Il festival TorinoDanza si riconferma anche quest’anno come una delle realtà più consolidate sul territorio nazionale per la diffusione della danza nelle sue declinazioni più variegate. Se la direzione di Gigi Cristoforetti con questa edizione è giunta al termine, questo evento rimane per la città di Torino un biglietto da visita e un appuntamento irrinunciabile per gli appassionati, ma soprattutto per il pubblico della città affezionato alla sua cultura teatrale.
In particolare questa edizione ha inaugurato e chiuso il suo programma nella splendida cornice del Teatro Regio di Torino: sotto la sua “nuvola” luminosa il festival è iniziato con lo storico Roméo et Juliette di Angelin Preljocaj, creato nel 1996 dal coreografo francese, fondatore della compagnia che porta il suo nome nel 1985. In questa rilettura del dramma Preljocaj, di origini albanesi, inserisce questa storia d’amore nel panorama dei totalitarismi nell’Europa dell’est, dopo la caduta del muro di Berlino. Nell’ambientazione futuristica, che richiama l’immaginario di una città sovietica, l’antagonismo non è fra le due famiglie ma fra due ceti sociali: uno benestante e difeso da uno stato militare – che richiama le ambientazioni di Fahrenheit 451 – e l’altro di homeless, una piccola società di esclusi senza regole. La partitura coreografica, agli occhi di uno spettatore odierno può risultare assolutamente anacronistica e l’aderenza alla struttura del balletto tradizionale risulta così forte da rendere prevedibile fin dall’inizio la drammaturgia dell’opera. Stridono talvolta i passaggi tra gli ensemble originali di Preljocaj e gli assoli dei giovani danzatori, assolutamente contaminati dalle tecniche contemporanee, in cui è evidente l’intervento creativo dell’interprete. Nonostante ciò, i ventiquattro danzatori rimangono coerenti in quanto a energia e dinamica alla partitura musicale di Prokofiev: in particolare notevole l’interpretazione di Mercuzio, che riscuote l’ovazione del pubblico, e il duetto d’amore di Romeo e Giulietta che mantiene il lirismo struggente della versione di MacMillan. L’unica nota debole dell’opera risiede nelle scene di lotta e della morte dei due giovani innamorati: Preljocaj cerca di rappresentare tutto, spesso arenandosi ad una pantomima poco credibile.
Al teatro Carignano è andata in scena la Candoco Dance Company, il cui nome significa “si può fare” (Can Do Company), che lavora in tutto il mondo con artisti diversamente abili. Questa compagnia si è cimentata in Set and Reset/Reset (2016), una rielaborazione del famoso Set and Reset di Trisha Brown del 1983, ricombinando con la coreografia di Reset, che i danzatori hanno eseguito per la prima volta nel 2011. Lo spettacolo di Trisha Brown è il simbolo della convivenza fra la danza e le arti nell’America dei ruggenti anni Settanta: la musica di Laurie Anderson e i costumi furono ideati da Robert Rauschenberg, il quale lavorò soprattutto con Merce Cunningham, Paul Taylor e Steve Paxton. Se Trisha giocava con le immagini, libere associazioni di idee ed elementi acrobatici, metteva in scena costumi ariosi e molecolari, la compagnia Candoco non manca di sottolineare la genialità dell’artista, in un tributo alla sua recente scomparsa. I danzatori sottolineano la necessità dell’altro per la creazione di una forma, di un corpo collettivo che rimane sempre in sospeso e gioca con le stampelle, con una sedia a rotelle, con l’assenza di un arto. Uno spettacolo che trasforma ciò che si definisce come disabilità in un punto di forza, che non fa mancare nulla a uno spettacolo che già in origine era di grande difficoltà.
Nella cornice post-industriale delle Fonderie Limone Moncalieri è andata in scena la compagnia italiana, Aterballetto, sotto la nuova direzione di Gigi Cristoforetti e con la supervisione artistica di Pompea Santoro. La serata inizia con Non sapevano dove lasciarmi…, ironico spettacolo di Cristiana Morganti, ex danzatrice solista del Tanztheater Wuppertal di Pina Bausch. I danzatori di Aterballetto si cimentano con la voce, mettono in scena la propria storia professionale e le proprie vicende in uno spettacolo che non si risparmia in momenti di euforia virtuosistica e ironia: prendono in giro elementi kitsch della danza accademica ed elementi estetici della formazione di un danzatore, si interfacciano con il pubblico in un riconoscimento della propria identità di genere e della propria umanità. La Morganti cuce addosso a loro uno spettacolo intelligente, in cui il protagonismo del danzatore prevarica l’altro, si accumula in maniera ridonante nel passaggio del microfono tra tutti i performer. Se da un lato il tentativo di una comicità teatrale in certi momenti risulta sovraccarico, dall’altro in questo lavoro si ricorrono ad espedienti già ampiamente sperimentati nella storia della danza di ricerca: le urla sovrapposte e concitate verso il pubblico non hanno una reale risonanza nel corpo e l’uso del linguaggio accademico in alcuni punti sembra giustapposto. Nonostante queste perplessità, il lavoro risulta ricco e scorrevole, pieno di spunti di riflessione e di una concreta empatia con il pubblico.
Nella stessa serata Aterballetto va in scena con Wolf, nuova creazione del coreografo israeliano Hofesh Schecter. L’opera vede un corpo di ballo scosso da una coreografia estremamente precisa a livello musicale e ritmico, con un uso dei tagli, del controluce e delle ombre estremamente cinematografico che caratterizza da subito la cifra stilistica del coreografo. L’attenzione è sempre rivolta verso il basso, creando un rapporto diretto con lo spettatore non basato su sguardi e comunione di intenti ma su una sintonia fisica, sulle fila di ritmi e dinamiche rituali ed ancestrali. Hofesch abbatte le diversità fra gli esseri umani e cancella l’incomunicabilità fra le diverse culture attraverso la danza sola, senza espedienti di alcun genere. La compagnia Aterballetto in questo repertorio ha tirato fuori le unghie, allargando il proprio bagaglio a qualcosa di diverso dalla sua consistente nomea di compagnia di balletto contemporaneo: vero che in alcuni momenti i danzatori risultavano poco disinvolti in quel materiale, non tenendo quindi costante il livello di energia della scena, ma bisogna sottolineare la grande capacità dimostrata nell’incorporare il lavoro di Schechter.
A chiusura del festival la Gauthier Dance Company / Theaterhaus Stuttgart regala uno splendido trittico di grandi coreografi made in Israel: Hofesh Schechter, Sharon Eyal – Gai Behar e Ohad Naharin. Il primo è autore di Uprising, spettacolo tutto al maschile caratterizzato da continui attraversamenti dello spazio in cui i performer intrecciano relazioni che rispondono ai diversi caratteri dell’universo maschile: aggressività, fisicità, capacità di creare unione e reciproco sostegno, senza alcuna anelito estetizzante o sensuale. La coreografia di Schechter non abbandona la frontalità, né la rispondenza tra le varie sequenze che rispondono ad una – spesso esasperata – celebrazione della coreografia. Ma chi conosce l’opera di questo acclamato autore ne coglie subito la cifra stilistica. A seguire invece un lavoro di sole donne, un riallestimento in breve di Killer Pig: per Sharon Eyal e Gai Behar il corpo femminile è palesato in ogni sua curva, esposto ad una contemplazione dei suoi dettagli, avvolto in aderenti costumi dai colori chiari. La plasticità estetica di questo lavoro è assolutamente preponderante, mentre il linguaggio compositivo va a ricomporre i codici di una lezione di danza accademica, con schemi precisi e geometrici che ricordano le influenze di Impressing the Czar di William Forsythe. La magia ipnotica creata dalle danzatirci, assolutamente assimilabile alla parte solista di Feelings (visto a Reggio Emilia con la compagnia NDT II, sempre del duo Eyal-Behar), è appesantita da un tappeto musicale ripetitivo, persistente ma assolutamente non funzionale alla fruizione, che copre l’intero – forse troppo lungo – gioco di coreografie delle danzatrici. A chiudere lo spettacolo il celebre Minus 16 di Ohad Naharin, pezzo iconico del 1999 della Batsheva Dance Company che mette insieme estratti da altri spettacoli. Il pubblico è ancora fuori per l’intervallo, o chiacchera amabilmente mentre il primo dei danzatori già danza con un leggerissimo cha-cha di sottofondo: quando finalmente il pubblico rientra all’interno dello spettacolo (perché questo Naharin ricerca), il sipario si riapre sulle compagnia intera, presa dall’energia di una danza rituale (Zachacha). Segue il leggero e magistrale duetto di Mabul (1992) sulla musica di Vivaldi: in questo duo Naharin parla della sua idea conflittuale di rapporto, che rimane sospeso fra un contatto grezzo di corpi e una preghiera di ascolto. Chiude questa parte il celeberrimo Echad me yodea, eseguito in maniera impeccabile dalla compagnia di Eric Gauthier: rituale, trascinante ed energico l’ensemble delle sedie, e perfettamente riuscito il coinvolgimento di alcuni spettatori portati direttamente sul palcoscenico a danzare con loro. L’unico elemento che strideva era nella declamazione rituale del canto, che risultava un grido esasperato.
Il festival TorinoDanza anche quest’anno ha dimostrato di essere uno degli appuntamenti fondamentali tra gli eventi di danza sul territorio italiano, allargandosi al pubblico di una città che si propone come laboratorio di idee, creazioni e rinnovamento.
Se rimane pur vero che i tempi che stiamo vivendo, per chi lavora in teatro, sono tempi oscuri e pieni di incertezza, il mantenimento di appuntamenti come Torinodanza (e molti altri) si pongono come punti di eccellenza del patrimonio di una città che negli ultimi due anni ha vissuto un vero e proprio taglio netto – e ingiustificabile – a molti dei suoi eventi culturali. Doveroso ricordare che la città sabauda è rinata dalle ceneri di fumoso agglomerato industriale grazie anche alle sue politiche culturali, che in anni di consolidamento hanno intrecciato rapporti con centri di eccellenza italiani ed europei e coinvolto la cittadinanza a conoscere patrimoni che altrimenti sarebbero stati dimenticati.