“Nella baracca dei burattini canta l’anima del nostro popolo” diceva Petrolini ed è difficile dargli torto ancora oggi. Negli ultimi anni il teatro di figura ha vissuto una rinascita. Basti pensare aLa classedi Fabiana Iacozzilli, a Natale in casa Cupiello per attore solo cum figuris con Luca Saccoia, arrivato finalista come miglior spettacolo ai premi Ubu, a Rosso del gruppo Uror, lavori diversissimi che animano i festival e che fanno dell’uso di marionette e manichini il medium artistico con cui parlare al mondo del mondo. Un’arte che si fonda sul sapere materico e artigianale, con una drammaturgia che si snoda su più livelli per rivolgersi a un pubblico di età non definita. In seno a questa prolifica realtà (per cui si rimanda al ciclo di ricerche Teatro di figura, immagini di vita), la compagnia sarda, Is Mascareddas, attiva sul territorio sardo, italiano e internazionale da più di 40 anni, è stata premiata con l’Ubu speciale 2023. Per la prima volta una realtà totalmente isolana ha raggiunto questo traguardo e nella motivazione per la tenace attività di Is Mascareddas, compagnia composta da Donatella Pau, Tonino Murru e la loro meravigliosa schiera di marionette, si legge:
“Per gli oltre 40 anni di lavoro nel teatro di figura, che Tonino Murru e Donatella Pau hanno sempre pensato – fra tradizione e innovazione – al pari e al crocevia degli altri linguaggi performativi e artistici, diffondendo tale visione scenica tout public a partire dalla Sardegna, in tutta Italia e nel mondo attraverso progetti via via più sperimentali. Per il loro spazio-museo, che custodisce una biblioteca sul teatro d’animazione fra le più significative in Europa e una straordinaria collezione di marionette e burattini, nel 2022 posta sotto tutela dalla Soprintendenza. Soprattutto, per l’impegno politico e di pensiero, oltre che poetico e artistico, e per la tenacia della resistenza portata avanti in condizioni non sempre facili dal 1980 dentro e fuori il palcoscenico”.
Siamo volati a Cagliari per intervistarli e parlare della loro storia, dei loro modelli, per riflettere su cosa voglia dire fare teatro di figura oggi, in una società digitalizzata e spesso poco propensa alla meraviglia.
Quando avete capito che il teatro di figura sarebbe stato il vostro?
TONINO MURRU: Beh, potrei dire da subito, fin da quando è stata creata la compagnia. Io sono un autodidatta, ho fondato la compagnia possedendo solamente un retaggio dei giochi di tipo teatrale che facevo da bambino, che era quello del circo, quello di giocare alla messa. Prima di dedicarmi al teatro ho lavorato in un’ officina meccanica, un lavoro molto pesante e molto duro. Ho iniziato a fare teatro intorno al 1978, quando ho conosciuto una compagnia che si chiamava La Calesita. Erano venuti in Italia in seguito al colpo di Stato in Cile del ’73, arrivando a Roma nel ’75, poi in Sardegna nel ’78 grazie a Corrado Gai, che è stato uno dei fondatori storici del teatro di Sardegna. E questa scintilla che loro mi iniettarono nei 3 mesi che ho lavorato con loro, mi ha portato poi nel 1980, con un po’ di intraprendenza, a fondare la compagnia.
DONATELLA PAU: Mi sono innamorata del teatro di figura da subito. Vista la mia formazione artistica, mi sono resa conto che è un’arte veramente totale, cioè quella in cui potevo definire la forma, capire da dove questa iniziasse, ma senza sapere dove finisse. Qualsiasi oggetto, qualsiasi immagine può diventare teatro di figura. L’importante è che ci sia teatro, ma non ci sono dei limiti, la sperimentazione è veramente ampia, puoi usare tantissimi materiali e puoi concepire anche spettacoli in cui non si parla tanto. È un teatro visuale. Questo è l’aspetto più intrigante per me.
Quali sono state e quali sono i vostri maestri/maestre? Quali sono state e sono le vostre ispirazioni?
D.P.: È una domanda complessa. Io provengo dal liceo artistico e ho avuto dei bravi maestri. In primo luogo, il mio professore Primo Pantoli e la mia professoressa di storia dell’arte Paola Spissu Bucarelli. Al tempo il liceo artistico era una scuola che apriva e dava degli input artistici, quindi in questo senso posso affermare di aver avuto enormi stimoli creativi. Poi ho incontrato Natale Panaro, che è stato il mio maestro per quanto riguarda la scultura lignea. Molto importante è stato l’incontro con Walter Broggini, perché non avendo la Sardegna tradizione di marionette, ci interessava capire cosa fosse l’arte dei burattini a guanto.
Fin da subito io e Tonino abbiamo cercato un confronto e siamo andati a vedere cosa succedeva nel mondo del teatro di figura. Non in Italia, bensì all’estero, dato che, una volta che esci dalla Sardegna, tanto valeva andare veramente “fuori”. Abbiamo perciò avuto una formazione “europea”. “Gli occhi” ce li siamo fatti anche attraverso i Festival, come il Festival mondiale delle marionette, che si tiene ancora oggi a Charleville-Mézières, in Francia. La prima volta, nell’81, ci siamo arrivati in autostop. Al tempo venivano presentati spettacoli da tutto il mondo, per cui andare a una rassegna del genere voleva dire avere veramente una panoramica di quello che succedeva nel teatro di figura. Abbiamo frequentato il Festival per vari anni, ma gli stimoli sono arrivati anche da tante altre occasioni, da persone che hanno frequentato il nostro laboratorio in Sardegna, come Karin Koller, la nostra regista con cui abbiamo creato tantissimi spettacoli. Senza considerare ovviamente maestri come Peter Brook e Kantor, per noi imprescindibili.
Come nasce la drammaturgia di un vostro lavoro? C’è un modus operandi, o creandi in questo caso, solito, oppure vi fate ispirare da un’esigenza che cambia?
T.M.: Noi partiamo sempre e comunque da una nostra necessità. A partire dall’argomento ci facciamo venire un’idea. All’inizio della nostra carriera abbiamo chiesto una mano per scrivere i testi, per esempio a Karin Koller. Successivamente anche Donatella si è dedicata a curare la drammaturgia. Tuttavia la fase di creazione del testo e della regia è sempre aperta a spunti e suggestioni di terzi. Lo spettacolo nasce in parte nelle prove e quindi si affida anche alla capacità e alla coscienza degli attori burattinai, perché i burattinai non possono prescindere dall’essere anche degli attori. Sta poi alla capacità del regista chiudere tutto il cerchio.
D.P.: Come dice Tonino in primis da una necessità, da un’idea da un pensiero da svolgere e sviluppare. Nel caso del burattino a “guanto” il nostro teatro si esprime nella sua massima creatività e drammaticità nel personaggio che abbiamo inventato “Areste Paganòs”. Non è stato facile crearlo, perché mentre i burattini di tradizione degli altri Paesi e delle altre regioni sono sempre sagaci, un po’ fuori dagli schemi e divertenti, creare un burattino “sardo” è stata una sfida. Perché tutti i tratti, tutte le imprecazioni, tutte le esclamazioni della nostra regione sono estremamente serie. I sardi sono sempre introversi e silenziosi, a fogu aintru (“con il fuoco dentro”, ndA). Cercavo degli aspetti a cui agganciarmi per creare questa figura-personaggio sardo, ma non ne trovavo di adatti a una marionetta. E allora la nostra ricerca si è indirizzata verso il carnevale, in particolare la maschera di Ottana. Il suo volto infatti è una maschera fissa ma con la parte superiore che diventa un berretto morbido. Veste una bella camicia bianca plissettata come quelle maschili del costume tradizionale sardo, e un gilè di pelo di pecora. Il suo nome rimanda alla sua natura selvatica, che lo fa somigliare ad una capra-muflone, e come tutti gli eroi burattineschi riesce a risolvere conflitti e metter pace.
Areste è il protagonista di storie scritte da noi e ispirate alle problematiche della faida, balentia (valore, intraprendenza ndA) e banditismo, argomenti molto importanti e presenti alcuni anni fa in Sardegna. Abbiamo lavorato molto con la musica, cioè come fonte di ispirazione, con lo spettacolo sul jazz, sulla lirica, dei veri e propri varietà musicali. Abbiamo poi iniziato a indagare sulle artiste e artisti che prima di noi avessero creato dei pupazzi e lì nasce il personaggio di Giacomina, ispirato ai pupazzi di Tavolari e Anfossi, con la musica di Gavino Murgia, sino ad arrivare a “Venti contrari”, con i pupazzi delle sorelle Coroneo e la musica di Tomasella Calvisi. In questi ultimi esempi i personaggi hanno ispirato direttamente la drammaturgia.
Dal momento che mi parlate di filoni, di volontà di costruire una tradizione che non c’è, vorrei capire cosa vuol dire fare teatro di figura in Sardegna.
T.M.: Noi abitiamo in Sardegna, noi viviamo in Sardegna e quindi è qui che dobbiamo lavorare. È chiaro che il teatro non può essere una forma di pagamento finto, nel senso che uno non può limitarsi a farlo per un proprio diletto, perché altrimenti non è teatro. Bisogna perciò produrre qualcosa di bello, forte, ma anche vendibile. Penso per esempio a uno spettacolo premio Ubu come il Macbettu di Alessandro Serra, che ha tutte queste caratteristiche. Diventa fondamentale dunque non perdere mai di vista che si vive di questo lavoro, quindi lo spettacolo deve essere forte, “inquietante”,deve porre dubbi; deve essere un intrattenimento sì, ma possibilmente il più colto possibile, raffinato, non deve cadere nella cialtroneria. L’obiettivo è quello di inventare uno spettacolo adatto ai bambini, ai bambini e alle loro famiglie, dal momento che un bambino non va da solo a vedere uno spettacolo. In fondo, come si è soliti dire, “se uno spettacolo piace a un bambino, sicuramente piacerà anche agli adulti; non è sempre vero il contrario”. Bisogna perciò ragionare su un doppio linguaggio. Il teatro di burattini vive affinché lo spettatore si senta emotivamente coinvolto. Nonostante le difficoltà, questo è ciò che ha tentato di fare Is Mascareddas.
Abbiamo inoltre cercato di entrare per tanto nel giro delle feste popolari qui in Sardegna, ma non ci siamo riusciti a pieno. Perché? Perché da una parte c’è la cultura dominante, la cultura della classe dominante, come diceva Karl Marx, che tendenzialmente vuole portare avanti l’idea che tutti vivano felici e contenti, possibilmente senza dire niente. Senza conflitti. Senza scontrarsi col sistema imperante in quel momento. Quindi per evitare ciò, noi partiamo da noi, da sardi che lavorano in Sardegna, per arrivare a un pubblico diverso. Per noi, fare il teatro di figura da sardi in Sardegna serve ad arrivare a più persone possibili, far girare i nostri spettacoli in Italia, in Europa. Spettacoli con dei messaggi sociali e politici, con un testo. Potevamo fare spettacoli senza testo ed economicamente sarebbe stato più conveniente, ma non l’abbiamo fatto. Saremmo potuti andare in “continente”, ma non avremmo fatto l’attività culturale che abbiamo fatto qui. Anche se nella nostra regione se non veniamo valorizzati se non dalla Soprintendenza, per cui veniamo considerati dal punto di vista antropologico-artistico. È difficile, ma è quello che vogliamo fare. Non ci siamo accontentati, ci siamo posti il dubbio. E questo ci ha salvato la vita. Avere la pazienza di non accontentarsi.
D.P.: Siamo stati criticati da qualcuno perché non abbiamo usato la lingua sarda. Ma non ci interessava tradurre un testo in sardo ma semmai parlare e portare in scena argomenti e storie interessanti della nostra terra. Come ho già detto prima quando raccontavo di Areste Paganos, che è riuscito a portare le sue storie oltre l’isola e quindi parlare e farsi capire dai pubblici di tutta Italia. I nostri burattini sono sardi? Non lo so. Alcuni dicono che sono sardi perché hanno dei nasoni, ma non saprei. Noi siamo sardi e viviamo qui. Indaghiamo sulla sonorità e portiamo la sardità senza forzature, senza folclore e senza mai utilizzare lo stereotipo sardo. Abbiamo sempre e solo utilizzato la materia che potevamo trovare interessante a livello teatrale.
Nella motivazione per l’Ubu si parla di impegno politico, quindi cosa vuol dire per voi impegno politico?
D.P.: Noi non facciamo teatro politico. Il teatro è anche politico. Il teatro è vita. Il teatro deve assolutamente mettere dei dubbi, non deve dare delle risposte, deve fare in modo che lo spettatore possa riflettere su qualcosa. Ci sono stati dei momenti in cui abbiamo fatto quasi uno spettacolo propriamente politico, come “Il soldatino del Pim Pum Pà” di Mario Lodi che sembrava una sorta di “manifesto del partito comunista”, ma è un caso particolare. Di certo non abbiamo mai fatto un teatro che ammiccasse al commerciale. In questo senso abbiamo sempre cercato di raccogliere anche le istanze che venivano dal popolo, perché è una prerogativa del teatro dei burattini, ma ci siamo sempre messi l’obiettivo di portare argomenti che potessero far ragionare. Per esempio abbiamo fatto uno spettacolo sulla morte, pensato per i bambini: non sono temi prettamente politici, ma in una società in cui alcuni temi, come la morte e il sesso, sono tabù, noi abbiamo cercato di indagare anche questi aspetti a modo nostro.
T.M.: La premessa è necessaria, fondamentale: la politica o la fai o la subisci. E anche quando la fai la potresti subire lo stesso, tra l’altro. Il primo libro che ho letto di burattini riportava questa frase: Per sconfiggere un’ipocrita non conosco strumento migliore di una marionetta. Bisogna studiare approfonditamente l’arte dei burattini per farli parlare in modo diretto e chiaro di argomenti sociali. Bisogna praticare questo, rivedere quello, capire come si può interpretare quell’argomento scelto nello spettacolo. Che cos’è la sagacia del burattino? Perché un burattino a guanto? Perché è il più attoriale. Però il problema è sempre che cosa dici. E poi anche come lo dici. Questa è la politica. La politica del lavoro che fai, per cui devi costantemente studiare e approfondire. Per crescere continuamente. E non desistere.
A quasi un anno di distanza dall’ultima rappresentazione di “Zio Vanja” al Teatro Argot nell’ambito del progetto Sistema Cechov a cura di Uffici Teatrali il regista Filippo Gili torna sulla scena romana a dirigere portando nuovi slanci artistici agli scenari angusti delle rappresentazioni veteroteatrali dei classici della drammaturgia contemporanea con uno dei capisaldi della letteratura mondiale: quell’Aspettando Godot che Beckett scrisse tra il ’48 e il ’49 pur non avendo allora alcuna idea delle tendenze teatrali del tempo, ma considerando lo scrivere per il teatro un meraviglioso e liberatorio diversivo per distrarsi e riposarsi in una pausa di lavorazione alla Trilogia dei romanzi. Un testo rivoluzionario sia sul piano formale sia su quello concettuale che ha segnato le sorti della storia e della cultura antropologica ancor prima di quella teatrale rappresentando una cesura cartacea, lapidaria ma al contempo eterea, nell’immaginario contemporaneo fra ciò che è stato e ciò che ne sarà dell’umanità, di dio e del domani.
Così Filippo Gili, incontrato a ridosso del debutto, ha commentato il nuovo allestimento che avrà luogo presso lo Spazio Diamante dal 24 Marzo al 2 Aprile: “Se Beckett racconta la storia di vagabondi io invece ho cercato di limare questo aspetto perché un conto è rappresentare i vagabondi nel 1950 un altro è farlo oggi dando un vantaggio incredibile agli spettatori di ordine psico-classista. Intendo dire che oggi il contemporaneo post-ideologico tende molto nel suo correttismo buonista a inquadrare la classe inferiore all’interno di una valutazione sostanzialmente empatica, divertita, buffa e tenera ma sempre allineata nell’ambito dell’erranza e del vagabondismo – condizione ontologica di tutti quanti noi ormai disinnescati dalla nostra identità attraverso una una manipolazione tecnocratica che più che mai ci ha deindividualizzato. Da questo punto di vista la cosa che mi interessava è che il pubblico non avesse l’opportunità per mettere al personaggio una maschera distanziante ma trovasse in un’ambientazione non così diversificata e non così comodamente ruolistica, un gioco di ruolo per cui un meraviglioso clown, un barbone simpatico e divertente cui applaudo e che in fondo dice delle cose geniali resta un barbone; il fool che è la coscienza critica del re resta pur sempre un fool – il re lo usa perché è geniale perché in qualche modo è una specie di capro espiatorio, di esorcismo democratico. Ho cercato quindi una dimensione minima differenziale possibile da questa rappresentazione e quindi evitando anche una serie di didascalismi eccessivamente clowneristici mantenendo comunque fede al testo così come è scritto sia didascalicamente sia verbalmente però non per tutto. Ritengo che in Aspettando Godot l’ambientazione vagabondesca non sia una cosmesi fenomenologica ma sia una questione ontologica o noumenica: in tal senso c’era bisogno di levargli queste vesti e la cosa che ho immaginato era un post post-moderno, un magazzino di Trony o Euronics o un Apple Store del 2080 in disuso da 40 anni quindi un doppio futuro dove questi due antichi commessi uno più giovane e uno più anziano tornavano quotidianamente in quel luogo affetti da una sorta di orfanità della situazione perduta”.
Continua Gili in una parte dell’intervista che a breve pubblicheremo integralmente : “Come vagabondi erranti di un’identità che ci è sfuggita di mano completamente, un’identità che si confà giorno per giorno nella gioia dell’aggiornamento, nella chiave della miniaturizzazione dell’aspetto tecnologico, nel nostro sentirci fautori e vettori di questo progresso che in quanto concetto ormai infilatosi anche nelle classi più basse – rispetto a questo Pasolini urlava la sua tremenda e bellissima apostrofe – è quanto di meno ontologico ci possa essere. L’immagine è quella di un Occidente decaduto dove si svela finalmente che il domani non esiste o che questo domani una volta inveratosi non ha lasciato niente. Un domani nudo anzi un domani invisibile. Il domani si è verificato perché un albero enorme per un colpo di vento è cascato su un magazzino l’ha distrutto; la tecnocrazia dell’Occidente è finita lasciando il posto a nulla. Questi due vecchi commessi tornano in questo luogo per una liturgia della tradizione biologica e biografica ma anche perché questo è il luogo da dove le promesse del domani, di un domani eternamente domani, non sono mai state mantenute. Aspettando Godot quindi anche per domandarsi perché il domani non è arrivato.Poi il gioco che faccio a pianta centrale è un’arma a doppio taglio che se non funziona è terribile però se funziona ti costringe a scivolare dentro la presentazione togliendo quel diaframma quarto parietale in qualche modo così identificativo del gioco del teatro ma così tremendamente coadiuvante con la capacità dello spettatore di eliminare il rischio della catarsi intesa nel senso più classico del termine”.
Giorgio Colangeli e Francesco Montanari nelle vesti di Vladimiro ed Estragone saranno affiancati da Riccardo De Filippis e Giancarlo Nicoletti che presteranno voce e corpo a Pozzo e Lucky per quello che si preannuncia uno degli eventi più significativi della stagione teatrale romana, da non perdere assolutamente.
Aspettando Godot
di Samuel Beckett – traduzione di Carlo Fruttero
con Giorgio Colangeli – Francesco Montanari – Riccardo De Filippis – Giancarlo Nicoletti
e con Pietro Marone
FOTO Luana Belli GRAFICA OverallsAdv VIDEO David Melani SCENE Giulio Villaggio – Alessandra De Angelis UFFICIO STAMPA Rocchina Ceglia DIRETTORE DI PRODUZIONE Sofia Grottoli DISEGNO LUCI Daniele Manenti AIUTO REGIA Luca Di Capua – Luca Forte DISTRIBUZIONE & PROMOZIONE Altra Scena Art Management UNA PRODUZIONE Altra Scena Art Management e Viola Produzioni per gentile concessione di Editions de Minuit
REGIA Filippo Gili
Spazio Diamante – Via Prenestina 230b – Roma
dal 24 Marzo al 02 Aprile 2017 Venerdì e Sabato 21.00 / Domenica 18.00 Info & Prenotazioni 06 – 80687231 / 393 – 0970018 Biglietti: Intero eur 20 + prevendita; ridotto eur 15 + prevendita
Il 12 ed il 13 maggio 2018, la Compagnia Controtempo Theatre porterà in scena “Otello” capolavoro di Shakespeare nelle incantevoli stanze di Palazzo Ferrajoli in Roma (Piazza Colonna, 355) – evento.
Tra combattimenti, disperazione e momenti di passione, il dramma del Moro rivivrà in una versione completamente innovativa e coinvolgente. Lo spettacolo, infatti, sarà “itinerante”: in questo senso il pubblico avrà l’opportunità di assistere alla rappresentazione immergendosi nella bellezza dei diversi ambienti della location e sentendosi parte integrante dell’opera.
La regia di Lilith Petillo e Pasquale Candela, tende a mettere in rilievo il punto di vista di Iago, la sua ardita opera di disfacimento e la crudeltà dell’animo umano.
Il cast è formato da giovani attori professionisti. Otello, alle prese con la sua irrefrenabile gelosia, sarà Dario Carbone. Iago, probabilmente uno dei personaggi più complessi degli scritti shakespeariani, astuto, malvagio e inverosimilmente folle, sarà interpretato da Venanzio Amoroso. A vestire i panni della bella e giovane Desdemona, invece, sarà l’attrice Paola Fiore Burgos. Cassio, fedele luogotenente del Moro, sarà Danilo Franti. Roderigo, follemente innamorato di Desdemona sarà interpretato invece da Marco Guglielmi; nel ruolo di Emilia, moglie di Iago, troveremo Lilith Petillo, mentre Montano, amico di Otello, sarà Massimiliano Cutrera.
Parliamo di “Otello” con Lilith Petillo, Danilo Franti e Venanzio Amoroso, fondatori della compagnia Controtempo Theatre, che descrivono il processo di ideazione e di sviluppo dell’opera analizzando le dinamiche artistiche e le implicazioni relazionali fra gli attori e il pubblico, attraverso la riscrittura scenica di un classico teatrale in versione itinerante.
Otello di Controtempo Theatre
Il rapporto di Controtempo Theatre con il repertorio classico
Lilith Petillo, regista e attrice
Non è un caso che abbiamo scelto Shakespeare come autore d’esordio per la compagnia. Non scopriamo l’acqua calda ma Shakespeare è estremamente attuale rileggendo le opere del Bardo ti rendi conto di quanto sia sempre attinente alla realtà grazie a un linguaggio che, pur essendo diverso dal nostro, esprime concetti disarmanti mediante la voce di alcune figure femminili, interessanti casi di studio. In Otello ci sono sia Desdemona sia Emilia, quest’ultima è una donna forte portatrice di un femminismo che difende strenuamente – in questo senso è paradossale notare come all’epoca del Bardo, nel teatro Elisabettiano, i ruoli femminili fossero interpretati dagli uomini. Quindi com’è possibile che un personaggio come Emilia sia definito con caratteristiche così forti? Questo è uno dei motivi che ci ha spinto a scegliere di mettere in scena l’opera Shakespeare.
Danilo Franti
In Otello i rapporti tra i personaggi sono molto più lineari e attuali rispetto ad altre opere come Giulietta e Romeo dove vengono narrate situazioni e problematiche legate al contesto storico, ad esempio le diatribe fra le famiglie dei Montecchi e dei Capuleti. In Otello si parla di un esercito che possiamo trovare oggigiorno in qualsiasi situazione bellica. Si prenda la gelosia, l’invidia e nel caso di Iago anche la malvagità che porta una persona a ingannare gli altri per il suo profitto personale: questi sono gli aspetti emotivi e le caratteristiche psicologiche dei vari personaggi su cui lavoriamo. In questo senso la nostra visione dei fatti in Otello viene rappresentata artisticamente attraverso la prospettiva di Iago, personaggio invidioso e malvagio, del quale cerchiamo di mettere in risalto la condizione esistenziale universalizzando la sua umanità.
Venanzio Amoroso
Quando abbiamo pensato di mettere in scena Otello, l’abbiamo collegato alla possibilità di portarlo in scena in castelli, in borghi e in altri luoghi di grande interesse storico-culturale. Quindi questo ci ha vincolato nella scelta della sua resa scenica. È certamente una riscrittura: abbiamo scelto di vedere tutta l’opera attraverso gli occhi di Iago che è un manipolatore, questa decisione deriva dalle location in cui mettiamo in scena lo spettacolo che ci permettono di restare fedeli all’Otello sia nei costumi sia nelle scelte stilistiche. Oggi nei vari settori della società civile di manipolatori è pieno, riscontriamo nella quotidianità tantissimi Iago che incontriamo durante la nostra vita. Questo è quello che viene apprezzato dal nostro pubblico pur non avendo noi marcato questo aspetto. Ecco perché Shakespeare, anche quando lo si porta in forma classica, è vincente. Noi andiamo a sviscerare, seppur in maniera leggera, l’opera permettendo allo spettatore di comprenderla. Questo è il miracolo di Shakespeare.
L’esigenza di adottare testi classici nasce nel momento in cui abbiamo capito che questi sono dei calderoni di meccanismi umani, di emozioni e di sentimenti che hanno un valore universale. Scegliere Otello e averlo reso scenicamente più fruibile ci ha consentito di negare il tabù della pesantezza del teatro classico anche per dimostrare che il teatro classico, e Shakespeare in particolare, possono essere compresi da tutti. La nostra riduzione cerca di mantenere l’opera originale facendo dei tagli legati alla fluidità e alla comprensione del testo per mantenere i rapporti e le emozioni presenti nell’opera. Non abbiamo la presunzione di pensare che alcune delle parti che ha scritto Shakespeare non servano, però abbiamo dovuto operare una riduzione senza però intaccare il significato dell’opera.
Otello di Controtempo Theatre
Genesi ed evoluzione dell’otello itinerante
La scelta di Otello nasce da qualche nottata di pensieri e di parole da parte di tutti e tre e arriva in un giorno caldissimo d’estate dopo esserci confrontati con Pasquale Candela che ha preso a cuore il progetto e firmato la regia con Lilith Petillo. Eravamo in un periodo critico della nostra vita artistica, sentivamo di essere invasi da una serie di sensazioni ed emozioni positive che però non riuscivamo a canalizzare non capendo quale fosse la direzione giusta da prendere. Dopo aver letto diversi testi drammatici, ci siamo trovati d’accordo su Otello perché il vissuto di ogni personaggio sembrava rispecchiare quello che stavamo vivendo in quel momento. Otello ci ha bloccati e ci ha fatto capire che forse dovevamo affrontarlo in modo più approfondito.
Rispetto allo sviluppo, avendo avuto l’opportunità di provare molto al Castello Lancellotti di Lauro, in questo spettacolo molte cose sono nate spontaneamente nel momento in cui abbiamo vissuto lo spazio. Tutto andava liscio, una volta entrati nel castello ci siamo resi conto che a destra c’era la casa di Brabanzio che è il padre di Desdemona; un grande arco con una porta dalla quale abbiamo immaginato Iago e Roderigo sbucare e nel giardino abbiamo riconosciuto il luogo dove far svolgere il matrimonio segreto fra Otello e Desdemona. Così il testo ha preso vita entrati nella location. Tutto ci diceva che lì si doveva mettere in scena Otello. Abbiamo fatto un sopralluogo a fine agosto 2016, a metà settembre abbiamo cominciato a lavorare con il cast e l’1 e il 2 Ottobre siamo andati in scena. Per questo primo appuntamento ci siamo serviti della professionalità di attori che hanno la nostra stessa forma mentis, infatti lavoravamo dalla mattina fino a tarda notte: una fucina di idee.
Da sempre sia stati abituati a svolgere diverse mansioni contemporaneamente: in quei giorni alcuni lavoravano su delle scene, altri montavano le luci o andavano a vedere i costumi. Di questo spettacolo in particolare ricordiamo un’atmosfera molto serena dove si respirava un’aria di creatività. Il lavoro con gli altri attori è stato molto interessante perché anche per noi era un primo esperimento di conduzione registica nonostante avessimo un po’ più di esperienza rispetto agli spettacoli itineranti grazie ai lavori precedenti che ci hanno visto protagonisti. Cercavamo di trasmettere agli attori quella che era la nostra idea, in un scambio artistico di dare e avere.
quali sono state le scelte stilistiche che caratterizzano lo spettacolo?
Abbiamo cercato di rappresentare un’opera itinerante dove gli attori sono sempre a stretto contatto con gli spettatori. Noi ci troviamo in sale o spazi all’aperto, con il pubblico in piedi a tre metri dall’attore. Un tale rapporto di vicinanza e di prossemica ci porta a dover recitare in maniera più naturalistica cercando di trasmettere tutti quei concetti che noi reputiamo importanti. Il personaggio di Iago, per scelte registiche, rompe la quarta parete in molti momenti, parla spesso col pubblico e lo trascina da un ambiente all’altro: l’esigenza di mobilitare gli spettatori deriva dalla volontà di introdurre pienamente il pubblico nello spettacolo.
In generale, l’elemento decisivo, al di là, della rottura della quarta parete, è che il pubblico si sente parte integrante della scena. Quando sei in teatro lo spettatore è seduto in poltrona mentre gli attori si esibiscono sul palcoscenico, ne consegue un distacco tangibile anche nel momento ipotetico in cui il performer si rivolge direttamente al pubblico. Nei nostri spettacoli non c’è mai questo distacco: addirittura succede che il pubblico passi accanto all’attore e lo tocchi. Ha l’esigenza di uno scambio comunicativo quindi di entrare in empatia con gli artisti. Siamo tutti sulla stessa barca, gli attori, i personaggi, l’autore e il pubblico: è come aprire un testo e immergervisi completamente. Anche il fatto di parlare al pubblico con le lacrime agli occhi oberati di tutto il tragico carico di Otello aumenta esponenzialmente la portata drammatica dell’opera.
Certamente la location è determinante in questo processo di immedesimazione ma anche la nostra attenzione al lavoro fisico all’interno attraverso le dinamiche di contatto fra combattimenti, schiaffi, baci, abbracci gioca un ruolo fondamentale in questa direzione. Una volta, al Castello di Torre Alfina, un posto molto bello dove siamo stati, giunti al momento del suicidio di Otello, dove è presente uno fra i monologhi più struggenti dell’opera, si creò talmente tanta empatia che una signora esclamò prima dell’atto finale: “No, Otello, non lo fare!”.
L’Istituto Alcide Cervi di Gattatico (Reggio Emilia), in collaborazione con Boorea Emilia Ovest, indice il Bando di selezione per il Festival di Resistenza 2025– Teatro per la Memoria.
La Casa colonica abitata dalla famiglia Cervi, luogo reale, spazio della memoria di uno degli eventi più significativi della storia del Novecento, è da tempo importante centro di studio e d’incontri, di ricerca, Museo di storia contemporanea per l’antifascismo e la Resistenza, la democrazia e la giustizia sociale, con particolare attenzione alla Resistenza nelle campagne e ai movimenti contadini. L’attività dell’Istituto Cervi è caratterizzata da un’intensa progettualità sia di ricerca sia educativa: particolare attenzione è rivolta alle giovani generazioni, guardando al tema centrale della memoria e ai valori di libertà, democrazia, uguaglianza che hanno animato la famiglia Cervi.
Fra le più rilevanti attività promosse dall’Istituto, il Festival di Resistenza – Teatro per la Memoria, che da oltre vent’anni promuove e valorizza il teatro come riflessione sul passato e il presente, guardando al lavoro, alla partecipazione sociale, alla lotta per i diritti, stimolando emozioni e pensieri.
Le sette compagnie selezionate andranno in scena in sette serate a partire dal 7 luglio. La premiazione si terrà il 25 luglio 2025, in occasione della storica Pastasciutta Antifascista.
Allo spettacolo vincitore del Premio Museo Cervi – Teatro per la Memoria andrà la somma di 2500 euro. Un secondo premio Premio Gigi Dall’Aglio di 1000 euro verrà assegnato allo spettacolo scelto da una Giuria composta da giovani under 30.
È online il Bando di selezione per partecipare alla XXIV edizione del Palio Poetico Teatrale Musicale Ermo Colle 2025, promosso dall’Associazione Ermo Colle APS, che si svolgerà dal 26 luglio al 13 agosto 2025 nei Comuni della Provincia di Parma che aderiscono al progetto, luoghi del territorio parmense amati dal pubblico e dagli artisti che con il loro lavoro vi hanno lasciato nel tempo segni preziosi.
Manifestazione unica in Italia per la sua caratteristica principale di portare le arti in luoghi del territorio, di grande interesse dal punto di vista artistico, storico, ambientale, spesso non deputati ad ospitare spettacoli, Ermo Colle ha saputo negli anni creare una stretta sinergia tra territorio e arte, tra artisti e pubblico, un vivo e fecondo dialogo tra arte e paesaggio. Alle Compagnie partecipanti viene chiesto di “entrare” e “abitare” un luogo – e quindi di mettere in relazione il proprio lavoro artistico – scelto tra differenti opportunità offerte dai Comuni che aderiscono ad Ermo Colle.
Il Bando si rivolge ad artisti, esordienti e non, a gruppi già consolidati o di recente formazione o costituitisi appositamente, che intendono dirigere la loro ricerca nella creazione o presentazione di un evento scenico/performativo.
Una Giuria appositamente costituita, selezionerà, entro il 5 maggio 2025,i progetti destinati al Palio. Al termine di ogni rappresentazione è previsto un breve momento di dialogo tra la Compagnia e il pubblico: “A tu per tu con il Teatro”, iniziativa sostenuta fortemente nell’edizione precedente dagli spettatori stessi del Palio, e moderata ogni sera da giornalisti, studiosi, rappresentanti di istituzioni ed operatori del settore.
In ogni serata verrà presentato uno spettacolo e saranno assegnati: il Premio del Pubblico decretato dal pubblico e il Premio della Critica decretato dalla Giuria di esperti. Oltre a questi due premi sarà conferito il Premio Ermo Colle decretato dalla Direzione del Festival.
Nella serata finale del Palio saranno assegnati i premi agli spettacoli vincitori del Premio del Pubblico (2.000,00 euro)e del Premio della Critica (2.000,00 euro) e il Premio Ermo Colle (1.000,00 euro), assegnato ad una Compagnia, o ad una drammaturgia, o ad un/una interprete o ad una composizione originale musicale.
La partecipazione è gratuita. Le domande devono pervenire entro e non oltre il 30 marzo 2025 in modalità online all’attenzione di Silvana Piazza, Presidente dell’Associazione Ermo Colle APS, alla email: palioermocolle@gmail.com.
Un Arlecchino irriverente verso la società borghese, come lo ha voluto Goldoni, ma proiettato sul piano del metateatro e immerso nella contemporaneità italiana, quello ricreato e diretto da Marco Baliani e interpretato da Andrea Pennacchi, in scena al teatro Alighieri di Ravenna. A un anno dal debutto, lo spettacolo, che quest’anno ha raggiunto le 70 serate in giro per l’Italia, continua a divertire il pubblico attraverso la parodia dei classici, Shakespeare in primis, nell’esilarante monologo di Arlecchino che si chiede “Servire o non servire?” e rimanda al riemergere di forme di schiavitù e asservimento sociale. Ma Arlecchino? è anche una sfida all’indimenticabile spettacolo di Giorgio Strehler, come ha raccontato Baliani all’incontro con il pubblico al ridotto dell’Alighieri l’8 febbraio scorso, sollecitato dalle domande e riflessioni dello studioso Gerardo Guccini. Se tanti infatti sono i registi che hanno reso popolare questa maschera della Commedia dell’arte, è stato quello innovativo di Strehler, il più longevo, con i suoi 50 anni di repliche al Piccolo di Milano.
Guccini, docente di storia del teatro e dello spettacolo al Dams di Bologna, evidenzia, a proposito delle due lettere che precedono il testo, quanto siano funzionali alla comprensione che esso procede su un duplice binario. La prima è scritta da Andrea Pennacchi al pubblico e la seconda da Marco Baliani alla compagnia di attori. Mentre Pennacchi pone l’accento sulla condizione di schiavitù che sembra ridiventata attuale oggi e su come il conflitto tra classi sia anche alla base della commedia goldoniana, la lettera di Baliani si concentra invece sulla dimensione laboratoriale che ha accompagnato il lavoro della compagnia sul testo.
L’Arlecchino sovrappeso con le sue goffe prestazioni e la sua ingordigia, l’improbabile travestimento di Beatrice nei panni del fratello creduto morto, l’irascibile facchino e cameriere di colore che parla in dialetto veneto, l’ironia di Smeraldina sull’infedeltà degli uomini. Un affresco irresistibilmente comico, farsesco, assurdo eppure rappresentativo di iniquità sociali e miopie culturali. Arlecchino è stato scritto nel 1745 a Pisa, periodo in cui Goldoni lavora ancora come avvocato anche se si occupa da tempo di teatro. Acconsente a scrivere l’opera su richiesta dell’attore Antonio Sacchi (o Sacco), di dar vita a un canovaccio che esalti la sua personalità truffaldina e mordace.
“Quasi 280 anni dopo, nel 2024 – racconta Baliani – Andrea Pennacchi, attore tra i più amati da me, mi ha cercato per riportarlo in scena. Ho quindi voluto prima di tutto formare una compagnia di attori veneti, e la prima parte del lavoro si è svolto appunto su di loro. La scelta si è basata non solo sul talento ma anche sulla loro emotività, sulla capacità di relazionarsi tra loro e creare l’atmosfera briosa e leggera che avrebbero dovuto saper trasmettere al pubblico. Soprattutto ho scelto attori che sentissero l’urgenza e l’inevitabilità del loro essere attori, piuttosto che indirizzarmi su interpreti bravi ma freddi, proprio per il carattere ‘operaio’ che traspare da questo lavoro e di cui Pennacchi è maestro”.
Se l’Arlecchino di Goldoni, infatti, è già abbastanza scaltro da tenere il piede su due staffe servendo due diversi padroni di cui riesce a farsi gioco, quello di Baliani spinge affinché il mondo borghese così solido nelle sue opere venga disgregato dalla drammaturgia. Dove la figura del proprietario viene assorbito completamente dall’attore/operaio. L’operazione metateatrale della compagnia scalcagnata che viene ingaggiata dall’impresario Pantalone tramite agenzia interinale, per portare in scena la celebre commedia goldoniana, amplifica questo aspetto, “creando un gioco di scatole che è molto serrato all’inizio. Poi, man mano che si va avanti, si perde per diventare del tutto irriconoscibile, per volontà del regista, e questo significa che funziona”, come spiega l’attore Valerio Mazzacurato che in scena è Pantalone.
Stravolgere l’opera classica era fin dall’inizio nelle intenzioni, ha spiegato Pennacchi: “Andarci dentro, giocandoci, rompendola. È una cosa che ho imparato proprio qui a Ravenna: che i classici li puoi spezzare, rovesciare, stravolgere, perché se sono davvero classici rimangono in piedi lo stesso”. Se però è inevitabile, dice ancora Pennacchi, lottare contro la tradizione che soffoca i personaggi che vorrebbe far volare, questo stravolgimento non deve essere fine a se stesso. La commedia a teatro è una porta, oltre la quale c’è un pensiero”.
Ecco allora che i dialoghi traboccano di battute graffianti su immigrazione, razzismo, sfruttamento economico e disparità di genere, la parola dazi usata al posto della goldoniana dogane perché lo spettatore percepisca quanto il teatro sia sempre agganciato alla realtà contemporanea. “Non è più possibile – spiega ancora Baliani – fare teatro come nell’’800 o nella prima parte del ‘900, perché i tempi sono diversi e perché oggi se non hai la giusta recettività su quel che accade intorno, non puoi fare teatro”.
Tra il 24 e il 26 gennaio presso il Teatro Carcano di Milano è andata in scena la prima nazionale de L’empireo, il nuovo spettacolo firmato dalla regista Serena Sinigaglia, già direttrice artistica del teatro. Dal testo The Welkin della scrittrice inglese Lucy Kirkwood, la traduzione di Monica Capuani e Francesco Bianchi per Sinigaglia racconta la storia di dodici figure femminili convocate a pronunciarsi sulla presunta gravidanza di una giovane donna condannata alla pena di morte nell’anno del passaggio della cometa di Halley. Si tratta di una restituzione corale, femminile, dirompente, capace di oscillare tra il comico e il tragico e di offrire occasioni di riflessione senza orpelli sulla natura del potere.
Come è nata l’idea di lavorare con questo testo e quali sono state le modalità attraverso cui è entrata in contatto con l’opera di Lucy Kirkwood?
Tutto parte dal lavoro instancabile e appassionato di Monica Capuani, scopritrice di testi internazionali e in particolare inglesi. È tutta la vita che si divide tra Londra e l’Italia portando avanti quel difficilissimo lavoro di individuare testi di drammaturgia contemporanea meritevoli, tradurli e cercare di favorirne le produzioni. Mi ha sottoposto questo testo – ci conosciamo da più di vent’anni con Monica – perché sa che amo il teatro corale e quello di derivazione shakespeariana e quindi ha pensato che potesse essere un testo che faceva al caso mio. Dico shakespeariano perché Kirkwood ha questa capacità che gli inglesi hanno e cha ha la cultura anglosassone in generale di saper unire, a teatro come nella vita, l’alto e il basso, il sacro e il profano, il puro divertimento — chiamiamolo pure, senza paura, intrattenimento— con la potenza del teatro classico. A fianco di queste ragioni c’era poi la questione della coralità che fa sì che tutti i personaggi, da quelli principali a quelli minori, siano tratteggiati a 360 gradi. Mi sono fin da subito resa conto che sarebbe stato difficilissimo riuscire a portarlo in scena in Italia: oggi il mercato italiano è saturo di spettacoli con quattordici attori perché è difficile venderli, portarli in giro e perchè costano troppo
Così in un primo momento abbiamo provato a farne dei reading. Grazie alla collaborazione con le associazioni Amleta e Atir siamo riusciti ad organizzare un secondo reading in Calabria, con la partecipazione della compagnia teatrale Scena Nuda. Studiando e lavorando sul testo in queste occasioni laboratoriali mi rendevo conto che potevo farlo senza il vestimento, anzi, che proprio la natura cinematografica – altra caratteristica della drammaturgia inglese, vale a dire una minore distanza tra il realismo cinematografico e la scrittura teatrale – mi permetteva di omaggiare il teatro nel senso di poter creare un rito civile, una sorta di orazione: io l’ho chiamata un’orazione civile. Mi interessava che, a partire dalla descrizione delle azioni fatta da Kirkwood, ogni spettatore avrebbe ricreato il suo film attraverso l’uso dell’immaginazione, e questo è il teatro. Il grande scarto tra il cinema e il teatro è che il primo, essendo legato al linguaggio fotografico, ti mostra la realtà mentreil secondo la evoca. Allora lì ho fatto click, ho pensato “devo fare di tutto per riuscire a metterlo in scena”, dato che i temi mi stavano a cuore, la scrittura era divertente, entusiasmante, piena di colpi di scena, con un ritmo molto contemporaneo e al tempo stesso profonda, corale, e al femminile. Nel giro dell’arco di tre anni siamo riusciti a coinvolgere oltre al Carcano, che era già disponibile dato che lo dirigo con Lella Costa, il Tetro LAC di Lugano, il Teatro Stabile di Genova, il Teatro Stabile di Bolzano e il Bellini di Napoli.
Mi ricollego al fatto che il lavoro sia partito da dei readings dato che, durante lo spettacolo, assistiamo inizialmente ad una lettura con copione alla mano che da neutra diventa espressiva, fino ad arrivare, con l’abbandono del copione, ad una recitazione piena. Da un punto di vista registico qual è la funzione di questo passaggio e qual era l’intento dietro questa scelta?
Così come anche il giro dei fogli all’unisono da parte delle interpreti, ho fatto queste scelte dal punto di vista interpretativo, perché ritengo questo testo una sorta di manifesto di alcuni temi portanti che ci riguardano da vicino: la relazione tra i generi, la violenza sulla donna e sul corpo della donna, discorsi di democrazia mancata. Volevo dare l’idea che questo copione fosse quasi un libro di preghiere in un rito laico. La stessa postura delle attrici, così concertata, era pensata proprio per dare un valore sacro al testo e portare lo spettatore a poco a poco, con dolcezza, nel gioco evocativo del teatro. Le interpreti riprendono poi il copione alla fine dello spettacolo e l’ultima pagina viene letta, ma è ovvio che le attrici sanno tutto a memoria; la lettura qui non ha niente di concreto, è qualcosa che vuole portare più significati. Inoltre è un omaggio alla parola, alla sua forza, alla sua potenza emotiva ed evocativa: in certi testi teatrali le parole giuste al momento giusto sono sacre. Vedere le persone che piangevano, ridevano, partecipavano e che non si rendevano conto che in scena non c’era niente – non c’era il camino, non c’era la stanza, le attrici non si muovevano – che c’erano soltanto le parole, mi è sembrato il miracolo del teatro.
Sul modo di nutrire e caratterizzare i personaggi in scena, l’autrice Lucy Kirkwood, in un’intervista con il regista James MacDonald in occasione della prima del National Theatre, diceva di essersi informata, nonostante la storia sia ambientata nel 1759, su un sito molto popolare nel Regno Unito che si chiama Mumsnet, una specie di piattaforma in cui futuri e attuali genitori si scambiano pareri sulle proprie esperienze. Nel vostro caso come avete lavorato per cucire in modo così preciso i ruoli addosso alle attrici in scena?
Siamo partiti nel più classico dei modi, tramite un casting in cui ho scelto attrici che ritenevo in qualche modo simili per carattere e fisionomia all’idea che avevo dei personaggi. Sottolineo che un grosso numero di queste attrici le conosco da più di vent’anni; alcune avevano già collaborato con me all’interno di Atir e in un modo o nell’altro siamo cresciute insieme. Attraverso i laboratori iniziali ho avuto modo poi di testarle e il criterio che ho utilizzato per la selezione è stato proprio quello di percepire un’aderenza emotiva e fisica al personaggio, o quantomeno alla caratteristica fondamentale del personaggio. Va detto però che quando il testo è scritto così bene è molto più facile, perché è proprio un coro tridimensionale all’interno del quale tutti i personaggi potrebbero andarsene in giro da soli. Direbbe Pirandello che quando un personaggio funziona, funziona talmente tanto che lo puoi togliere dal contesto in cui è stato scritto e può andarsene in giro per fatti suoi.
Entrando nel vivo di questa vicenda, ambientata durante il passaggio della cometa di Halley, risulta centrale nell’opera il fenomeno storico della cosiddetta “jury of matrons”, una sorta di giuria popolare femminile di dodici membri che si doveva occupare di stabilire se una donna fosse o meno incinta in caso di controversie legali a suo carico. Come avete lavorato sulla forte contraddizione di un progresso scientifico che è in grado di studiare e calcolare fenomeni come il passaggio di una cometa ma che nel 1759 (le juries of matrons vengono abolite solo nel 1931) non conosce nulla o quasi del corpo della donna e relega questo sapere alla cultura esperienziale delle levatrici?
È un tema molto complesso e Kirkwood ambienta la vicenda in quell’epoca anche perché proprio in quegli anni comincia la Rivoluzione industriale che esaspera il contrasto tra la sapienza femminile sul proprio corpo, quindi le levatrici, e l’irrompere del sistema scientifico maschile e patriarcale. Si vede anche nel personaggio del medico che alla fine arriva alle stesse conclusioni a cui era arrivata la levatrice, anche se la levatrice portava un senso che è tipicamente femminile. Specifico che quando dico “tipicamente femminile” non intendo necessariamente “che appartiene alla donna”, perchè sia l’uomo che la donna siano fatti di una parte femminile e di una parte maschile. Parlando di quella parte femminile è interessante rilevare che Elisabeth, la levatrice, indipendentemente dal fatto che Sally Poppy sia o meno incinta, è contraria alla pena di morte. Ecco il distacco della scienza: la scienza ti dice se sei incinta o no, ma non prende parola sul dilemma sostanziale cioè, in questo caso, la pena di morte. Questo fa capire come la logica sia riduttiva e paradossalmente deresponsabilizzante.
Mi sembra interessante poi che le donne stesse non sappiano nulla del proprio corpo, perché l’universo femminile è un universo che contiene in sé un mistero di cui l’uomo, l’essere umano, spesso ha paura. Questo è un concetto davvero molto contemporaneo. La battuta di Kirkwood(«È proprio strano che conosciamo il movimento di una cometa lontana migliaia di chilometri più di come funzioni il corpo di un donna») potrebbe essere benissimo tradotta in “è proprio strano che conosciamo gli algoritmi dell’intelligenza artificiale ma non abbiamo ancora capito veramente perché un essere umano ammazza un altro essere umano a coltellate solo perché lo vuole lasciare”. Sto parlando dei femminicidi, chiaramente. Questo mistero riguarda tutti, ma le donne hanno la possibilità di fare esperienza del parto e questo dà loro una sapienza concreta di questo mistero. Questo ha sempre fatto molta paura al potere perché si traduce in una mancanza di controllosu di loro.
La nascita era e rimane di fatti un mistero, basti pensare che ci sono coppie non sterili, sane, che non hanno nessun impedimento genetico e che non riescono ad avere figli, e nessun medico, nessuna scienza è in grado di spiegarlo. La religione dice di accettare il tuo destino perché il Signore ha voluto per te questa sofferenza, la scienza risponde “no, io continuerò a indagare le ragioni oggettive”, mentre magari gli anziani suggeriscono di provare a non pensarci e distrarsi. Ciò che voglio dire è che il discorso è molto più ampio e che, per quanto possiamo progredire nella ricerca scientifica e tecnica, la nascita rimane un ambito in cui appunto scienza, religione e saggezza popolare hanno tre chiavi di lettura diverse e i piani si moltiplicano. Il problema si pone quando uno di questi piani pretende di avere il primato, cioè di diventare normativo. Il piano femminile non è mai diventato normativo il che è paradossale perché, se proprio volessimo introdurre delle regole, dovremmo chiedere alle levatrici. Al contrario la loro sapienza è stata spazzata via dalla società industriale e ancora una volta lo scopo è controllo e di sopruso.
A proposito della dimensione del sopruso, nel testo l’espediente in potenza positivo della partecipazione politica al femminile della jury of matrons finisce per essere ribaltato da un potere di stampo patriarcale, un potere senza volto ma con degli interessi particolari. Che eco di risonanza può avere mettere in scena, davanti ad un pubblico del 2025, un modello di coinvolgimento delle donne nella vita politica della città il cui verdetto è, di contro, ignorato e soppiantato da un potere patriarcale molto più profondo e pervasivo?
Il finale ci riporta a mio avviso – e questo voleva Kirkwood – al problema che in fin dei conti affligge l’umanità da sempre, in maniera del tutto antiretorica. Ci sta dicendo due cose: che la giustizia che dovrebbe essere la vera cartina al tornasole di una democrazia – lo vediamo proprio in questi giorni con quello che sta succedendo con il governo, con la magistratura – lascia posto alla sete di vendetta – perché è questo che Mrs. Wax vuole, vendetta – e che questa vendetta è resa possibile dalla corruzione del denaro. I nostri tentativi di trovare égalité, fraternité e liberté si infrangono sempre davanti ai motori ancestrali dell’agire umano come la vendetta e, con essa, la possibilità di alcuni di corrompere col denaro o sfruttando il proprio potere potere. A me in questo caso vengono in mente Borsellino e Falcone che continuavano a dire che la mafia altro non era che un sistema economico formidabile di corruzione.
Questa è la riflessione che chiude tutto, è come se Kirkwood dicesse “tutto quello che avete visto fino a qui sono sottotemi; la questione di genere, la questione dell’immigrazione, la questione delle ingiustizie che la donna subisce, sono tutti problemi veri che sappiamo esserci, ma il problema più grande su cui purtroppo la società patriarcale si è fondata è che le pulsioni primarie di ciascuno di noi vengono veicolate da un sistema corruttivo“. Il finale è molto, molto amaro. Mr. Coombs, come esecutore materiale della volontà di Mrs. Wax, in quel momento assurge a una figura tragica, come Oreste che ammazza Clitennestra, come nei grandi miti classici. Al tempo stesso è però la figura di un disgraziato, da sempre considerato un po’ lo zimbello del paese, deriso dalle donne, abbandonato dalla moglie, un poveraccio, un ignorante con pochi strumenti. E cosa deve fare di fronte all’insistenza del potere che ti dice “ti do i soldi, ti do una casa, ti do una posizione. Fai quello che ti dico io, perché tu sei uno schiavo“?. Credo che sia la chiusa a mettere in crisi gli ideali con un avvenimento amarissimo, come se Kirkwood ammettesse di non avere molta speranza che la società si possa organizzare in modo diverso da così.
La neutralità della base ritmata, un minimale sottofondo in quattro quarti che si ripeterà uguale a se stesso per più di un’ora, e due giovani danzatrici che indossano casalinghi abiti azzurri di qualche decennio fa: la singolarità di Il sesso degli angeli, nuova coreografia di Roberto Castello ospitata in prima assoluta da Orbita Spellbound Centro Nazionale di Produzione della Danza al Teatro Palladium, si scopre nella banalità apparente, voluta, di queste poche scelte che disattendono, già nei primi minuti di spettacolo, le aspettative grandiose dello spettatore.
Erica Bravini e Ilenia Romano, simili ma non identiche nel fisico, nell’acconciatura dei folti e neri capelli ricci, nell’atteggiamento delle spalle, eseguono con piccole differenze due versioni parallele e appena sfasate nel tempo di una stessa performance. La loro danza è fatta di movimenti minimi, ripetizioni di moduli cinetici che parodiano azioni comuni, gesti di tutti i giorni. Come bambine che giocano a imitare le posture degli adulti senza comprenderne il significato, Bravini e Romano eseguono la partitura con gli occhi sorridenti e una noncuranza che però è tutta esteriore.
La concentrazione richiesta alle due danzatrici è in realtà assoluta e nulla di ciò che lo spettatore vede è lasciato al caso. Senza mai guardarsi sia Bravini che Romano hanno coscienza per tutta la durata della performance di quale millimetro del palco stia occupando la compagna e di quale movimento stia eseguendo, a quale minuto e dopo quanti rintocchi della base sonora dovranno cambiare gesto, fermarsi, ripartire. Quel piccolo scarto tra le due donne in scena rivela in realtà una capacità di coordinazione che sembra trascendere l’umano: sono due pixel di un fotogramma, due punti distanti programmati per assumere colori diversi in un preciso istante, in modo da formare ciascuna delle immagini specifiche pensate dal coreografo in rapida successione.
È raro che le performer si guardino e questo espediente impedisce alle emozioni che caratterizzano ognuna delle loro azioni di contaminarsi, tanto che il pubblico arriva a fissare, divertito seppur confuso, per un tempo che sembra infinito Ilenia Romano che mangia con calma un pezzo di pane al centro della scena mentre Erica Bravini continua la sua frenetica danza in un angolo del palco.
A destabilizzare ancora di più chi osserva, però, c’è la sostanziale mancanza di senso e di connessione dei vari quadri, tanto che appare impossibile organizzarli nella propria mente seguendo un filo logico. D’altronde che l’argomento della performance sia il “sesso degli angeli”, ovvero il discorso inutile, la perdita di tempo, era già dichiarato dal titolo. Lo spettacolo oscilla così fra la parodia di se stesso e della vile rinuncia al significato di una certa tradizione di danza e teatro, soprattutto nei periodi storici di crisi sociale, e la meditazione, religiosa e filosofica, volta non al ragionamento con i suoi legacci quanto piuttosto a svuotare, ripulire la mente.
In questo modo nel loro gioco infantile le danzatrici, mentre scimmiottano un rituale sfrenato di danza, imitano con ironia le posizioni innaturali e statiche di un geroglifico egizio o simulano il volo di un uccello-angelo, si ritrovano senza volerlo trasportate tramite una ripetizione ipnotica all’interno dei gesti che compiono, delle sensazioni che suscitato e del loro significato.
Nello sconnesso percorso della rappresentazione nulla avvisa la spettatrice e lo spettatore che la conclusione sia vicina, se non le musiche tradizionali che si affiancano al ritmo in quattro quarti verso la fine. Il sesso degli angeli termina all’improvviso e il pubblico si risveglia dalla trance in un lungo applauso.
Crediti
Coreografia, regia, musica Roberto Castello
Con Erica Bravini, Ilenia Romano
Produzione ALDES
Con il sostegno di MIC – Ministero della Cultura, Regione Toscana / Sistema Regionale dello Spettacolo
Dal 20 al 23 febbraio, al Teatro Fontana di Milano andrà in scena KASSANDRA, performance diretta da Maria Vittoria Bellingeri e prodotta da Emilia Romagna Teatro | ERT / Teatro Nazionale.Lo spettacolo, scritto nel 2009 dal drammaturgo franco-uruguaiano Sergio Blanco, racconta la storia di un’eroina iper-contemporanea interpretata dall’attrice-cantante Roberta Lidia De Stefano (Menzione d’onore del Premio Duse e Premio Mariangela Melato), un’eccentrica poetessa urbana che vive nella sua auto, vende Marlboro assieme al suo corpo e parla un inglese di sopravvivenza, una sorta di “esperanto” comprensibile a tutti.
Il testo è una riscrittura del mito di Cassandra, l’omonima sacerdotessa di Apollo, colei che ha la facoltà di predire il futuro ma è destinata a non essere creduta. La drammaturgia crea un ponte tra le glorie dell’Atene di un tempo e il declino presente: la Kassandra di Blanco cerca di sopravvivere costretta a rifugiarsi ai margini di una città a lei straniera e come la protagonista del mito, è considerata una giovane audace in preda a funesti deliri. Fluida, immigrata, puttana, divertente, spudorata, coraggiosa, mostra il suo corpo come manifestazione pacifica dell’essere, attraversando caleidoscopici riferimenti all’oggi.
«Kassandra di Sergio Blanco è un’opera che interroga il silenzio che soffoca le voci femminili troppo spesso ignorate – dichiarano Maria Vittoria Bellingeri e Roberta Lidia De Stefano – pensiamo a Greta Thunberg, ridicolizzata nonostante il suo impegno per il futuro del pianeta, alle donne iraniane che fanno del loro corpo il terreno di una lotta politica contro il regime, unite e senza nome. Pensiamo anche a Maria Kolesnikova, il cui corpo è diventato simbolo di resistenza, esponendosi alle minacce pur di difendere la propria visione di cambiamento. Queste donne e molte altre, il cui nome resta spesso nell’ombra, incarnano una lotta globale contro l’indifferenza del potere, proprio come Kassandra. Lo spettacolo intende dare voce a queste esperienze, presentando una Kassandra che è molte di queste donne: una voce potente, fragile e inascoltata. Kassandra, come nel mito, non smette di parlare, anche quando il mondo continua a ignorarla. Non è solo un personaggio, ma una domanda persistente: quante altre verità dovremo ancora rifiutare?».
Mito e realtà si fondono senza ostentazioni e lasciano al pubblico un’estrema capacità di giudizio: con visionaria strafottenza, Kassandra “la straniera” lo accoglie, lo tenta, lo seduce e si dona con tutta l’anima raccontandosi senza filtri, in un monologo ironico ma toccante, che parla del nostro presente attraverso la riscrittura del passato.
Sulla scena un’automobile-casa che all’occasione diventa “carro di Apollo”, stanza da letto ad Argo, palcoscenico, rifugio, memoria, tomba. Uno statico movimento si alterna alla fluidità delle parole, pronunciate con l’accento di una donna dell’Est Europa. L’attrice alterna il dialogo con gli spettatori al canto, passando dal ballata pop al lirismo del verso greco, dalla musica elettronica alla techno. Il lavoro presenta una scrittura sonora originale che attinge a una ricerca musicale classica-pop ed elettronica (da Diamanda Galas, a Laurie Anderson, a Marianne Faithfull, agli ABBA).
Un personaggio dunque marginale che parla di identità, biopolitica, capitalismo, di transfemminismo, di migrazioni, una donna fluida che rappresenta la centralità del mondo, il focus di una polis da ricostruire o forse idealizzare, in modo da non perdersi in una realtà senza certezze dove la speranza possa non sembrare stupida utopia.
Fringe Italia OffInternational unisce Fringe Milano Off International Festival e Fringe Catania Off International Festival in un unico bando di partecipazione per artisti e compagnie.
La settima edizione di Fringe Milano Off (MI OFF) si terrà dal 2 al 12 ottobre 2025 La quarta edizione di Fringe Catania OFF (CT OFF) si terrà dal 16 al 26 ottobre 2025
FRINGE ITALIA OFF INTERNATIONAL
Fringe Italia Off, fondato da Francesca Vitale e Renato Lombardo, il network che unisce i Festival di Milano e Catania, ha una vocazione internazionale poiché già da anni è parte del World Fringe Network. Le Partnership internazionali si ramificano in tutta Europa partendo dagli storici Fringe di Edimburgo e di Avignone, arrivando a Praga, Stoccolma, Thessaloniki, Istanbul e nelle Azzorre, negli Stati Uniti con l’Hollywood Fringe, Soho Play House (NY), Richmond Fringe (Virginia) toccando anche l’India.
Una delle esigenze principali per gli spettacoli autoprodotti è connettere artisti e direttori artistici; per favorirne la distribuzione è nato il circuito FRINGE ITALIA OFF NETWORK, una rete che unisce teatri e operatori del settore, in tutta Italia e all’estero, che selezionano e accolgono alcune proposte artistiche di Fringe Milano Off e Fringe Catania Off in sintonia con le loro programmazioni.
FRINGE MILANO OFF INTERNATIONAL FESTIVAL E FRINGE CATANIA OFF INTERNATIONAL FESTIVAL
Fondato nel 2016 e giunto alla settima edizione a Milano e alla quarta a Catania, il Festival del teatro Off e delle arti performative, negli anni, è diventato sempre più ricco e inclusivo, coinvolgendo i quartieri e le loro comunità, spazi convenzionali e inusuali della due città, con un vasto programma che comprende spettacoli enumerosi eventi, workshop, incontri e focus tematici.
Una festa del teatro, che propone una mappa di turismo culturale, una vetrina per artisti e compagnie indipendenti, tanti momenti di scambio e contaminazione con cui abbattere le frontiere; Un appuntamento di condivisione fondato sull’aggregazione e l’empatia sociale che stimola la creazione e la sensibilizzazione di un nuovo pubblico.
Negli ultimi tre anni Fringe Milano Off è rientrato nelle attività di “Milano è viva”, il progetto finanziato dal Ministero della Cultura e attuato e coordinato dal Comune di Milano – Cultura per sostenere e promuovere le attività di spettacolo dal vivo nelle aree meno centrali delle città metropolitane; Fringe Catania Off a sua volta è rientrato nel progetto del Comune di Catania “Palcoscenico Catania”. Entrambi i Festival hanno avuto inoltre il patrocinio del MIC e il sostegno di SIAE – Società Italiana degli Autori ed Editori.
IL BANDO
Ai Festival possono partecipare artisti singoli o compagnie, di qualunque nazionalità, con spettacoli anche in lingua straniera, preferibilmente con sopra titoli in italiano. L’iscrizione ha un costo di 15€. La compagnia potrà decidere se candidarsi per una o due settimane, per Fringe CATANIA OFF o per Fringe MILANO OFF o per entrambi. Una commissione artistica opererà una prima selezione delle domande. La selezione definitiva degli Spettacoli spetterà alla direzione artistica delle Strutture performative ospitanti. Le compagnie/artisti selezionati verseranno la quota di partecipazione a seconda della capienza della location loro assegnata (da 50€ a 100€ a settimana).
Il Festival è incentrato sulla multidisciplinarità. Si possono candidare le seguenti categorie di spettacoli: Teatro (Drammaturgia Contemporanea, dramedy, comedy, Classici), Monologhi, Stand Up, Musical Off e Lirica Off, Teatro Fisico, Clownerie, Spettacoli Musicali e Teatro Canzone, Spettacoli di Danza, Spettacoli per Ragazzi, Teatro Multimediale e Visuale Si segnala un imminente progetto relativo allo Sport, per cui saranno graditi spettacoli sul tema.
C’è qualcosa di rivoluzionario nella decisione della compagnia Fabula Saltica di portare in scena, di mostrare senza censure la perdita nel mondo contemporaneo. Mentre la violenza e il sangue sono sdoganati in ogni mezzo di comunicazione, l’essere umano taglia fuori dalla propria vita e rifiuta di vedere la desolazione, il vuoto e il senso di finitudine che il lutto porta con sè, cancellando così ogni possibilità di elaborazione e superamento. Lo Stabat Mater di Pergolesi trova però asilo una domenica pomeriggio di gennaio allo Spazio Rossellini. Gli otto corpi dei performer compaiono sotto i riflettori coperti da vesti e teli neri e si preparano a condividere il dolore di Maria per la morte di Cristo sulle note del musicista settecentesco.
Inizia così un percorso che porta gli interpreti e il pubblico, riuniti in un attimo in un’unica comunità, ad affrontare ognuno degli stati d’animo che contraddistinguono l’elaborazione del lutto. Le emozioni sembrano propagarsi insieme ai movimenti senza soluzione di continuità cinetica da un danzatore all’altro. Ognuno con il proprio tempo segue a sua volta il ritmo, le variazioni, l’ondata della musica di Pergolesi, resa ancor più adatta alla danza da alcuni inserti contemporanei composti apposta per la rappresentazione.
Non si tratta della sola disperazione, che pure fa irruzione sulla scena nel momento stesso in cui il primo performer solleva il velo che gli copre il volto grigiastro e gli occhi spiritati. Ci sono anche l’angoscia irrazionale, sottolineata dai movimenti scattanti dei danzatori, che il peggio debba ancora venire, l’illogica ricerca di una soluzione, la rabbia insostenibile che emerge nella danza a coppie o gli spasmi di terrore che provoca il rumore di una pesante asse di legno lasciata cadere sul palco.
Questo unico oggetto di scena — se si eccettuano i veli neri come parte del vestiario dei performer — riassume ognuno dei macabri dettagli materiali che caratterizzano il fine vita degli esseri umani e la sua sola presenza inanimata nella cornice del movimento concitato della danza diventa agli occhi degli spettatori e delle spettatrici croce, poi bara e infine cadavere del defunto. L’asse sorretto dai danzatori sostiene a sua volta la performance e collega gli otto corpi sulla scena, costringendoli alla vicinanza e alla collaborazione e portandoli a formare con gli arti un’ unica grande creatura dolente. La cura estetica e compositiva dedicata a questi quadri calibrati al millimetro è notevole e lascia lo spettatore incantato e stupito anche nell’atmosfera tetra del teatro.
Quando il pubblico pensa che lo spettacolo, dopo aver raggiunto l’apice del trasporto emotivo nell’oscurità del lutto, sia ormai terminato, ecco che ha inizio invece il secondo atto, aperto dai sospiri che sollevano appena i veli neri che i danzatori portano in volto. Sarà l’unico suono che uscirà dalle loro bocche durante lo spettacolo e segna una sopraggiunta rassegnazione, primo passo verso la vita che ricomincia. Ora sette performer tengono inclinata l’asse mentre l’ottava si arrampica su di essa, recuperando dall’alto una prospettiva più ampia sull’esistenza e lo scorrere del tempo.
Non è possibile, nemmeno in questo frangente, attribuire un ruolo a ciascuno dei danzatori: tutti loro, uomini e donne, giovani e maturi, impersonificano uno alla volta oppure a gruppi quella Maria, quella madre che nella sua tragedia sembra non avere più sesso nè età. Il pubblico può partecipare così al suo dolore quasi archetipico in un modo nuovo, non più travolto dalla commozione per la vergine santa ma dalla compassione per la fragile psiche di un altro essere umano che si ritrova di fronte al baratro della morte. Il raccoglimento collettivo generato dall’esperienza di visione è liberatorio, catartico.
Crediti
Musica di Giovanni Battista Pergolesi e brani originali di Paola Magnanini
Compagnia di danza Fabula Saltica Cassandra Bianco, Valentina D’Alessi, Davide Dibello, Federica Iacuzzi, Claudio Pisa, Luca Marchi, Antonio Taurino, Chiara Tosti
Coreografia Claudio Ronda
Assistente alla coreografia Federica Iacuzzi
Costumi Antonio Taurino realizzati da Federica Coppo
Responsabile tecnico Gianluca Quaglio
Produzione dell’Associazione Balletto “città di Rovigo” – Compagnia Fabula Saltica, con il contributo di MiC e Assessorato alla Cultura del Comune di Rovigo
L’Associazione Fuori Contesto, indice la prima edizione del Concorso per residenze finalizzate alla realizzazione di spettacoli dedicati ad un pubblico di nuove generazioni, dai 6 ai 16 anni. Offre alle due compagnie vincitrici una residenza artistica all’interno del Centro di Aggregazione Giovanile Liberi d’Arte di Roma, con una restituzione nel luogo della residenza e una replica a cachet all’interno del Festival Fuori Posto (edizione 13).
Modalità di iscrizione
Titolo del Progetto;
Progetto in dettaglio, con elenco dei crediti e indicazione del target di pubblico : 6-10 anni o 11/16 anni (8.000 battute crediti esclusi);
Indicazione del target di pubblico: 6-10 anni o 11-16 anni;
Dichiarazione sull’eventuale presenza di altri soggetti che supportano il percorso di residenze, ricerca e produzione (questo dato è solo informativo, e non costituisce elemento di merito o di demerito);
Biografia di ciascun artista partecipante (formato PDF);
Biografia della Compagnia, Associazione Culturale o gruppo informale (non obbligatorio per artisti/e singoli/e) (formato PDF);
Link privato YouTube o Vimeo contenente il video di un altro spettacolo di teatro in repertorio o un video motivazionale di gruppo, e singolo nel caso di presentazione come artista singolo (il video motivazionale è pensato per chi non ha uno spettacolo per le nuove generazioni in repertorio video. Durata massima di 4 minuti);
In via facoltativa è possibile allegare un eventuale documento che contenga materiali di approfondimento utili a comprendere il progetto candidato (a titolo esemplificativo: materiali fotografici e/o iconografici, oppure scrittura di alcune scene, nonché disegni o bozzetti, oppure qualunque materiale utile a fornire informazioni artistiche sul percorso creativo);
Campo Teatrale, centro culturale milanese, lavora da anni per costruire occasioni per nutrire la “socialità” che il teatro porta con sé. Theatrical Mass, giunto alla settima edizione, è un progetto per la promozione e formazione del pubblico, un esperimento di aggregazione guidato dalla passione per il teatro e dal desiderio di portare più artisti e spettacoli a conoscenza dei non addetti ai lavori.
Nell’ambito di questo progetto Campo Teatrale indice un bando per selezionare uno spettacolo da inserire, con almeno 6 repliche, nella programmazione della stagione 2025/26, al quale destinare un contributo di coproduzione di 8000 euro nel caso si tratti di un progetto di spettacolo inedito o di 4000 euro nel caso in cui lo spettacolo abbia già avuto una anteprima aperta al pubblico e due progetti di spettacolo che beneficeranno di un periodo di residenza con un momento finale di apertura al pubblico. Campo Teatrale assumerà inoltre il ruolo di produttore esecutivo e si occuperà della distribuzione dello spettacolo fino al 31 dicembre 2026.
La selezione sarà effettuata sulla base della visione dal vivo di frammenti di 15/20 minuti degli spettacoli candidati nelle serate di venerdì 11, lunedì 14 e mercoledì 16 aprile 2025 presso la sede di Campo Teatrale (Mi).
Il bando è riservato a compagnie o artisti singoli attivi nel teatro di prosa che operino con obiettivi professionali e presentino spettacoli che non abbiano ancora avuto un debutto ufficiale prima delle date previste per la fase di selezione dal vivo.
Le candidature dovranno pervenireentro il 21 febbraio 2025.
Entro il 31 marzo 2025 sarà data comunicazione dell’elenco delle compagnie invitate a presentare un estratto dei loro lavori che saranno presentati al pubblico e a una giuria formata dalla direzione artistica di Campo Teatrale e da un gruppo di spettatori, denominati Teatricoltori. Dopo la rappresentazione degli estratti di spettacolo, gli artisti incontreranno la giuria per approfondire i contenuti del progetto artistico e la sua possibile evoluzione. Entro il 30 aprile 2025 sarà data comunicazione del progetto di spettacolo vincitore e delle compagnie invitate in residenza nella stagione 2025/2026 di Campo Teatrale. Gli esiti saranno pubblicati esclusivamente sul sito web www.campoteatrale.it
Eventuali ulteriori quesiti o richieste di chiarimento dovranno pervenire esclusivamente via mail, all’indirizzo di posta elettronica theatricalmass@campoteatrale.it.
Per la partecipazione e tutte le informazioni necessarie alla partecipazione si rimanda al bando pubblicato sul sito www.campoteatrale.it
Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti per garantirti la migliore esperienza sul nostro sito. Se continui ad utilizzare questo sito noi assumiamo che tu ne sia felice.
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. These cookies ensure basic functionalities and security features of the website, anonymously.
Cookie
Durata
Descrizione
cookielawinfo-checkbox-analytics
11 months
This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookie is used to store the user consent for the cookies in the category "Analytics".
cookielawinfo-checkbox-functional
11 months
The cookie is set by GDPR cookie consent to record the user consent for the cookies in the category "Functional".
cookielawinfo-checkbox-necessary
This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookies is used to store the user consent for the cookies in the category "Necessary".
cookielawinfo-checkbox-others
11 months
This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookie is used to store the user consent for the cookies in the category "Other.
cookielawinfo-checkbox-performance
11 months
This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookie is used to store the user consent for the cookies in the category "Performance".
viewed_cookie_policy
The cookie is set by the GDPR Cookie Consent plugin and is used to store whether or not user has consented to the use of cookies. It does not store any personal data.
Functional cookies help to perform certain functionalities like sharing the content of the website on social media platforms, collect feedbacks, and other third-party features.
Performance cookies are used to understand and analyze the key performance indexes of the website which helps in delivering a better user experience for the visitors.
Analytical cookies are used to understand how visitors interact with the website. These cookies help provide information on metrics the number of visitors, bounce rate, traffic source, etc.
Advertisement cookies are used to provide visitors with relevant ads and marketing campaigns. These cookies track visitors across websites and collect information to provide customized ads.