Il Colloquio di Collettivo lunAzione prende ispirazione dal sistema di ammissione ai colloqui periodici con i detenuti presso il carcere di Poggioreale a Napoli. Tre donne, tra tanti altri in coda, attendono stancamente l’inizio degli incontri con i detenuti: le tre portano oggetti da recapitare all’interno, una di loro è incinta: in maniera differente desiderano l’accesso al luogo che per ognuna custodisce un legame. Siamo andati ad assistere il 16 dicembre 2021 allo spettacolo, nel suo debutto milanese presso il Teatro PimOff. Successivamente, ci siamo intrattenuti per una chiacchierata sul racconto di come è nata la compagnia e come si è arrivati alla creazione di quest’opera, in cui gli autori si sono innamorati di queste vite dimezzate, ancorate all’abisso, disposte lungo una linea di confine spaziale e sociale, costantemente protese verso un aldilà doloroso e ingombrante da un lato e, per contro, una vita altra – sognata, necessaria, negata. Proponiamo quindi questa intervista multimediale, framezzando la forma scritta con degli interventi video.
Come si conoscono Eduardo Di Pietro, Mario Cangiano, Alessandro Errico, Marco Montecatino, Cecilia Lupoli, Federica Del Gaudio e Martina Di Leva?
Eduardo Di Pietro: Collettivo lunAzione è una compagnia nata a fine 2013 da un gruppo di amici, conosciuti tra loro al laboratorio teatrale Elicantropo di Napoli. Nel corso del tempo abbiamo imparato a lavorare insieme e trovato dei metodi per equilibrare il gruppo. Dagli inizi, all’interno dell’amministrazione di compagnia, oltre a me c’erano Cecilia, Martina e Giulia Esposito che sono principalmente attrici, poi si sono aggiunti diversi membri, tra cui Federica come costumista. A seconda dei progetti che abbiamo la necessità di sviluppare coinvolgiamo dei collaboratori. Persone con cui innanzitutto ci troviamo umanamente bene, che è uno degli obiettivi che nel corso del tempo ci siamo prefissati. Cerchiamo un punto di incontro tra le necessità artistiche e quelle di convivenza professionale. Con gli altri membri ci siamo incontrati in diversi contesti, in realtà ci conoscevamo professionalmente tutti da tempo, precedentemente al Colloquio. Abbiamo coinvolto prima Renato Bisogni e poi Mario perché serviva una tipologia di interprete per il progetto che io ancora non conoscevo.
Dalla Campania all’Emilia Romagna. Da Napoli a Faenza. Cosa lega Collettivo lunAzione al Teatro Due Mondi?
EDP:L’impronta del nostro lavoro è fortemente radicata nel nostro territorio, o almeno lo è stato fino ad oggi. L’esperienza al Teatro Due Mondi è strettamente correlata a una residenza artistica che è nata a seguito del premio Scenario. Dovevamo sviluppare lo spettacolo nella sua forma completa per il debutto che sarebbe poi venuto a seguire, e da lì è nata un’amicizia. È stata un’esperienza bellissima in uno spazio ideale per lavorare alla creazione scenica. È accaduto un che di sorprendente: riuscire ad approfondire un lavoro in una maniera così intensiva e soddisfacente. Speriamo ci possano essere tante altre occasioni di questo tipo.
Marco Montecatino: L’attore è pur sempre mercenario: dove arriva la chiamata interessante lui risponde. Le esperienze hanno portato bene o male tutti quanti noi anche fuori Campania. Ad esempio mi sono incontrato con Mario a Genova, nonostante fossimo di Napoli entrambi.
Mario Cangiano: La famosa valigia dell’attore! Si è sempre con la valigia in mano pronti a girare. Quando capita di lavorare nella tua città è sempre più bello, però quando poi vai via e la città la porti tu stesso fuori ti dà la spinta per andare in scena ancora con più entusiasmo.
Come si muovono le giovani compagnie campane sul territorio?
Perché il teatro è “in orbita” secondo lunAzione?
EDP: Il sottotitolo è nato per chiarire il nostro ambito d’azione. Il nostro nome rischiava di poter essere interpretato in maniera aleatoria: volevamo chiarire innanzitutto che facessimo teatro, e che il tutto fosse correlato a lunAzione, in orbita come qualcosa che ci fa sognare, viaggiare. Come la Luna influenza la terra, anche noi contiamo di avere una ricaduta, una conseguenza nel lavoro che portiamo agli altri. Stiamo anche pensando di occuparci dell’ambito scientifico, visto che il nome ha il suo effetto collaterale!
Come nasce il testo de Il Colloquio? Unica mente o collettiva?
EDP: Il testo nasce da un’idea di base molto vaga, una situazione teatrale che chiaramente si ispirava alla questione dell’accesso settimanale al carcere. Quindi ho proposto poi agli attori di lavorare insieme. Portavamo delle proposte in larga parte condivise.
Alessandro Errico: Con il materiale raccolto con le sole improvvisazioni potremmo fare altri due spettacoli, altri due Colloqui! Alcune improvvisazioni sono durate anche tre ore, quindi di materiale ce n’era. Ovviamente è stata fatta una cernita in base a quello che si reputava più interessante e utile al raggiungimento del messaggio. Questo lavoro di sbobinamento di ore e ore di girato sono stati a carico di Eduardo e Cecilia. Poi ci sono state anche le interviste, e anche da lì è nato del materiale drammatrugico. Alcune espressioni, alcuni modi di dire ci sono stati proprio regalati da queste signore, che ci hanno raccontato queste storie tragiche, a volte in un modo assolutamente comico che ti strappava una risata. Questa cifra peculiare del Colloquio deriva non solo da uno stile della compagnia, ma anche da un’esperienza diretta d’incontro con queste donne.
Il Colloquio è il vostro primo approccio alle problematiche sociali contemporanee?
Nello spettacolo si gioca sul rapporto – e sull’assenza – di maschile e femminile. Quanto c’è di maschile e femminile in Pina, Annarella e Maria Assunta?
EDP: È una questione affascinante perché è squisitamente teatrale. Aver messo il seme dell’interpretazione femminile da parte di uomini, senza che sia possibile anche lontanamente immaginare che sia qualcosa di nuovo, ha dispiegato tutta una serie di possibilità che sono fiorite. Il fatto che, ad un certo punto, un uomo che interpreta una donna possa poi interpretare un uomo è un salto mortale richiesto all’immaginazione dello spettatore che non si poteva pensare inizialmente. Il tutto è partito dal non creare una base di mimesi rispetto alla storia che stavamo raccontando. Proponevo agli attori un lavoro di ribaltamento. Queste donne che nella vita reale hanno una forza tale da poter competere con quella stereotipicamente maschile, che devono compensare in famiglia l’assenza di un partner e fungere da entrambi i genitori, in contesti dove i ruoli di genere sono stabiliti e le madri devono procacciare il sostentamento economico perché l’uomo non c’è, è in carcere. In maniera dichiarata in scena degli uomini interpretano delle donne, senza orpelli o esagerazioni, cercando di dribblare il pericolo della macchietta e gioco fine a se stesso, cercando di rendere significante questa esplorazione. Poi si sono aperti degli scenari anche interpretativi: ovvero questi uomini sono forse la proiezione dei detenuti che sono la ragion d’essere di questi personaggi. L’assenza più ingombrante della più scontata presenza.
Qual è stata la vostra ricerca nel lavoro fisico sui personaggi?
Alessandro Anglani, laureato in Informatica e Comunicazione Digitale presso l’Università di Bari nel 2014, e diplomato presso la Scuola di Teatro Alessandra Galante Garrone di Bologna nel 2017. Nella sua formazione, ha unito le conoscenze nell’ambito del corpo in scena con l’identità digitale, arrivando a sviluppare alcuni progetti al Watermill Center di New York gestito da Robert Wilson, quale il workshop “Let ‘em feel your presence”. Si specializza autorialmente in Drammaturgia, Algoritmi e Ipermedia in Italia e all’estero. I suoi progetti di performance interattiva sono arrivati nel 2019 e 2020 semifinalisti alla Biennale College Teatro per registi under 30: “Eliogabalo – l’Anarchico incoronato” e “Montecchi e Capuleti”. Attualmente è impegnato nella promozione del proprio progetto di drammaturgie ipertestuali e nello sviluppo delle proprie performance digitali. Inoltre, offre i propri servizi come web designer e digital PR.
VirtualeReale, il percorso di analisi e ricerca sulle integrazioni di tecnologia, arte e nuove forme di narrazione, finalmente giunge ad esplorare la ricerca contemporanea nelle Performance Digitali che utilizzano lo Spazio Virtuale. Telepresenza, guanti aptici, musica binaurale, liveness e mixed reality sono gli ingredienti principali di questo mondo ancora tutto da esplorare.
Come ormai ci insegna l’esperienza spendiamo qualche parola per entrare nella semantica dell’argomento che tratteremo.
NET.ART: il termine allude a una disciplina artistica contemporanea volta a creare opere d’arte con, per e nella rete Internet, demandando il ruolo principale dell’esperienza della fruizione estetica alle reti telematiche. Gli artisti che lavorano in questo modo sono spesso chiamati net-artist. Esistono però diverse tipologie di lavori digitali che, seppur creati per la rete, non possono essere inclusi in questa categoria. Per questo motivo è necessario rintracciare alcuni elementi essenziali che rendono riconoscibile un’opera di Net art:
creazione tramite linguaggio di programmazione e software;
intenzione artistica/estetica e di connessione fra più contenuti multimediali;
interattività come elemento essenziale ma non sempre necessario;
fruibilità globale – l’accesso possibile da qualsiasi connessione ad Internet -;
natura di open source, modificabile da chiunque.
Un noto teorico, Lev Manovich, definisce la net.art: “la materializzazione dei social network nella comunicazione su internet”. Infatti il gruppo precursore di questo movimento artistico è stato in grado di creare un genere artistico soprattutto attraverso la sua capacità di fare network e di connettere programmatori di tutto il mondo intorno ad una pratica creativa ma anche ironica. La net.art ha giocato molto con la parodia, con l’errore e con la destrutturazione delle pagine web. Oggi possiamo affermare che la net.art (come movimento e non come forma artistica) si sta spegnendo. Il senso di quel movimento veniva evidenziato dal fatto che tra il ‘94 e il 2004 il Web entrava per la prima volta nell’uso comune di milioni di persone che iniziavano a sperimentare il nuovo medium.
CYBERFORMANCE: Questo termine si riferisce a spettacoli teatrali dal vivo in cui, utilizzando tecnologie come applicazioni di chat o software collaborativo, i partecipanti possono lavorare insieme da remoto e in tempo reale attraverso Internet. La cyberformance può essere creata e presentata interamente online, per un pubblico che partecipa tramite dispositivi connessi da qualsiasi parte del mondo, può essere presentata a un pubblico prossimale (come in un teatro fisico o in un museo) con gli artisti che appaiono via Internet, oppure può essere un ibrido dei due approcci, con un pubblico e/o performer sia remoti che prossimali. Non è da confondere con la performance digitale, che si riferisce a qualsiasi tipo di performance che utilizzi media digitali, comprese quelle prive di elementi di connessione significativi per l’esperienza.
Sebbene la cyberformance possa essere considerata un sottoinsieme della net.art, molti artisti del settore usano quella che viene definita “realtà mista” per il loro lavoro, ovvero spazi fisici, virtuali e cibernetici collegati tra loro in modi ingegnosi. Internet è spesso oggetto e ispirazione del lavoro, oltre ad esserne il mezzo principale. I cyberformer lavorano con la molteplice identità offerta dagli avatar, sfruttando il divario tra persona online e sé offline. Possono anche sfruttare la facilità di passare da un avatar all’altro in un modo non possibile per gli attori “prossimali”. Tuttavia, la cyberformance ha i suoi problemi specifici, tra cui la tecnologia per adesso ancora instabile e le interruzioni della “vita reale”.
REMOTE THEATER: Il “teatro a distanza” o “teatro in remoto” è un genere sperimentale in cui spettacoli e altre attività teatrali vengono eseguite in tempo reale utilizzando strumenti di teleconferenza, a metà strada tra teatro e cinema, cercando di prendere il meglio di entrambe queste forme d’arte. Il Remote Theater differisce dal teatro convenzionale in quanto il pubblico e gli attori non condividono lo stesso spazio fisico, e perché ogni performance è mediata attraverso lo schermo di un laptop o di un telefono cellulare. Ciò apre a nuove funzionalità non ancora esplorate nel teatro vis-a-vis. Si differenzia dal cinema in quanto l’azione si svolge dal vivo, quindi ogni performance mantiene il carattere di unicità e irripetibilità, ed è creata in tempo reale per il pubblico presente in quel momento.
Approcciato il contesto in cui ci muoviamo, di seguito alcuni dei fatti artistici più interessanti e sofisticati atti a questa esplorazione dei linguaggi futuri, che purtroppo per ragioni editoriali saranno limitati a un numero ristretto. Siete invitat* a indovinare a quale categoria appartengano le seguenti performance, che potrete confrontare con le soluzioni al termine dell’articolo.
Rimini Protokoll – Remote X
Beykoz Kundura, un’ex fabbrica di scarpe di Istanbul trasformata in un polo culturale, ha aperto nel 2020 la rassegna “Kundura Stage” con una performance interattiva della rinomata compagnia teatrale tedesca Rimini Protokoll a cura di Stefan Kaegi, suo co-fondatore. Remote Istanbul di Rimini Protokoll, una versione adattata del progetto Remote X, è un viaggio audiovisivo teatrale per le strade di Istanbul. L’esperienza interattiva e immersiva prevede un gruppo di 50 membri del pubblico a passeggio nel cuore di Istanbul con delle cuffie. Guidato da una voce sintetica, il pubblico è invitato a guardarsi l’un l’altro e a prendere decisioni individuali, pur rimanendo sempre parte del gruppo. Durante la performance, registrazioni binaurali e musica forniscono una colonna sonora per il paesaggio urbano. In breve, Remote Istanbul consente al pubblico di interrogarsi sul proprio rapporto con la città attraverso pratiche quotidiane, osservare i propri comportamenti e quelli degli altri partecipanti con l’aiuto di una intelligenza artificiale.
Russian Troll Farm-Jared Mezzocchi e Elizabeth Williamson
I colleghi Masha e Nikolai siedono fianco a fianco in scatole nere separate sullo schermo del computer. Il loro scherzare è provocatoriamente sessuale. Sono cattivi l’uno con l’altro, ma questo non fa che aumentare la loro attrazione. Tramite quello che è già diventato un topos del teatro virtuale, Masha sembra raggiungere lo spazio virtuale di Nikolai (il suo braccio scompare dalla sua cornice mentre un altro si estende in quello di Nikolai) e lo “bacia”, entrambi con i volti spinti contro i limiti adiacenti delle rispettive scatole. Nikolai si stacca, e poi fa l’impossibile. Salta fuori dalla sua scatola in quella di Masha e posa appassionatamente le labbra sulle sue. Questo emozionante momento di trasgressione virtuale si verifica all’inizio dello spettacolo Russian Troll Farm: A Workplace Comedy, prodotto da Theaterworks Hartford e TheatreSquared con il supporto aggiuntivo di The Civilians. La storia aggancia lo spettatore, instillando il dubbio di cosa sia reale e cosa finzione. Lo spettacolo segue una squadra di persone che sta producendo disinformazione sui social media durante la corsa alle elezioni presidenziali americane del 2016: si dipinge quindi un agghiacciante ritratto nichilista che è allo stesso tempo farsesco e demoralizzante per chiunque creda ancora nella democrazia. Il sapiente uso della tecnologia di teleconferenza e del software ISADORA permette allo spettacolo di due ore, co-diretto da Jared Mezzocchi ed Elizabeth Williamson, di stupire con grafica, effetti, meme e momenti d’intensità drammatica, permettendo così alla pièce di essere nominata tra le migliori performance teatrali del 2020 dal New York Times.
The Under Presents – Tender Claws
La nuova esperienza dello studio di realtà virtuale Tender Claws, in collaborazione con Piehole, è stata lanciata su Oculus Quest, la gamma di visori di Virtual Reality gestita da Facebook. Non a caso si tratta di uno dei giochi più apprezzati della Realtà Virtuale. Ha esplorato questioni legate al mondo virtuale, all’automazione e al futuro del lavoro attraverso una scrittura, direzione artistica e design dell’interazione focalizzati a spingere oltre il limite il linguaggio della narrazione immersiva. Nel gioco ha particolarmente importanza la sua natura narrativa e di esplorazione; la sua integrazione di teatro immersivo e interattività dal vivo; e il suo game design.
L’area “principale” del gioco è l’omonimo locale/palcoscenico. È qui che i giocatori possono sperimentare spettacoli che, a seconda del momento, vengono eseguiti da attori dal vivo in tempo reale. Questo cabaret vaudeville digitale funge da punto di ritrovo del gioco. Per chiunque sia stato a un’esperienza teatrale immersiva, The Under Presents sembrerà familiare. Presenta gli stessi fattori intrinseci: la preparazione, la messa in scena, il modo in cui i moduli narrativi possono essere vissuti non linearmente, ma soprattutto il fatto che, a differenza della maggior parte delle esperienze VR, ci sono veri attori che danno spettacoli dal vivo e interpretano personaggi con cui interagire. In più, un altro fattore non indifferente è che il gioco è “multigiocatore”, il che significa che altre persone reali potrebbero sperimentare queste esperienze con te.
Orchestre virtuali: la Royal Festival Hall e la BCC Virtual Orchestra
Trovarsi seduti sul palco della Royal Festival Hall mentre il direttore della Philharmonia, Esa-Pekka Salonen, sale sul podio. Non si tratta di un sogno, è tutto reale. O virtualmente reale. Si tratta della prima orchestra immersiva a 360 gradi della Gran Bretagna.
Le cyber-orchestra sembrano guadagnare terreno in questo periodo, anche se il progetto della Philharmonia parte da un concetto molto diverso dalla Virtual Orchestra della BBC, che ha gestito il contributo musicale di oltre 1.000 orchestranti tramite i loro smartphone in videoconferenza in tempo reale. Questa esperienza, invece, lascia lo spettatore nel cuore di un ensemble professionale mentre esegue il movimento finale della quinta sinfonia di Sibelius. Il realismo dell’esperienza, sviluppata dalla Philharmonia in collaborazione con gli specialisti di realtà virtuale londinesi Inition, è straordinario. La vicinanza di archi e slide di trombone è così credibile che è impossibile non sussultare.
“Senza vergogna e con orgoglio” , dichiara Salonen, “Mi pare di essere ad un punto della storia equivalente alla nascita del disco Long-playing a 33 giri. Non è uno scherzo: diventerà un mezzo significativo con cui la musica verrà ascoltata nel prossimo futuro”.
Una volta giunti al termine dell’articolo, possiamo provare a categorizzare le experience sopra elencate. Per Remote X dei Rimini Protokoll solo il tag Cyberformance sembra essere il più adeguato: non si tratta solamente di un percorso audio, ma la tecnologia guidata dall’Intelligenza Artificiale permette un feedback continuo della “realtà mista” tra digitale e performance site-specific. Russian Troll Farm di Jared Mezzocchi e Elizabeth Williamson è forse uno degli esempi più riusciti di Remote Theater che ci ha offerto la pandemia, unendo anche elementi di Cyberformance grazie al software ISADORA.The Under Presents di Tender Claws, con la sua preponderante natura videoludica, raccoglie nella sua natura le esperienze della NET.art, che si potenziano di sfumature di Cyberformance quando vi è l’intervento degli attori in tempo reale con il pubblico. Infine, le esperienze musicali della Royal Festival Hall e della BCC Virtual Orchestra racchiudono certamente le basi costitutive della Cyberformance, con la specifica che l’utilizzo nella seconda dei software di videoconferenza la rende essenzialmente una pièce di Remote Theater.
Alessandro Anglani, laureato in Informatica e Comunicazione Digitale presso l’Università di Bari nel 2014, e diplomato presso la Scuola di Teatro Alessandra Galante Garrone di Bologna nel 2017. Nella sua formazione, ha unito le conoscenze nell’ambito del corpo in scena con l’identità digitale, arrivando a sviluppare alcuni progetti al Watermill Center di New York gestito da Robert Wilson, quale il workshop “Let ‘em feel your presence”. Si specializza autorialmente in Drammaturgia, Algoritmi e Ipermedia in Italia e all’estero. I suoi progetti di performance interattiva sono arrivati nel 2019 e 2020 semifinalisti alla Biennale College Teatro per registi under 30: “Eliogabalo – l’Anarchico incoronato” e “Montecchi e Capuleti”. Attualmente è impegnato nella promozione del proprio progetto di drammaturgie ipertestuali e nello sviluppo delle proprie performance digitali. Inoltre, offre i propri servizi come web designer e digital PR.
Il professor Oliviero Ponte di Pino, già conosciuto ai frequentatori e alle frequentatrici dell’ambiente teatrale, ci offre una sua nuova pubblicazione in cui risuona la trentennale esperienza in ambito editoriale (Ubulibri, Rizzoli, Garzanti). L’approfondita conoscenza dei media spettacolari lo ha condotto, negli anni, alla scrittura su giornali e riviste, alla realizzazione di trasmissioni radiofoniche e televisive per la RAI, all’ideazione di festival e mostre, e alla conduzione di Piazza Verdi (Radio3 RAI), fino alla stesura “di getto”, come egli stesso la definisce, diUn Teatro per il XXI secolo. Lo spettacolo dal vivo ai tempi del digitale edizioni Franco Angeli, durante il lockdown tra il 20 dicembre 2020 e il 6 gennaio 2021.
L’esperienza di isolamento quasi totale, con i luoghi di spettacolo chiusi per circa un anno, senza una biblioteca raggiungibile, ha obbligato Ponte di Pino a una ricerca quasi esclusivamente dipendente da una connessione web per riempire i vuoti di memoria. Fortunatamente la creazione nel 2001 del sito atreatro.it, che dal 2004 cura Le Buone Pratiche del Teatro con Mimma Gallina), e dal 2012 il programma di BookCity Milano (con Elena Puccinelli), fondando nel 2017 il portale Trovafestival (con Giulia Alonzo), ha permesso di redigere una sintesi di quello che è accaduto nei primi vent’anni del XXI secolo, da un punto vista privilegiato.
La celebrazione dei vent’anni di ateatro.it ha fornito il pretesto per questa retrospettiva che si misura con un paradosso. Da una parte l’esplosione del teatro nell’ultimo decennio ne ha permesso l’uscita dai luoghi deputati per prendere forme molto diverse, spesso imprevedibili, invadendo molti ambiti che gli erano estranei, nello spazio urbano e naturale ma anche nella società. Nel 2020, però, la pandemia ha vietato, cancellato, reso impossibile qualunque forma di spettacolo al di fuori del piccolo schermo. La retrospettiva di Un Teatro per il XXI secolo nasce da una ricchezza di stimoli e di memorie, da una grande nostalgia e sostanzialmente, da un grande vuoto.
Il libro si presenta in forma modulare e schematica, un mosaico che prova a registrare le mutazioni di questo nuovo ventennio, considerando sempre il teatro come oggetto di riflessione, per cui la discriminante scelta da parte dell’autore risulta chiara: “vengono privilegiate le esperienze che ne mettono in discussione la natura e le funzioni”.
Ogni anno, dal 2001 al 2019, viene “etichettato” secondo una comoda classificazione che offre tre punti di vista. La sezione #Inteatro offre gli spettacoli o le esperienze teatrali particolarmente significativi, che hanno segnato un’innovazione, l’apertura di una prospettiva inedita, l’emergere di un nuovo talento. Per quanto riguarda gli spettacoli stranieri, vengono presi in considerazione nell’anno della loro prima apparizione in Italia. Questo implica l’assenza di numerosi spettacoli e artisti emergenti della scena internazionale, che non hanno avuto visibilità nel nostro paese.
In #Extrateatro si classificano gli eventi che più si sono posti al centro del dibattito pubblico, o che suggeriscono una riflessione sulla sua natura e sulla sua funzione, nello scenario della cultura contemporanea. Vengono inoltre segnalati alcuni volumi che hanno avuto un impatto particolarmente significativo nella riflessione sul senso del teatro oggi e che possono offrire un’utile “cassetta degli attrezzi” per chi voglia confrontarsi con le mutazioni della scena contemporanea. #Ateatro riunisce dei focus sulle attività sviluppate in questi vent’anni da Ateatro, fonte di informazioni, ma anche una lente (soprattutto con le Buone Pratiche) per seguire l’evoluzione del sistema, evidenziando le sue criticità.
“Al 2020, l’hannus horribilis della pandemia, è dedicato il capitolo finale. L’emergenza sanitaria, con il blocco pressoché totale degli spettacoli, ha evidenziato le fragilità economica e identitaria del settore, ha spinto alcuni soggetti alla ricerca di soluzioni creative, ha imposto una diversa consapevolezza del rapporto tra reale e virtuale, tra presenza e streaming. È da qui che dobbiamo ripartire, se non vogliamo che tutto torni come prima, ma molto peggio…”
L’interrogativo generatosi negli anni precedenti al 2020 si radicalizza: “quale può essere il ruolo dello spettacolo dal vivo nella società contemporanea, colonizzata dal digitale?”. Se da una parte le avanguardie e i movimenti della seconda metà del Novecento si erano definiti soprattutto sulla base del contenuto degli spettacoli e delle modalità di lavoro, in reazione al “vecchio teatro”, i nuovi generi mettono l’accento sulla relazione, sul rapporto con il pubblico:
“Il teatro si è fatto immersivo, di interazione sociale e di comunità, one-on-one, onlife, partecipato, performativo, in residenza, di sensibilizzazione, sociologico… Emblematica è la parabola dell’aggettivo “politico”, che non si riferisce più alla trasmissione di un messaggio o di una ideologia, e nei casi più triviali alla propaganda, ma guarda piuttosto al ruolo del teatro all’interno della polis, come strumento per creare partecipazione, inclusione, cittadinanza. Cambia anche la posizione dello spettatore. Non si tratta più di guardare e consumare un prodotto culturale, che i mediatori critici si preoccupano di inserire nel contesto che lo ha generato, per valutarlo ed eventualmente consigliarlo. Non basta più accompagnare il viaggio della produzione, nelle sue varie tappe, una volta che l’accento è passato dall’opera al processo. Chi prende parte a molte delle esperienze raccontate in queste pagine deve mettersi in gioco in prima persona, come partecipante attivo, abbandonando la distanza critica rispetto all’oggetto. Nel momento stesso in cui documenta questa esperienza, l’osservatore ne è parte integrante.”
Queste nuove esperienze si esprimono basandosi sul principio di indeterminazione proposto da Heisenberg: il fatto stesso di osservare un processo, lo cambia. Quando la distanza dal fenomeno si fa troppo piccola, le regole della fisica classica non valgono più. L’autore definisce ’“osservazione partecipata” la capacità di guardarsi mentre si partecipa ad un evento, registrando le proprie reazioni e quelle del pubblico mentre si è parte attiva del processo. Essere un testimone che interagisce in questo modo con l’ambiente circostante implica esserne responsabile. Questo sguardo sensibile avrà modo di notare le sperimentazioni artistiche, le condizioni economiche e politiche della produzione, percependo l’impianto culturale in quanto fonte di progresso e idee.
Alessandro Anglani, laureato in Informatica e Comunicazione Digitale presso l’Università di Bari nel 2014, e diplomato presso la Scuola di Teatro Alessandra Galante Garrone di Bologna nel 2017. Nella sua formazione, ha unito le conoscenze nell’ambito del corpo in scena con l’identità digitale, arrivando a sviluppare alcuni progetti al Watermill Center di New York gestito da Robert Wilson, quale il workshop “Let ‘em feel your presence”. Si specializza autorialmente in Drammaturgia, Algoritmi e Ipermedia in Italia e all’estero. I suoi progetti di performance interattiva sono arrivati nel 2019 e 2020 semifinalisti alla Biennale College Teatro per registi under 30: “Eliogabalo – l’Anarchico incoronato” e “Montecchi e Capuleti”. Attualmente è impegnato nella promozione del proprio progetto di drammaturgie ipertestuali e nello sviluppo delle proprie performance digitali. Inoltre, offre i propri servizi come web designer e digital PR.
VirtualeReale, il percorso di analisi e ricerca sulle integrazioni di tecnologia, arte e nuove forme di narrazione, oggi vi porta a esplorare le nuove entusiasmanti prospettive dei Digital Bodies. Ma cosa sono questi corpi digitali?
All’interno dell’universo digitale, il corpo diventa qualcosa che non possiamo più toccare o sentire. Esso si distacca dalle nostre azioni, costringendoci a nuovi modi di associare, osservare e pensare alla sua relazione con lo spazio. Nonostante il corpo umano abbia dominato per secoli le visioni artistiche in ogni espressione, con l’emergere di nuovi strumenti digitali, arrivano nuovi modi di esplorare quale ruolo gioca il corpo negli ambienti sia fisici sia virtuali. I confini fluidi in cui ci alterniamo tra la nostra vita reale e quella virtuale implicano che la nostra comprensione del corpo sia distaccata e superata. Inspiriamo profondamente e gettiamoci in questo mondo misterioso e ancora tutto da costruire:
Forse il cambiamento più vivido sta arrivando nell’arte più vicina al corpo umano: la danza. Se la danza è l’arte più incarnata, intimamente dipendente dallo stato del corpo… e ogni forma d’arte va verso il suo opposto, allora il futuro della danza deve essere trovato nella disincarnazione.
– Marcos Novak
L’acclamata compagnia di danza digitale britannica di Wayne McGregor, Random Dance Company, celebra la trasformazione corporea nel virtuale, esplorando la complementarietà tra i corpi dal vivo e virtuali in una memorabile trilogia multimediale ispirata agli elementi naturali: acqua (The Millenarium, 1998), fuoco (Sulphur 16, 1999) e terra/aria (Aeon, 2000). The Millenarium crea un ambiente futuristico di corpi digitali, uno spazio virtuale con straordinaria computer grafica per l’epoca, in un mondo simile a un acquario, dove il “dal vivo” presente incontra il “dal vivo” non presente in un dialogo vulcanico, mentre Sulphur 16offre momenti ancor più straordinari e mozzafiato unendo danzatori live e proiettati.
La performance si apre con una scintillante immagine gigante di una danzatrice proiettata su una fine tela di garza al centro del palco. Le luci gradualmente la illuminano per rivelare la sua controparte reale retrostante a centro palco. Due danzatori virtuali performano un duetto sensuale e fluido muovendosi all’interno e attraverso l’uno con l’altro. Mentre si spostano diventano interconnessi e sembra che avanzino uno nel corpo dell’altro. In una routine esuberante l’intera compagnia di danzatori viene raggiunta da loro doppi virtuali: il palco è riempito con danzatori reali e digitali, le immagini si dividono e si doppiano sulle varie superfici presenti in una sequenza al cardiopalma. Nonostante sia stata creata alla fine del 1999 è uno dei primi esempi di congiunzione sublime e mesmerica teatrale di performer live e virtuali all’interno di un palcoscenico. La ricerca della compagnia enfatizza come la tecnologia, stimolata attraverso ogni aspetto del palco, imprima la sua estetica futuristica sulla coreografia e sul design. Le coreografie rapide e inusuali di McGregor creano un vocabolario fisico “alieno” che mischia il personale, l’organico e la macchina. Egli lo descrive come un tentativo di “collocare il concetto del corpo, del tempo e dello spazio all’interno di nuove dimensioni” e “spingere i danzatori verso incredibili nuovi limiti di articolazione, esplorazione e dubbio nelle idee circa la tecnologia e il corpo umano”. Il coreografo approfondisce maggiormente questa idea inNemesis(2002) dove i danzatori in tempo reale vestono ampie braccia prostetico-meccaniche propulsive.
E lungi dallo svanire nell’immaterialità del nulla, il corpo sta complicando, replicando, sfuggendo alla sua orfanizzazione formale, gli organi organizzati che la modernità ha preso per normalità. Questa nuova malleabilità è ovunque: nei cambiamenti del transessualismo, nelle perforazioni di tatuaggi e piercing, nei segni indelebili di marchi e cicatrici, nell’emergere di reti neurali e virali, vita batterica, protesi, inserti neurali, un gran numero di matrici vaganti.
– Sadie Plant
In un famoso articolo del 1994, Creare uno spazio: esperienze di un corpo virtuale, una delle artiste britanniche più rinomate di danza e tecnologia, Susan Kozel, riflette a lungo sul corpo digitale e la telepresenza, a seguito della sua performance di quattro settimane nell’installazione di Paul Sermon dal nome Telematic Dreaming(1992). Lavorando per svariate ore al giorno in un periodo conciso di tempo, simultaneamente come corpo reale (nel proprio letto) e come corpo virtuale (la sua immagine proiettata poteva interagire con la presenza telematica degli altri), Kozel ha esplorato in profondità la relazione tra il proprio corpo carnale e la sua controparte virtuale. Videocamere, monitor e proiettori interconnessi collegavano due letti in camere separate utilizzando una videoconferenza ISDN. Ogni silhouette di persona appoggiatasi sul letto blu veniva separata dal proprio background, utilizzando ChromaKey e tecniche di Blue Screen, e veniva trasmessa e proiettata all’interno dell’altro letto, e l’immagine composita veniva mostrata all’interno dei monitor. I due corpi, uno reale e uno virtuale, quindi, si incontravano su entrambi i letti con l’integrazione di alcune immagini preregistrate ricche di colori e texture per creare un’atmosfera onirica e immaginifica. Kozel descrive un’iniziale stranezza di relazione attraverso le proprie azioni, come ad esempio muovendo braccia e corpo da sola nel letto, come se si trovasse all’interno di qualche rituale ipnotico di danza; contemporaneamente instaurando un’intensa e intima improvvisazione con altri corpi sconosciuti proiettati sul letto. La performer testimonia di sentire piccole scosse elettriche in risposta alle carezze virtuali, rendendo evidente l’impatto delle connessioni telematiche. L’esperienza del suo corpo diviso diventa come un rito di passaggio mitico mentre ripercorre i suoi ricordi di tenere esperienze sessuali che la eccitano o la fanno sentire colpevole, andando ad esplorare anche possibili incidenti di violenza e contaminazione: “Posso essere desensibilizzata dell’attrito di una relazione con le persone che amo davvero?”.
La sua esplorazione si basa sulle nozioni di McLuhan così come sulla ricerca di Frederik Brooks nell’ambito della Intellingence Amplification, per sollecitare il corpo elettronico come amplificatore ed estensore del corpo carnale, al quale è estremamente connesso. Piuttosto che rendere il corpo materiale obsoleto, la telematica offre una una quarta dimensione che rende possibili cose che il corpo fisico non può fare, come mappare se stessi all’interno di qualcun altro, o sparire, e quindi sfidare le idee di che cosa due corpi possano o meno fare: possiamo passare attraverso l’altro e renderci infinitamente mutevoli, ma non cessando mai di appartenere ai nostri corpi. La telepresenza è considerata un’esperienza Out-of-Body: ciò che intriga non è solo il cambio radicale della percezione umana, ma l’inevitabile ritorno del corpo a cui si appartiene. Questo movimento extracorporeo e la sensazione che lascia una volta che si è tornati in se stessi, è la dimensione politica che risiede nella Virtual Reality.
Nel bestiario culturale, il corpo è polverizzato e divaricato, come una “dissolvenza”; un viaggiatore del tempo, dove dal punto di vista delle avanzate tecnologie cibernetiche del panorama mediatico, è sempre un grande fallimento nel disperato bisogno di protesi tecniche supplementari.
– Arthur Kroker
Ilmotion capture è una tecnica di animazione avanzata molto frequente e richiesta sia nelle grandi produzioni cinematografiche che in quelle videoludiche. Spesso viene utilizzata per agevolare il compito degli animatori di rendere in maniera iperrealistica i personaggi digitali. La tecnica del Motion Capture (MoCap), fortunatamente, sta diventando sempre più accessibile grazie a progetti di crowdfunding e startup anche nell’ambito dell’industria indipendente: un esempio tra tutti è la Smartsuit Pro di Rokoko, che grazie al suo prezzo conveniente, costituisce una sezione fondamentale di questa ricerca. La tecnologia del MoCap nasce per soddisfare l’esigenza di voler campionare e rappresentare numericamente i movimenti di soggetti umani, animali o inanimati. Non a caso le prime aree di utilizzo di questo processo sono state nel settore clinico e militare, dove la registrazione dei movimenti del soggetto in esame permettevano di valutarne eventuali problemi di postura o di analizzare la prestazione fisica.
La nascita di veri e propri sistemi di motion capture avviene dall’inizio degli anni Ottanta, negli ambienti universitari e di ricerca, dove lo studio del movimento favorì lo sviluppo di sistemi utili allo scopo.
Nel 1982 al MIT viene presentata la Graphical Marionette, un sistema ottico che prevedeva l’uso di una serie di led posizionati su una tuta in corrispondenza dei giunti delle articolazioni, e quello di un paio di camere in grado di registrare le informazioni di movimento e visualizzarle real-time su una marionetta digitale. Pochi anni dopo, nel 1988, Silicon Graphics e Pacific Data Images (PDI) presentarono al pubblicoWaldo, un sistema che permetteva di gestire in tempo reale i movimenti della bocca di un personaggio a bassa risoluzione: in un video della rubrica Jim Henson Hour, viene spiegato che “per una scena di due minuti di Waldo, al computer servono 120 ore per creare l’immagine finale ad alta risoluzione”. La metodologia più seguita e più affidabile rimane ad oggi quella dei sistemi marker based, spesso oggetti sferici di piccole dimensioni fissati in posizioni strategiche delle articolazioni su una tuta indossata dall’attore, che possono emettere o riflettere la luce per l’acquisizione del movimento. I dati vengono processati dal calcolatore che fornisce una curva continua del movimento.
Storicamente il motion capture nell’industria dell’animazione è associato alla tecnica del rotoscoping, sviluppata nel 1914 da Max Fleischer, ovvero un processo che permetteva agli animatori di ricalcare le pose a partire da immagini registrate di attori reali che venivano proiettate su un pannello di vetro traslucido: il prodotto più celebre di Fleischer a dimostrazione di questa tecnica è la serie animataOut of the Inkwell dove i suoi personaggi apparivano molto fluidi nei movimenti. Nel 1921 fondò insieme a suo fratello i Fleischer Studios, che diedero vita a un personaggio importante per i cartoni animati di quegli anni, Betty Boop (1931), tanto da diventare i diretti concorrenti di Disney.
Disney d’altra parte, si mostrò subito interessata al rotoscoping e produsse come primo film d’animazione con questa tecnicaBiancaneve e i Sette Nani, che debuttò sul grande schermo nel 1937.
Ma non fu una sperimentazione priva di problematiche. Traducibile come “la zona perturbante”, l’Uncanny Valley è uno studio degli anni ‘70 nell’ambito della robotica, secondo cui la visione di replicanti e automi antropomorfi, generi un senso di familiarità e agio tanto più questi sono somiglianti alla figura umana. La ricerca nell’ambito del texturing, quindi, punta alla “vestizione” del corpo del performer di un altro doppio digitale, che possiede caratteristiche anche completamente innaturali: è la capacità del performer che, conoscendo il risultato e la qualità del movimento che dovrebbe avere, adegua il proprio corpo al proprio doppio. Il MoCap si è sviluppato drasticamente nell’industria cinematografica, riscuotendo forse ancora più successo: si pensi nell’ambito delle storie di J.R.R. Tolkien alle performance del pioniere della performance captureAndy Serkis e le successive dell’attore britannico Benedict Cumberbatch nei panni del drago Smaug.
Alessandro Anglani, laureato in Informatica e Comunicazione Digitale presso l’Università di Bari nel 2014, e diplomato presso la Scuola di Teatro Alessandra Galante Garrone di Bologna nel 2017. Nella sua formazione, ha unito le conoscenze nell’ambito del corpo in scena con l’identità digitale, arrivando a sviluppare alcuni progetti al Watermill Center di New York gestito da Robert Wilson, quale il workshop “Let ‘em feel your presence”. Si specializza autorialmente in Drammaturgia, Algoritmi e Ipermedia in Italia e all’estero. I suoi progetti di performance interattiva sono arrivati nel 2019 e 2020 semifinalisti alla Biennale College Teatro per registi under 30: “Eliogabalo – l’Anarchico incoronato” e “Montecchi e Capuleti”. Attualmente è impegnato nella promozione del proprio progetto di drammaturgie ipertestuali e nello sviluppo delle proprie performance digitali. Inoltre, offre i propri servizi come web designer e digital PR.
In occasione dello sviluppo di VirtualeReale, un percorso di analisi e ricerca, promosso da Theatron 2.0 a cura di Alessandro Anglani, sulle scoperte scientifiche e digitali applicate al mondo delle performing arts vogliamo gettare le basi per un’esplorazione delle integrazioni di tecnologia, arte e nuove forme di narrazione. Tra gli stimoli che abbiamo previsto nella nostra indagine, che vi porteranno a riscoprire come ci ha cambiati la tecnologia e come di conseguenza si è modellata la scena, figuraImmersive.World, una serie documentario che in questi giorni ha debuttato nel palinsesto di Rai 5 a cura di Elisa Valitutti.
Il documentario è stato sviluppato negli Stati Uniti a cura di Peter Dimario e Guto Barra, e certamente risente di un immaginario (quello del 2019, anno in cui è stato girato), esente dalle implicazioni dovute alla pandemia. Ma queste prospettive, invece di essere limitate o frenate, risultano ancora più radicali e necessarie. L’interesse sempre maggiore del mondo dell’intrattenimento e della cultura nei confronti del concetto di immersività consente un’indagine che va dalla narrazione interattiva all’arte esperienziale, dal teatro immersivo alla realtà virtuale. VirtualeReale vi da la possibilità di scandagliare questi nuovi mondi seguendo il percorso che preferite: basterà scegliere l’argomento che più vi interessa e potrete viaggiare nell’articolo, predisposto come un ipertesto, ovvero un testo che consente al lettore di costruirsi un autonomo percorso di lettura. Al termine, vi verrà consigliata una produzione artistica incline ai vostri interessi.
L’Interactive storytelling ha un obiettivo ben preciso: riuscire a trovare gli spiragli di interazione tra una narrazione e i fruitori finali della narrazione stessa. Il nuovo medium narrativo consente di scrivere le regole di un gioco e ampliare la relazione umana tra le parti in causa. Scopo finale è permettere alle persone di parlarsi, condividere idee, confrontarsi, creare connessioni, sia durante che successivamente all’esperienza.
Che si sviluppi tramite una buona componente di improvvisazione, tramite delle dinamiche legate all’universo del gioco di ruolo o alla scrittura algoritmica, l’obiettivo è quello di generare una responsabilità etica dei partecipanti, in maniera tale da innescare qualcosa e far riscoprire noi stessi, e in questo modo farci entrare maggiormente in empatia con il tema che viene trattato. In Immersive.World viene proposto il fortunato esempio dello spettacoloProject Amelia della compagnia Bricolage di Pittsburgh, che invita a riflettere sulla condivisione di dati personali con le grandi compagnie digitali.
L’esperienza permette ai suoi spettatori di entrare in un laboratorio aziendale, in veste di giornalisti, in occasione del lancio di una nuova intelligenza artificiale. Grazie all’interazione con i performer, gli spettatori possono confrontarsi tra di loro e trarre delle deduzioni: scegliere se e con chi schierarsi, attraversando varie fasi narrative o avventurandosi all’interno degli spazi, obbligando all’interazione sia altri spettatori sia i performer stessi. Se ti interessa l’Interactive Storytelling, non perderti questo consiglio! Se forse ti interessa qualcos’altro, torna su.
🟢 TEATRO IMMERSIVO 🟢
Il documentario affronta tra i vari temi il teatro immersivo, esperienza che negli ultimi 15 anni di produzioni teatrali ha generato un nuovo tipo di fruizione più legata ai cinque sensi che alla frontalità di un classico spettacolo. Essenzialmente il tentativo risiede nel far entrare il pubblico in sintonia con l’opera stessa, nell’esplorazione della narrazione. Lo spazio non presenta barriere architetturali, come quella tra scena e platea, bensì si sviluppa in spazi condivisi tra performer e spettatori.
In Immersive.World vengono proposte testimonianze di vari membri della compagnia Punchdrunk che, dal 2011, mette in scena Sleep No More, ispirato al Macbeth shakespeariano. Si tratta di uno spettacolo di teatro immersivo sviluppato in un edificio a 6 piani, il McKittrick Hotel, provvisto di ben 100 camere, disponibili per chiunque vi si voglia avventurare. Parte fondamentale di questa esperienza è proprio la libertà concessa al pubblico nello scegliere se attenersi alla forma lineare del racconto, oppure se scoprire altri luoghi o seguire altri personaggi.
Una delle osservazioni più interessanti indotte dalla visione del documentario è che il linguaggio fisico-corporeo dei performer è una componente fondamentale. Dunque, sono gli stessi promotori di questa nuova forma d’intrattenimento a confermare che le emozioni trasmesse e i ricordi creatisi saranno di molte volte superiori, rispetto a un qualsiasi altro spettacolo frontale. Se ti interessa il Teatro Immersivo, non perderti questo consiglio! Se forse ti interessa qualcos’altro, torna su.
🔵 INSTALLAZIONI INTERATTIVE 🔵
Il viaggio attraverso le installazioni interattive intende approfondire un istinto naturale dell’uomo, ovvero quello stimolo all’avventura e alla scoperta che in un classico museo risulta difficile da appagare. In questo caso, il pubblico diventa un membro attivo dell’installazione: giocare con l’opera d’arte diventa intrinseco alla natura stessa dell’Opera. Secondo i direttori dei musei che propongono questa modalità di fruizione, il pubblico apprezza di più l’esperienza che l’opera d’arte in sé. Le tecniche più utilizzate in questi contesti sono certamente il videomapping e l’integrazione con videocamere a infrarossi per la ricezione dei movimenti dei visitatori, talvolta aperte all’interazione di performer in carne e ossa.
Non è la tecnologia a rendere memorabile l’esperienza, ma la modalità di interazione con essa. In alcuni casi, come in quello della Mattress Factory di Pittsburgh, è il museo stesso che modifica gli spazi in base alle necessità dell’artista, ponendo da un lato l’artista nella condizione di omaggiare lo spazio in cui viene ospitato, e dall’altro fornendo ai visitatori il giusto contesto entro il quale provare un’esperienza fisica, totale, alienante ed eccitante, attraverso cui sviluppare successivamente un pensiero critico più profondo e radicale. Se ti interessano le Installazioni Interattive, non perderti questo consiglio! Se forse ti interessa qualcos’altro, torna su.
🟡 REALTÀ VIRTUALE/AUMENTATA 🟡
Approfondiamo, nella cornice del Tribeca Film Festival, tutti gli aspetti più entusiasmanti e curiosi legati ai mondi digitali della realtà virtuale e della realtà aumentata. Che si parli di videocamere a 360° o di ambienti sviluppati tramite motori grafici, o ancora che si preveda la presenza di performer in motion-capture ricostruiti tramite la Realtà Virtuale, tutto è atto a superare i pregiudizi legati alla tecnologia ed entrare in sintonia con questo nuovo Medium. Il Digital storytelling è una nuova forma d’arte che mira a rubare a piene mani dall’immaginario legato alla nostra realtà onirica. Non è più cinema né propriamente teatro, né videogioco, ma tutto si mescola generando una nuova forma di esperienza.
Ad oggi la Realtà Virtuale è solo agli inizi: questa integrazione scientifica con la sua controparte immaginifica certamente caratterizzerà l’evoluzione del racconto nel prossimo secolo. Anche qui, infatti, parliamo di storie: è la sintonia che crea lo storytelling. Cambia la fruizione ma non la connessione tra persone. I dispositivi, infatti, non devono mai limitare, ma devono lavorare con chi ha immaginato la narrazione. L’intenzione finale è quella di rendere la tecnologia di tutti i giorni meno ossessiva nella sua fruizione, di rompere l’illusione di creare una relazione stabile e duratura con l’altro, quotidianamente offerta dallo smartphone, sostituendola, tramite questi nuovi dispositivi, con una più reale e accattivante. Se ti interessano la Realtà Virtuale e Aumentata, non perderti questo consiglio! Se forse ti interessa qualcos’altro, torna su.
🟣 ARTE NEGLI SPAZI PUBBLICI 🟣
Che l’arte in tutte le sue forme abbia scelto di abbandonare luoghi chiusi e riservati per potersi aprire alla comunità sociale è un dato di fatto. La vera novità è che, negli ultimi decenni, l’interazione tra scienza, tecnologia e immaginazione ha portato gli artisti a interrogarsi su quale sia il futuro che desideriamo. Nell’esperienza offerta dalle opere d’arte di Daan Roosegaarde il rapporto tra natura e tecnologia è fondamentale. Nell’installazione Waterlicht i visitatori si ritrovano nel bel mezzo di un’inondazione: dei proiettori laser sagomano delle onde attraverso un’atmosfera generata da macchine del fumo. L’evento vuole sensibilizzare sull’innalzamento dei livelli dell’acqua, mostrando dove potrebbero arrivare se non si intervenisse in tempo.
La concezione secondo la quale senza il fruitore l’opera non esiste, genera un nuovo modo di interfacciarsi all’arte contemporanea. L’artista quindi la colloca in uno spazio ostile alla sua integrità, lo spazio pubblico, dove il pericolo di contaminazione è naturale e risulta impossibile porre cartelli con scritto “Non toccare”. L’interazione con l’opera d’arte è già prevista al momento della sua creazione, questa infatti consente di estraniarsi, di separare l’esperienza dalla vita quotidiana: la decontestualizzazione è uno dei concetti primari su cui si sta sviluppando l’arte contemporanea. L’evoluzione della luce che, dagli anni ‘60 e ‘70, ha portato a una rivoluzione totale degli ambienti e degli spazi, consente alla Light Art e alle ultime tecnologie di ricreare ambienti sorprendentemente immersivi ed effettivamente magici. Se ti interessa l’Arte negli Spazi Pubblici, non perderti questo consiglio! Se forse ti interessa qualcos’altro, torna su.
🔴 INTERACTIVE STORYTELLING: Say Something Bunny! di Alison Kobayashi 🔴
La performanceSay Something Bunny! di Alison S. M. Kobayashi e UnionDocs è basata su una registrazione audio amatoriale fatta oltre sessant’anni fa. L’origine di questo audio era un mistero: nessuna data, nessun nome e nessun contesto. Attraverso la sua ricerca minuziosa la performer ricostruisce con il pubblico le scene della registrazione, usando video, installazioni, momenti performativi e abbondante materiale d’archivio.
🟢 TEATRO IMMERSIVO: Here di Kelly Bartnick 🟢
Hereè una performance di teatro immersivo che si svolge nello spazio intimo di un appartamento seminterrato del Lower East Side di Manhattan. Il pubblico è limitato a cinque persone e il cast è composto di tre danzatori. La compressione di spazio e tempo consente di vivere con grande intensità la gioia e il dramma di questa famiglia, che diventano compagni, confidenti e ostili nel corso del tempo, e non si può restarne indifferenti.
🔵 INSTALLAZIONI INTERATTIVE: teamLab di Toshiyuki Inoko 🔵
TeamLab dal 2001 è un collettivo artistico internazionale, un gruppo interdisciplinare di vari specialisti: artisti, programmatori, ingegneri, animatori CG, matematici e architetti. Le installazioni interattive mozzafiato di teamLab propongono di esplorare la relazione tra sé e il mondo, trascendendo i confini della nostra percezione dello spazio e del tempo.
🟡 REALTÀ VIRTUALE/AUMENTATA: Vestige di Aaron Bradbury 🟡
Cosa succede se l’esplorazione VR incontra la mente umana? Si può portare una persona nei ricordi di qualcun altro? Questo è ciò che il regista Aaron Bradbury e il suo team tentano di fare con il loro film in realtà virtuale di 10 minuti. In Vestige, sei guidato dal vero racconto di Lisa mentre ricorda la vita con suo marito, Erik, e gli eventi che hanno portato alla sua tragica morte.
🟣 ARTE NEGLI SPAZI PUBBLICI: Adam Milner 🟣
Public Sculpturesè una mostra personale dell’artista Adam Milner. A differenza delle mostre tradizionali, la mostra di Milner abbraccia la pluralità e la dispersione presentando tredici sculture in tredici sedi di New York City, tra cui una bodega, il SUV di un amico e un negozio dell’usato. Le opere d’arte in scala intima diventano parte dei loro rispettivi ambienti, sfidando sottilmente la sterilità degli spazi convenzionali della galleria.
Alessandro Anglani, laureato in Informatica e Comunicazione Digitale presso l’Università di Bari nel 2014, e diplomato presso la Scuola di Teatro Alessandra Galante Garrone di Bologna nel 2017. Nella sua formazione, ha unito le conoscenze nell’ambito del corpo in scena con l’identità digitale, arrivando a sviluppare alcuni progetti al Watermill Center di New York gestito da Robert Wilson, quale il workshop “Let ‘em feel your presence”. Si specializza autorialmente in Drammaturgia, Algoritmi e Ipermedia in Italia e all’estero. I suoi progetti di performance interattiva sono arrivati nel 2019 e 2020 semifinalisti alla Biennale College Teatro per registi under 30: “Eliogabalo – l’Anarchico incoronato” e “Montecchi e Capuleti”. Attualmente è impegnato nella promozione del proprio progetto di drammaturgie ipertestuali e nello sviluppo delle proprie performance digitali. Inoltre, offre i propri servizi come web designer e digital PR.
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