazionale che il programma ha sempre avuto, perché vedere ciò che viene realizzato all’estero aiuta anche la nostra coreografia a crescere. C’è chi infatti ha portato a sorpresa una produzione nuova come Sidi Larbi Cherkaoui e Dimitris Papaioannou.

Quali riflessioni sono emerse come programmatrice e quali sensazioni hanno caratterizzato questa esperienza?

AC: Sto capendo una cosa: noi stessi programmatori forse siamo meno tesi al “risultato a tutti i costi”; possiamo prenderci il gusto di lasciare più spazio agli artisti, di condividere con loro uno spazio di ricerca e sperimentazione che forse prima, con l’ansia di arrivare allo spettacolo, riceveva un’attenzione più limitata.

Questa cosa ha sottolineato i tempi e le modalità del processo, ci ha reso più complici con gli artisti anche verso l’ignoto. Io mi sento molo più partecipe di un percorso creativo: la situazione ci ha privato di un’ansia di prestazione e ha restituito al processo creativo una funzione più originaria.

E il pubblico?

AC: Anche il pubblico impara che ogni processo è ignoto e che il risultato può essere relativo: si insinua la sensazione di essere tutti in un terreno non familiare in cui dobbiamo scoprire quello che accadrà. Il distanziamento che vive il pubblico rende la sensazione dello “stare insieme” molto più rarefatta, e quasi si chiede aiuto al palcoscenico per restituire questo “respiro comune”.

Si sta affidando ad ogni individuo il proprio ruolo: all’operatore di rischiare sui progetto, all’artista di rischiare sulla propria identità e ricerca e al pubblico di essere il tramite e destinatario finale. Nel momento di difficoltà la funzione che svolgiamo nella società diventa determinante.

E gli artisti?

AC: Una delle cose più toccanti è stato vedere i danzatori entrare in scena dopo otto mesi che non calcavano un palco, è stato commovente, e questo trascolora nelle produzioni: ad esempio, in tutta la sua formalità lo spettacolo di Papaioannou è forse il più drammaturgicamente compiuto tra quelli che ha prodotto.

Questa esperienza dovrebbe aiutarci a essere forse meno autoreferenziali e ci invita a non fare finta che nulla sia successo. La menzogna in palco non è prevista: se menti in scena le cose non funzionano. Bisogna avere l’onestà intellettuale di guardarci dentro, nel microcosmo del teatro abbiamo la possibilità di farlo.

Festival Gender Bender: visioni radicali sul presente

Festival Gender Bender: visioni radicali sul presente

Con il titolo Radical Choc che si caratterizza subito come scevro da compromessi, è partita l’edizione 2019 del Festival Gender Bender di Bologna, arrivato alla sua diciassettesima edizione. Una stagione che sottolinea sin da subito la capacità di visione della realtà sociale e dei fenomeni del presente, prendendo chiaramente una posizione critica e costruttiva nei confronti dello stesso. Daniele Del Pozzo e Mauro Meneghelli hanno scritto il programma del festival, il cui formato è quello di un quotidiano stampato su carta non trattata e certificata (vien da lodare l’ottimo esempio di uso intelligente delle risorse), collocando questa programmazione alla luce della recente mobilitazione per l’ambiente – il Friday For Future – e delle sempre più urgenti istanze di discussione e formazione sulle questioni legate all’identità di genere e alle logiche di potere a essa connesse.

Un festival che getta l’occhio – nell’eternamente giovane/dotto/rosso capoluogo emiliano – alla cosiddetta Generazione Z, o dei Post-millenials: nati nel pieno della rivoluzione digitale e social, quest’ultima ha riconfigurato totalmente il modo di relazionarsi, di studiare, di accedere alle informazioni e alle comunicazioni. Questa generazione, cresciuta nel pieno della crisi economica e sociale, sta riscoprendo una nuova attenzione a temi di massima urgenza (la discriminazione di genere, il multiculturalismo, l’assenza di sistemi ideologici affidabili, l’ecologia), veicolati attraverso internet con una liquidità inimmaginabile prima d’ora. Il teatro non è esente da queste caratteristiche: le informazioni vengono elaborate in maniera sempre più liquida attraverso formati brevi – e di conseguenza spesso semplificate ai minimi termini –  e attraverso corpi velocemente collocabili in discorsi diretti, orientati a un’elaborazione veloce, fruibile, efficace.

È il caso di Harleking, creazione del talentuoso duo di Ginevra Panzetti ed Enrico Ticconi, residenti a Berlino ed entrambi usciti dalla formazione Stoa diretta da Claudia Castellucci. Ispirato alla figura di Arlecchino, la maschera bergamasca che personifica la figura del servo astuto, avaro, occupato a raccontare bugie e tramare imbrogli per ingannare i padroni, i due autori riprendono il titolo di Re (-king) dall’origine germanica del nome Hölle König (re dell’inferno) e sdoppiano la sua figura attraverso una magistrale capacità di gestire le emozioni, mostrarne gli eccessi e i paradossi. La memoria va alla rilettura di Strehler per il Servitore dei due padroni di Goldoni, in cui Arlecchino è veramente il mattatore impietoso delle logiche di potere alle quali deve soggiacere. Notevole l’attenzione mimetica ai gesti che vengono ripetuti fino a creare delle grottesche, nella loro caratterizzazione letteraria di bizzarro, ironico e caricaturale. Panzetti e Ticconi passano attraverso diverse forme, dal riso incontrollato alla voracità fino alla violenza tragica di uno nei confronti dell’altro. Lo spettacolo cresce fino al “saluto romano” dei due performer, interpretando una cieca logica di potere verso il padrone, più attuale che mai.

Harleking, di Ginevra Panzetti ed Enrico Ticconi

Sotto un’altra linea si pone la creazione di Yasmeen Godder, Common Emotions, già presentata al festival OperaEstate nel 2016: sei danzatori si confrontano con una partitura coreografica essenziale e molto leggibile, davanti a una scenografia colorata appesa come un tendone da circo, fatta di elementi colorati e tessuti bizzarri che ricordano le sagome e le colorazioni del teatro di figura. La regola è semplice: ogni qual volta un performer si metterà a fianco della scenografia, il pubblico (un numero variabile a seconda della richiesta) dovrà entrare in scena e andare dietro la tenda, ove riceverà delle istruzioni – qualcosa che accade, voci che trapelano da un altro luogo – e poi passerà per la scena in mezzo agli altri danzatori. Il risultato è entusiasmante (ma non inaspettato): nel mezzo della rappresentazione il pubblico è completamente dietro e davanti alla scena. Parla con i danzatori, si siede, si muove come in un laboratorio di teatro. La scelta qui è radicale, talmente netta – e a tratti “violenta” – da tagliare fuori coloro che decidono di rimanere nella condizione contemplativa tradizionale. Rimane però un coinvolgimento forse poco rischioso, sicuramente gioioso, che non richiede di indossare l’armatura dello “spettatore emancipato” raccontato da Jacques Rancière.

Cambiando nuovamente dimensione creativa, il lavoro di Riccardo Buscarini, coreografo piacentino formatosi a Londra e vincitore di numerosi riconoscimenti, porta in scena un duo maschile con un titolo estremamente catchy: L’età dell’horror. Andrew Gardiner e Mathieu Geffré si tengono le mani per tutti i sessanta minuti di spettacolo, girando sempre nello stesso senso nello spazio scenico e passando attraverso relazioni contrastanti: se all’inizio sembra una sessione di contact improvisation, col procedere del racconto vi sono picchi dinamici e cinetici che contraddistinguono l’istinto della fuga, controbilanciato dalla volontà di rimanere uniti. Lavoro accurato che presenta qualche difficoltà ad arrivare a un acme energetico e narrativo, rimanendo comunque costruito in modo coeso. Tutto avviene sulle composizioni di Die Kunst der Fuge di Bach, ma la musica non trova un dialogo serrato con le varie fughe. Buscarini conferma con questa creazione l’idea di utilizzare il corpo del danzatore esplorandone le estreme possibilità con una consapevole visione sul moderno e sulle sue possibili evoluzioni, già presente nel suo lavoro Athletes.

Nel cortile di una fonderia: intervista ad Anna Cremonini, direttrice di Torinodanza

Nel cortile di una fonderia: intervista ad Anna Cremonini, direttrice di Torinodanza

In un ottobre più caldo del previsto, mi ritrovo nel cortile delle Fonderie Limone, “una fabbrica delle arti” ricavata dalla struttura di questa ex-industria, nascosta tra la zona industriale di Moncalieri e quella residenziale di Nichelino, alle porte di Torino. Incontro Anna Cremonini, che è subentrata nel 2018 a Gigi Cristoforetti nella direzione di Torinodanza.

Esperta nel settore della produzione e organizzazione dello spettacolo dal vivo, si è formata al Teatro Due di Parma e ha collaborato con il Teatro Festival Parma. Successivamente ha lavorato per quattro anni alla Biennale di Venezia e poi al Mercadante di Napoli. Responsabile organizzativa per il festival Equilibrio all’Auditorium Parco della Musica di Roma, è stata nominata alla Commissione responsabile della valutazione qualitativa sul FUS per il settore danza. Emerge subito da questo incontro la capacità di Anna (mi ha puntualmente chiesto di chiamarla per nome) di mettere a proprio agio l’interlocutore e la sua volontà di “stare sul campo”, arrivando a ogni appuntamento del festival in anticipo e parlando con tutti gli spettatori. Come essere invitati a una cena, con tutti gli onori di casa. Ci siamo presi quindi qualche minuto per scambiarci delle impressioni sul festival, che ho cercato il più fedelmente possibile di riportare.

Mi sono trovato, dopo diversi anni passati a seguire il festival Torinodanza – e in particolare queste ultime edizioni – a definire questo evento come una tavola anatomica: ovvero un festival che mostra al pubblico diverse parti della danza di questi ultimi anni, sia nelle sue parti più conosciute e “popolari” – l’epidermide – sia nelle sue espressioni sperimentali, più interne al panorama. Lei si trova d’accordo con questa mia definizione? Inoltre ho rilevato che in questo festival trovano spazio coreografi affermati come Sidi Larbi Cherkaoui (con cui Cremonini vanta un lungo rapporto professionale di collaborazione, ndr) e Akram Khan, i quali ereditano il bagaglio dei grandi maestri europei, ma anche uno spazio dedicato alle sperimentazioni degli autori italiani.

La lettura che hai dato al festival è interessante in quanto è un punto di vista esterno al mio: forse proviene dal fatto che cerco sempre di darmi delle motivazioni per scegliere uno spettacolo. Cerco di lavorare con degli artisti perché in qualche modo restituiscono una visione della realtà, di una vita, di un qualcosa del nostro essere contemporanei: chi come Akram Khan lo fa in maniera più manifesta, con un sottotesto ideologico e politico che si porta sulla pelle (Khan è figlio di migranti dal Bangladesh in Inghilterra, ndr) e chi lo fa in maniera più astratta o traslata. Il comune denominatore di questi artisti credo sia la volontà di raccontare qualcosa di noi, attraverso il corpo: è un corpo moderno, contemporaneo, sensibile alle sollecitazioni ed ai contrasti. Gli artisti ci aiutano un po’ a capire il mondo in cui viviamo, un mondo che cambia tutti i giorni, si sgretola intorno o si ricostruisce.

Queste sono le parole che direbbe una persona che fa creazione, solitamente: io vedo sia una direzione artistica ma anche una precisa volontà creatrice.

Innanzitutto vengo dalla produzione teatrale, quindi ho una sensibilità al palcoscenico e so cosa succede a chi sta lì sopra. Non sono una creativa, ma seguo da sempre l’attività creativa: credo comunque sia più complesso fare uno spettacolo rispetto a un festival. In qualche modo però anche la composizione di un festival è in qualche modo una dichiarazione d’identità.

Torino ha un rapporto particolare con il teatro e con i festival, e anche con il progetto di rilevamento seguito dall’Università è emersa una diversificazione rilevante e un’attenzione a quello che avviene. Qual è stato il tuo impatto con questa realtà?

Quando ho seguito l’edizione del 2017, l’ultima diretta da Gigi Cristoforetti, ho potuto osservare in maniera più dettagliata gli spettatori, avendo la sensazione che il pubblico torinese sia di cultura medio-alta: percepisci una densità nell’osservazione, una forma equilibrata di assenso e dissenso. Non è un pubblico compiacente e anche se non ho avuto fortunatamente manifestazioni di dissenso, si rivela comunque esigente e costruisce un rapporto basato sulla fiducia.

In Italia si discute molto del fatto che un festival sia un momento di sintesi, una summa di quello che succede in questo settore: su che cosa si dovrebbe lavorare dal punto di vista dell’offerta e del dialogo con le istituzioni?

Io ho avuto il privilegio di essere arrivata in un festival che esiste da molti anni e ha costruito un rapporto con la città: sicuramente penso che una proposta di qualità – indipendentemente dal budget – crei un rapporto con il pubblico. Io mi sono inserita in una storia già tracciata. Noto con grande piacere che in Italia i festival di danza contemporanea esistono, crescono, hanno un pubblico, godono di un’attenzione più alta rispetto al teatro contemporaneo. La danza forse interpreta dei bisogni nuovi. In Italia non abbiamo i “Grandi Festival” – come ad esempio in Francia con Avignone – ma abbiamo delle dislocazioni, dove si è creata una maturità, un’esperienza. Sicuramente sono stati fatti molti passi avanti anche nei rapporti con le istituzioni; bisogna andare avanti, insistere, migliorare la qualità dell’offerta perché la stessa migliora la qualità della domanda, e questa significa una volontà collettiva più consapevole.

Un’ultima domanda: si parla poco di chi si affaccia al lavoro della direzione artistica: dal titolo di studi universitario, al tirocinio in ufficio, alla “gavetta dietro le quinte”: cosa consiglieresti a  una persona che si affaccia a questo mestiere?

La mia esperienza suggerisce di avere tanto coraggio, ma soprattutto vedere tante cose: anche ciò che sembra non servire. Tutto aiuta a formarsi un’idea, un gusto, una visione. Io ho fatto tanti passaggi e cambi di visione, quindi ho rischiato. Sono fortunata, perché sono una donna e sappiamo che per noi l’evoluzione di un percorso professionale non è sempre facile – soprattutto nella fase che io chiamo “l’ultimo miglio” – ma credo si debba abbassare l’età media. Io ci sono arrivata tardi a questa maturità, ma credo che prima o poi debba arrivare una generazione di giovani: sicuramente fare esperienze diversificate e in luoghi diversi aiuta a formarsi un patrimonio personale spendibile.

Torinodanza: la città diventa spazio scenico

Torinodanza: la città diventa spazio scenico

Sutra (photo © Andree Lanthier)
Sutra (photo © Andree Lanthier)

Sidi Larbi Cherkaoui, celebre coreografo belga di origini marocchine, ha portato sul palco del Teatro Regio di Torino – per l’inaugurazione del festival Torinodanza, per il secondo anno sotto la direzione di sotto la direzione di Anna Cremonini – lo spettacolo Sutra, presentato nel 2008 al Sadler’s Wells di Londra. Un’opera che da più di dieci anni continua a girare per il mondo portando i frutti di un incontro – non inconsueto nell’ambito teatrale – fra Europa e Asia, nato da una visita che il coreografo ha compiuto in un tempio Shaolin in Cina. Da questo viaggio è emersa l’ispirazione per uno spettacolo in cui i monaci portano le tecniche e le pratiche del Kung Fu Shaolin. La scenografia, composta dallo scultore Antony Gormley (scenografo anche degli spettacoli Babel (Words), Icon, Noetic, Zero Degrees), consiste in una serie di scatole aperte, a misura d’uomo che ciclicamente trasformano i paesaggi in cui i monaci si muovono: sono letti, gusci, pesanti bare da portare nel percorso, montagne da scalare, simulacri di una lotta continua o di un rito ancestrale.

Cherkaoui e un bambino giocano con delle miniature che replicano la scena principale, sopra una di queste scatole dal colore argenteo: riconoscibile nella scelta illuminotecnica e cromatica, l’estetica “cinematografica” che contraddistingue la firma dell’artista, già riconoscibile in Noetic e Icon. La musica – dal vivo – è eseguita dietro il fondale semitrasparente e condotta da Szymon Brzóska. Un lavoro energico, cesellato con precisione in un continuo ripetersi di movimenti repentini, marziali, senza sosta e con il cambio delle scene affidato al gioco delle scatole simile a un Tetris. Emerge nel lavoro un momento in cui gli interpreti eseguono, seduti sopra queste strutture, una partitura composta con i gesti dell’alfabeto muto, come una preghiera rituale rivolta allo spettatore. La struttura performativa tipica dello spettacolo di danza contemporanea – con le sue attese, i passaggi calibrati e una visione organica della creazione – non si amalgama con la pratica del kung fu, destabilizzando lo spettatore e portandone la visione su un altro piano, quello dello spettacolo come momento di abbattimento di una frontiera a favore di uno spazio di verso una cultura lontana dalla nostra e dalle radici profonde. Il tema della lotta si materializza in una sequenza fatta di virtuosismi energici, che non si conclude nel rapporto binario vincitore – sconfitto, ma in una sfida che è parte della disciplina dei monaci.

Ma se da una parte il lavoro di Larbi Cherkaoui si colloca nella linea della danza teatrale europea con le influenze interculturali – che sono anche parte della storia dell’autore – coniugate alle tecniche ereditate dalla danza europea di fine Novecento, in questa edizione del festival viene riservato un grande spazio anche alla danza italiana, e in particolare in luoghi specifici della città sabauda.

Michele Di Stefano, autore di punta della danza italiana con la sua compagnia MK, in Orografia trasforma la collina torinese in un palco verticale in cui la danza s’inscrive nel paesaggio semi-urbano, non catturando completamente l’attenzione – rapita in gran parte dall’ascolto della voce di Di Stefano che racconta, immerso nel paesaggio sonoro di Lorenzo Bianchi Hoesch, il suo percorso tra le montagne. Biagio Caravano apre questa “escursione” sulla terrazza del Monte dei Cappuccini portando il pubblico a seguire prima il suo gioco coreografico e successivamente quello di Roberta Mosca e Laura Scarpini, fino a strizzare gli occhi in direzione dei Murazzi del Po, dove si può vedere un corpo che danza vicino all’acqua, mentre un battello da cui si spande fumo colorato, risale verso piazza Vittorio. Come ha commentato Michele, “la danza è realizzata dalle persone che si trovano in quel luogo”.

Sempre sul Monte dei Cappuccini, all’esterno del Museo della Montagna, Marco Chenevier regala a un pubblico intimo e incuriosito di Torinodanza la sua visione di Purgatorio ovvero Aspettando Paradiso. Chenevier è coreografo, danzatore e regista valdostano e vanta una lunga esperienza professionale in Francia con Isaac Alvarez, fondatore della compagnia TIDA Teatro Instabile di Aosta e creatore del festival T*Danse. In questa sua creazione la struttura morale, topografica e narrativa ricreata da Dante è reinterpretata da Chenevier come in una fatica sportiva, agonistica, associabile alla salita verso il Paradiso cantata nella Commedia

«Se voi la sapete, mostrateci la via per salire sul monte» II, 58

A mostrarci questa via al Torinodanza è Théo Pendle, danzatore di grande intensità e dotato di una plasticità fisica che si rivela solo con l’intensificarsi della danza e il cui vocabolario ricorda James O’Hara nel Faun del già citato Sidi Larbi. Indossa una sorta di capospalla con piume nere, definite e pesanti come le scaglie di un pesce ed entra nello spazio come in un’immersione verso una dimensione altra, intermedia, cercando il passaggio che lo porterà a destinazione. Il centro dello spazio è occupato da una struttura cubica dalle pareti trasparenti e dal soffitto traforato. Una serra, una vetrina, un’incubatrice. Uno spazio in cui il Dante di Chenevier trova ristoro e purificazione: dal soffitto scende una pioggia salvifica, che dapprima scioglie il pesante cappotto del performer e gli permetterà di scivolare all’interno di questo lago, giocando con l’acqua e sciabordandola contro le pareti della struttura.

«Quando noi fummo là ‘ve la rugiada

pugna col sole, per essere in parte

dove, ad orezza, poco si dirada,

ambo le mani in su l’erbetta sparte

soavemente ‘l mio maestro pose:

ond’io, che fui accorto di sua arte,

porsi ver’ lui le guance lagrimose:

ivi mi fece tutto discoverto quel

color che l’inferno mi nascose. »

(I, 121)

Il lavoro termina con Alessia Pinto ed Elena Pisu che dipingono degli occhi sulle pareti della struttura, che come Catone L’Uticense traghettano il viaggiatore – e il pubblico – verso il Paradiso attraverso gli occhi di Beatrice. Non acquista particolare rilievo la musica dei Godspeed you! Black Emperor.  Un lavoro al festival Torinodanza che dimostra la consapevolezza scenica di Chenevier e la dimestichezza con cui Enrico Pastore tratta una drammaturgia così delicata, dimostrando quella capacità – spesso latitante negli short pieces e negli studi della recente danza d’autore – di concepire un progetto-spettacolo nel suo impianto totale e multidisciplinare. 

«E sì come secondo raggio suole
uscir del primo e risalire in suso,
pur come pelegrin che tornar vuole,
 
così de l’atto suo, per li occhi infuso
ne l’imagine mia, il mio si fece,
e fissi li occhi al sole oltre nostr’uso.»

(Paradiso, I, 49)
Festival Interplay 2019 – Perturbazioni e turbolenze nella danza della Compagnia MK

Festival Interplay 2019 – Perturbazioni e turbolenze nella danza della Compagnia MK

Il festival internazionale Interplay, giunto alla sua diciannovesima edizione, porta a Torino la danza internazionale, e coerentemente con la visione globale che caratterizza la direzione di Natalia Casorati, allarga il campo a diversi approcci coreografici. Dieci giorni di festival in cui la danza non solo passa attraverso i teatri ormai consueti del capoluogo, ma arriva all’interno del Politecnico di Torino, alla Galleria d’Arte Moderna GAM e in Piazza Vittorio Veneto con le performance Outdoor. Quest’anno ha avuto un grande rilievo il focus sui coreografi fra Asia e paesi Mediterranei, a ribadire il carattere di internazionalità di questo evento.

Danza-Bermudas-Tequila-Sunrise Compagnia MK - Festival Interplay 2019

In questo articolo ci soffermeremo sullo spettacolo della compagnia MK, fondata negli anni Novanta e diretta da Michele Di Stefano, che vanta tra i numerosi riconoscimenti il Premio Danza&Danza 2018 per la categoria “Produzione Italiana”, tra i finalisti del Premio Ubu 2018 come migliore spettacolo di danza e Leone d’Argento 2014 alla Biennale Danza di Venezia.

Turbolenza. Questo è il termine da cui è possibile partire per parlare di Bermudas_Tequila Sunrise, spettacolo della compagnia MK. Questa parola ha diversi significati, a seconda degli ambiti in cui viene impiegata, e qui vorrei riferirmi alla definizione resa da Treccani:

In fluidodinamica, movimento irregolare (o «caotico») delle particelle di un liquido o di un gas caratterizzato da forti fluttuazioni della velocità e da moti vorticosi, che si manifesta quando il flusso del fluido, rispetto a superfici fisse con le quali è a contatto, supera una certa velocità critica.

I performer entrano in scena come particelle, in un vortice che si apre all’interno della scena, assolutamente priva di oggetti. La danza di Michele Di Stefano propone, partendo da quattro movimenti che vengono enunciati da Lanza all’inizio dello spettacolo (Largo, Lungo, Rovescio, Lato), una partitura definibile in termini fisici e atmosferici. Entrando in momenti diversi, singolarmente e a gruppi, i sette performer ci proiettano all’interno di una sorta di “triangolo delle Bermuda” – in cui non si raccontano storie di navi e aerei scomparsi – ma dove vigono le regole della perturbazione. Ciò che sembra apparentemente caotico e casuale, si rivela in realtà un moto perpetuo calcolato con esattezza e con una precisione metodica – quasi fosse una conseguenza delle stesse leggi a cui rispondono i campi elettromagnetici e le orbite dei pianeti.

Se inizialmente risulta difficile farsi trasportare all’interno di questo esperimento spaziale – complice anche il complesso gioco di luci colorate sul pavimento bianco – la turbolenza è qualcosa che si muove sullo sfondo, tarda ad arrivare, ma è annunciata dal fatto che i danzatori rompono la routine dei quattro movimenti con un gesto più forte e incisivo, come il fulmine che, dipinto da Giorgione ne La Tempesta, definisce quella massa che procede inesorabile a travolgere ogni cosa. I performer creano un campo di forze – come se fossero onde elettromagnetiche – e interagiscono come cariche che si spostano nel vuoto, si manifestano con reazioni istantanee e modificano le loro cariche a seconda della presenza di altre forze.

Danza-Bermudas-Tequila-Sunrise

Lo spettacolo è diviso essenzialmente in due parti: se la prima propone un sistema di composizione rigoroso ma in apparenza legato al momento, nella seconda parte i danzatori si muovono in connessioni di coppia, le loro relazioni diventano più rischiose e anche la loro espressione nel volto è alleggerita, come se fossero presi da una dinamica che non richiede né sforzo né tensione. A dividere queste due parti il breve assolo di Philippe Barbout che rallenta la “velocità critica” della perturbazione e ferma la concitazione di questo sistema, per porsi con una presenza di grande forza e apre uno spiraglio di relazione concreta con lo spettatore. Un intervento efficace e potente, perfettamente in consonanza con la grande sintonia con cui si muovono i danzatori di Michele Di Stefano. Un dettaglio non trascurabile: i performer raggiungono un evidente “stato di grazia” mentre si muovono, un contagioso divertimento che risulta evidente sui loro volti.

Si può fare un piccolo appunto sulla scelta di favorire maggiormente un lato per entrate e uscite, con il tradizionale sistema delle quinte simmetriche, che rende un pochino meccanica la dinamica della turbolenza. I costumi evocano atmosfere estive e balneari, ottima la scelta di colori, ma forse troppo audaci le taglie e le forme in relazione ai corpi dei performer. La proposta sperimentale – e rischiosa – data in questa sede dalla compagnia MK definisce la sua relazione con il pubblico senza alcun bisogno di espedienti o forzature dialogiche: non serve fissare gli spettatori, renderli partecipi di respiri affannosi, atti violenti – e nudi prevedibili – non necessari, ma è sufficiente creare un sistema in cui danza, movimento, cromie luminose – e un tocco di ironia nella scelta dei costumi – invitino il pubblico a unirsi.