“Nella baracca dei burattini canta l’anima del nostro popolo” diceva Petrolini ed è difficile dargli torto ancora oggi. Negli ultimi anni il teatro di figura ha vissuto una rinascita. Basti pensare aLa classedi Fabiana Iacozzilli, a Natale in casa Cupiello per attore solo cum figuris con Luca Saccoia, arrivato finalista come miglior spettacolo ai premi Ubu, a Rosso del gruppo Uror, lavori diversissimi che animano i festival e che fanno dell’uso di marionette e manichini il medium artistico con cui parlare al mondo del mondo. Un’arte che si fonda sul sapere materico e artigianale, con una drammaturgia che si snoda su più livelli per rivolgersi a un pubblico di età non definita. In seno a questa prolifica realtà (per cui si rimanda al ciclo di ricerche Teatro di figura, immagini di vita), la compagnia sarda, Is Mascareddas, attiva sul territorio sardo, italiano e internazionale da più di 40 anni, è stata premiata con l’Ubu speciale 2023. Per la prima volta una realtà totalmente isolana ha raggiunto questo traguardo e nella motivazione per la tenace attività di Is Mascareddas, compagnia composta da Donatella Pau, Tonino Murru e la loro meravigliosa schiera di marionette, si legge:
“Per gli oltre 40 anni di lavoro nel teatro di figura, che Tonino Murru e Donatella Pau hanno sempre pensato – fra tradizione e innovazione – al pari e al crocevia degli altri linguaggi performativi e artistici, diffondendo tale visione scenica tout public a partire dalla Sardegna, in tutta Italia e nel mondo attraverso progetti via via più sperimentali. Per il loro spazio-museo, che custodisce una biblioteca sul teatro d’animazione fra le più significative in Europa e una straordinaria collezione di marionette e burattini, nel 2022 posta sotto tutela dalla Soprintendenza. Soprattutto, per l’impegno politico e di pensiero, oltre che poetico e artistico, e per la tenacia della resistenza portata avanti in condizioni non sempre facili dal 1980 dentro e fuori il palcoscenico”.
Siamo volati a Cagliari per intervistarli e parlare della loro storia, dei loro modelli, per riflettere su cosa voglia dire fare teatro di figura oggi, in una società digitalizzata e spesso poco propensa alla meraviglia.
Quando avete capito che il teatro di figura sarebbe stato il vostro?
TONINO MURRU: Beh, potrei dire da subito, fin da quando è stata creata la compagnia. Io sono un autodidatta, ho fondato la compagnia possedendo solamente un retaggio dei giochi di tipo teatrale che facevo da bambino, che era quello del circo, quello di giocare alla messa. Prima di dedicarmi al teatro ho lavorato in un’ officina meccanica, un lavoro molto pesante e molto duro. Ho iniziato a fare teatro intorno al 1978, quando ho conosciuto una compagnia che si chiamava La Calesita. Erano venuti in Italia in seguito al colpo di Stato in Cile del ’73, arrivando a Roma nel ’75, poi in Sardegna nel ’78 grazie a Corrado Gai, che è stato uno dei fondatori storici del teatro di Sardegna. E questa scintilla che loro mi iniettarono nei 3 mesi che ho lavorato con loro, mi ha portato poi nel 1980, con un po’ di intraprendenza, a fondare la compagnia.
DONATELLA PAU: Mi sono innamorata del teatro di figura da subito. Vista la mia formazione artistica, mi sono resa conto che è un’arte veramente totale, cioè quella in cui potevo definire la forma, capire da dove questa iniziasse, ma senza sapere dove finisse. Qualsiasi oggetto, qualsiasi immagine può diventare teatro di figura. L’importante è che ci sia teatro, ma non ci sono dei limiti, la sperimentazione è veramente ampia, puoi usare tantissimi materiali e puoi concepire anche spettacoli in cui non si parla tanto. È un teatro visuale. Questo è l’aspetto più intrigante per me.
Quali sono state e quali sono i vostri maestri/maestre? Quali sono state e sono le vostre ispirazioni?
D.P.: È una domanda complessa. Io provengo dal liceo artistico e ho avuto dei bravi maestri. In primo luogo, il mio professore Primo Pantoli e la mia professoressa di storia dell’arte Paola Spissu Bucarelli. Al tempo il liceo artistico era una scuola che apriva e dava degli input artistici, quindi in questo senso posso affermare di aver avuto enormi stimoli creativi. Poi ho incontrato Natale Panaro, che è stato il mio maestro per quanto riguarda la scultura lignea. Molto importante è stato l’incontro con Walter Broggini, perché non avendo la Sardegna tradizione di marionette, ci interessava capire cosa fosse l’arte dei burattini a guanto.
Fin da subito io e Tonino abbiamo cercato un confronto e siamo andati a vedere cosa succedeva nel mondo del teatro di figura. Non in Italia, bensì all’estero, dato che, una volta che esci dalla Sardegna, tanto valeva andare veramente “fuori”. Abbiamo perciò avuto una formazione “europea”. “Gli occhi” ce li siamo fatti anche attraverso i Festival, come il Festival mondiale delle marionette, che si tiene ancora oggi a Charleville-Mézières, in Francia. La prima volta, nell’81, ci siamo arrivati in autostop. Al tempo venivano presentati spettacoli da tutto il mondo, per cui andare a una rassegna del genere voleva dire avere veramente una panoramica di quello che succedeva nel teatro di figura. Abbiamo frequentato il Festival per vari anni, ma gli stimoli sono arrivati anche da tante altre occasioni, da persone che hanno frequentato il nostro laboratorio in Sardegna, come Karin Koller, la nostra regista con cui abbiamo creato tantissimi spettacoli. Senza considerare ovviamente maestri come Peter Brook e Kantor, per noi imprescindibili.
Come nasce la drammaturgia di un vostro lavoro? C’è un modus operandi, o creandi in questo caso, solito, oppure vi fate ispirare da un’esigenza che cambia?
T.M.: Noi partiamo sempre e comunque da una nostra necessità. A partire dall’argomento ci facciamo venire un’idea. All’inizio della nostra carriera abbiamo chiesto una mano per scrivere i testi, per esempio a Karin Koller. Successivamente anche Donatella si è dedicata a curare la drammaturgia. Tuttavia la fase di creazione del testo e della regia è sempre aperta a spunti e suggestioni di terzi. Lo spettacolo nasce in parte nelle prove e quindi si affida anche alla capacità e alla coscienza degli attori burattinai, perché i burattinai non possono prescindere dall’essere anche degli attori. Sta poi alla capacità del regista chiudere tutto il cerchio.
D.P.: Come dice Tonino in primis da una necessità, da un’idea da un pensiero da svolgere e sviluppare. Nel caso del burattino a “guanto” il nostro teatro si esprime nella sua massima creatività e drammaticità nel personaggio che abbiamo inventato “Areste Paganòs”. Non è stato facile crearlo, perché mentre i burattini di tradizione degli altri Paesi e delle altre regioni sono sempre sagaci, un po’ fuori dagli schemi e divertenti, creare un burattino “sardo” è stata una sfida. Perché tutti i tratti, tutte le imprecazioni, tutte le esclamazioni della nostra regione sono estremamente serie. I sardi sono sempre introversi e silenziosi, a fogu aintru (“con il fuoco dentro”, ndA). Cercavo degli aspetti a cui agganciarmi per creare questa figura-personaggio sardo, ma non ne trovavo di adatti a una marionetta. E allora la nostra ricerca si è indirizzata verso il carnevale, in particolare la maschera di Ottana. Il suo volto infatti è una maschera fissa ma con la parte superiore che diventa un berretto morbido. Veste una bella camicia bianca plissettata come quelle maschili del costume tradizionale sardo, e un gilè di pelo di pecora. Il suo nome rimanda alla sua natura selvatica, che lo fa somigliare ad una capra-muflone, e come tutti gli eroi burattineschi riesce a risolvere conflitti e metter pace.
Areste è il protagonista di storie scritte da noi e ispirate alle problematiche della faida, balentia (valore, intraprendenza ndA) e banditismo, argomenti molto importanti e presenti alcuni anni fa in Sardegna. Abbiamo lavorato molto con la musica, cioè come fonte di ispirazione, con lo spettacolo sul jazz, sulla lirica, dei veri e propri varietà musicali. Abbiamo poi iniziato a indagare sulle artiste e artisti che prima di noi avessero creato dei pupazzi e lì nasce il personaggio di Giacomina, ispirato ai pupazzi di Tavolari e Anfossi, con la musica di Gavino Murgia, sino ad arrivare a “Venti contrari”, con i pupazzi delle sorelle Coroneo e la musica di Tomasella Calvisi. In questi ultimi esempi i personaggi hanno ispirato direttamente la drammaturgia.
Dal momento che mi parlate di filoni, di volontà di costruire una tradizione che non c’è, vorrei capire cosa vuol dire fare teatro di figura in Sardegna.
T.M.: Noi abitiamo in Sardegna, noi viviamo in Sardegna e quindi è qui che dobbiamo lavorare. È chiaro che il teatro non può essere una forma di pagamento finto, nel senso che uno non può limitarsi a farlo per un proprio diletto, perché altrimenti non è teatro. Bisogna perciò produrre qualcosa di bello, forte, ma anche vendibile. Penso per esempio a uno spettacolo premio Ubu come il Macbettu di Alessandro Serra, che ha tutte queste caratteristiche. Diventa fondamentale dunque non perdere mai di vista che si vive di questo lavoro, quindi lo spettacolo deve essere forte, “inquietante”,deve porre dubbi; deve essere un intrattenimento sì, ma possibilmente il più colto possibile, raffinato, non deve cadere nella cialtroneria. L’obiettivo è quello di inventare uno spettacolo adatto ai bambini, ai bambini e alle loro famiglie, dal momento che un bambino non va da solo a vedere uno spettacolo. In fondo, come si è soliti dire, “se uno spettacolo piace a un bambino, sicuramente piacerà anche agli adulti; non è sempre vero il contrario”. Bisogna perciò ragionare su un doppio linguaggio. Il teatro di burattini vive affinché lo spettatore si senta emotivamente coinvolto. Nonostante le difficoltà, questo è ciò che ha tentato di fare Is Mascareddas.
Abbiamo inoltre cercato di entrare per tanto nel giro delle feste popolari qui in Sardegna, ma non ci siamo riusciti a pieno. Perché? Perché da una parte c’è la cultura dominante, la cultura della classe dominante, come diceva Karl Marx, che tendenzialmente vuole portare avanti l’idea che tutti vivano felici e contenti, possibilmente senza dire niente. Senza conflitti. Senza scontrarsi col sistema imperante in quel momento. Quindi per evitare ciò, noi partiamo da noi, da sardi che lavorano in Sardegna, per arrivare a un pubblico diverso. Per noi, fare il teatro di figura da sardi in Sardegna serve ad arrivare a più persone possibili, far girare i nostri spettacoli in Italia, in Europa. Spettacoli con dei messaggi sociali e politici, con un testo. Potevamo fare spettacoli senza testo ed economicamente sarebbe stato più conveniente, ma non l’abbiamo fatto. Saremmo potuti andare in “continente”, ma non avremmo fatto l’attività culturale che abbiamo fatto qui. Anche se nella nostra regione se non veniamo valorizzati se non dalla Soprintendenza, per cui veniamo considerati dal punto di vista antropologico-artistico. È difficile, ma è quello che vogliamo fare. Non ci siamo accontentati, ci siamo posti il dubbio. E questo ci ha salvato la vita. Avere la pazienza di non accontentarsi.
D.P.: Siamo stati criticati da qualcuno perché non abbiamo usato la lingua sarda. Ma non ci interessava tradurre un testo in sardo ma semmai parlare e portare in scena argomenti e storie interessanti della nostra terra. Come ho già detto prima quando raccontavo di Areste Paganos, che è riuscito a portare le sue storie oltre l’isola e quindi parlare e farsi capire dai pubblici di tutta Italia. I nostri burattini sono sardi? Non lo so. Alcuni dicono che sono sardi perché hanno dei nasoni, ma non saprei. Noi siamo sardi e viviamo qui. Indaghiamo sulla sonorità e portiamo la sardità senza forzature, senza folclore e senza mai utilizzare lo stereotipo sardo. Abbiamo sempre e solo utilizzato la materia che potevamo trovare interessante a livello teatrale.
Nella motivazione per l’Ubu si parla di impegno politico, quindi cosa vuol dire per voi impegno politico?
D.P.: Noi non facciamo teatro politico. Il teatro è anche politico. Il teatro è vita. Il teatro deve assolutamente mettere dei dubbi, non deve dare delle risposte, deve fare in modo che lo spettatore possa riflettere su qualcosa. Ci sono stati dei momenti in cui abbiamo fatto quasi uno spettacolo propriamente politico, come “Il soldatino del Pim Pum Pà” di Mario Lodi che sembrava una sorta di “manifesto del partito comunista”, ma è un caso particolare. Di certo non abbiamo mai fatto un teatro che ammiccasse al commerciale. In questo senso abbiamo sempre cercato di raccogliere anche le istanze che venivano dal popolo, perché è una prerogativa del teatro dei burattini, ma ci siamo sempre messi l’obiettivo di portare argomenti che potessero far ragionare. Per esempio abbiamo fatto uno spettacolo sulla morte, pensato per i bambini: non sono temi prettamente politici, ma in una società in cui alcuni temi, come la morte e il sesso, sono tabù, noi abbiamo cercato di indagare anche questi aspetti a modo nostro.
T.M.: La premessa è necessaria, fondamentale: la politica o la fai o la subisci. E anche quando la fai la potresti subire lo stesso, tra l’altro. Il primo libro che ho letto di burattini riportava questa frase: Per sconfiggere un’ipocrita non conosco strumento migliore di una marionetta. Bisogna studiare approfonditamente l’arte dei burattini per farli parlare in modo diretto e chiaro di argomenti sociali. Bisogna praticare questo, rivedere quello, capire come si può interpretare quell’argomento scelto nello spettacolo. Che cos’è la sagacia del burattino? Perché un burattino a guanto? Perché è il più attoriale. Però il problema è sempre che cosa dici. E poi anche come lo dici. Questa è la politica. La politica del lavoro che fai, per cui devi costantemente studiare e approfondire. Per crescere continuamente. E non desistere.
A quasi un anno di distanza dall’ultima rappresentazione di “Zio Vanja” al Teatro Argot nell’ambito del progetto Sistema Cechov a cura di Uffici Teatrali il regista Filippo Gili torna sulla scena romana a dirigere portando nuovi slanci artistici agli scenari angusti delle rappresentazioni veteroteatrali dei classici della drammaturgia contemporanea con uno dei capisaldi della letteratura mondiale: quell’Aspettando Godot che Beckett scrisse tra il ’48 e il ’49 pur non avendo allora alcuna idea delle tendenze teatrali del tempo, ma considerando lo scrivere per il teatro un meraviglioso e liberatorio diversivo per distrarsi e riposarsi in una pausa di lavorazione alla Trilogia dei romanzi. Un testo rivoluzionario sia sul piano formale sia su quello concettuale che ha segnato le sorti della storia e della cultura antropologica ancor prima di quella teatrale rappresentando una cesura cartacea, lapidaria ma al contempo eterea, nell’immaginario contemporaneo fra ciò che è stato e ciò che ne sarà dell’umanità, di dio e del domani.
Così Filippo Gili, incontrato a ridosso del debutto, ha commentato il nuovo allestimento che avrà luogo presso lo Spazio Diamante dal 24 Marzo al 2 Aprile: “Se Beckett racconta la storia di vagabondi io invece ho cercato di limare questo aspetto perché un conto è rappresentare i vagabondi nel 1950 un altro è farlo oggi dando un vantaggio incredibile agli spettatori di ordine psico-classista. Intendo dire che oggi il contemporaneo post-ideologico tende molto nel suo correttismo buonista a inquadrare la classe inferiore all’interno di una valutazione sostanzialmente empatica, divertita, buffa e tenera ma sempre allineata nell’ambito dell’erranza e del vagabondismo – condizione ontologica di tutti quanti noi ormai disinnescati dalla nostra identità attraverso una una manipolazione tecnocratica che più che mai ci ha deindividualizzato. Da questo punto di vista la cosa che mi interessava è che il pubblico non avesse l’opportunità per mettere al personaggio una maschera distanziante ma trovasse in un’ambientazione non così diversificata e non così comodamente ruolistica, un gioco di ruolo per cui un meraviglioso clown, un barbone simpatico e divertente cui applaudo e che in fondo dice delle cose geniali resta un barbone; il fool che è la coscienza critica del re resta pur sempre un fool – il re lo usa perché è geniale perché in qualche modo è una specie di capro espiatorio, di esorcismo democratico. Ho cercato quindi una dimensione minima differenziale possibile da questa rappresentazione e quindi evitando anche una serie di didascalismi eccessivamente clowneristici mantenendo comunque fede al testo così come è scritto sia didascalicamente sia verbalmente però non per tutto. Ritengo che in Aspettando Godot l’ambientazione vagabondesca non sia una cosmesi fenomenologica ma sia una questione ontologica o noumenica: in tal senso c’era bisogno di levargli queste vesti e la cosa che ho immaginato era un post post-moderno, un magazzino di Trony o Euronics o un Apple Store del 2080 in disuso da 40 anni quindi un doppio futuro dove questi due antichi commessi uno più giovane e uno più anziano tornavano quotidianamente in quel luogo affetti da una sorta di orfanità della situazione perduta”.
Continua Gili in una parte dell’intervista che a breve pubblicheremo integralmente : “Come vagabondi erranti di un’identità che ci è sfuggita di mano completamente, un’identità che si confà giorno per giorno nella gioia dell’aggiornamento, nella chiave della miniaturizzazione dell’aspetto tecnologico, nel nostro sentirci fautori e vettori di questo progresso che in quanto concetto ormai infilatosi anche nelle classi più basse – rispetto a questo Pasolini urlava la sua tremenda e bellissima apostrofe – è quanto di meno ontologico ci possa essere. L’immagine è quella di un Occidente decaduto dove si svela finalmente che il domani non esiste o che questo domani una volta inveratosi non ha lasciato niente. Un domani nudo anzi un domani invisibile. Il domani si è verificato perché un albero enorme per un colpo di vento è cascato su un magazzino l’ha distrutto; la tecnocrazia dell’Occidente è finita lasciando il posto a nulla. Questi due vecchi commessi tornano in questo luogo per una liturgia della tradizione biologica e biografica ma anche perché questo è il luogo da dove le promesse del domani, di un domani eternamente domani, non sono mai state mantenute. Aspettando Godot quindi anche per domandarsi perché il domani non è arrivato.Poi il gioco che faccio a pianta centrale è un’arma a doppio taglio che se non funziona è terribile però se funziona ti costringe a scivolare dentro la presentazione togliendo quel diaframma quarto parietale in qualche modo così identificativo del gioco del teatro ma così tremendamente coadiuvante con la capacità dello spettatore di eliminare il rischio della catarsi intesa nel senso più classico del termine”.
Giorgio Colangeli e Francesco Montanari nelle vesti di Vladimiro ed Estragone saranno affiancati da Riccardo De Filippis e Giancarlo Nicoletti che presteranno voce e corpo a Pozzo e Lucky per quello che si preannuncia uno degli eventi più significativi della stagione teatrale romana, da non perdere assolutamente.
Aspettando Godot
di Samuel Beckett – traduzione di Carlo Fruttero
con Giorgio Colangeli – Francesco Montanari – Riccardo De Filippis – Giancarlo Nicoletti
e con Pietro Marone
FOTO Luana Belli GRAFICA OverallsAdv VIDEO David Melani SCENE Giulio Villaggio – Alessandra De Angelis UFFICIO STAMPA Rocchina Ceglia DIRETTORE DI PRODUZIONE Sofia Grottoli DISEGNO LUCI Daniele Manenti AIUTO REGIA Luca Di Capua – Luca Forte DISTRIBUZIONE & PROMOZIONE Altra Scena Art Management UNA PRODUZIONE Altra Scena Art Management e Viola Produzioni per gentile concessione di Editions de Minuit
REGIA Filippo Gili
Spazio Diamante – Via Prenestina 230b – Roma
dal 24 Marzo al 02 Aprile 2017 Venerdì e Sabato 21.00 / Domenica 18.00 Info & Prenotazioni 06 – 80687231 / 393 – 0970018 Biglietti: Intero eur 20 + prevendita; ridotto eur 15 + prevendita
Il 12 ed il 13 maggio 2018, la Compagnia Controtempo Theatre porterà in scena “Otello” capolavoro di Shakespeare nelle incantevoli stanze di Palazzo Ferrajoli in Roma (Piazza Colonna, 355) – evento.
Tra combattimenti, disperazione e momenti di passione, il dramma del Moro rivivrà in una versione completamente innovativa e coinvolgente. Lo spettacolo, infatti, sarà “itinerante”: in questo senso il pubblico avrà l’opportunità di assistere alla rappresentazione immergendosi nella bellezza dei diversi ambienti della location e sentendosi parte integrante dell’opera.
La regia di Lilith Petillo e Pasquale Candela, tende a mettere in rilievo il punto di vista di Iago, la sua ardita opera di disfacimento e la crudeltà dell’animo umano.
Il cast è formato da giovani attori professionisti. Otello, alle prese con la sua irrefrenabile gelosia, sarà Dario Carbone. Iago, probabilmente uno dei personaggi più complessi degli scritti shakespeariani, astuto, malvagio e inverosimilmente folle, sarà interpretato da Venanzio Amoroso. A vestire i panni della bella e giovane Desdemona, invece, sarà l’attrice Paola Fiore Burgos. Cassio, fedele luogotenente del Moro, sarà Danilo Franti. Roderigo, follemente innamorato di Desdemona sarà interpretato invece da Marco Guglielmi; nel ruolo di Emilia, moglie di Iago, troveremo Lilith Petillo, mentre Montano, amico di Otello, sarà Massimiliano Cutrera.
Parliamo di “Otello” con Lilith Petillo, Danilo Franti e Venanzio Amoroso, fondatori della compagnia Controtempo Theatre, che descrivono il processo di ideazione e di sviluppo dell’opera analizzando le dinamiche artistiche e le implicazioni relazionali fra gli attori e il pubblico, attraverso la riscrittura scenica di un classico teatrale in versione itinerante.
Otello di Controtempo Theatre
Il rapporto di Controtempo Theatre con il repertorio classico
Lilith Petillo, regista e attrice
Non è un caso che abbiamo scelto Shakespeare come autore d’esordio per la compagnia. Non scopriamo l’acqua calda ma Shakespeare è estremamente attuale rileggendo le opere del Bardo ti rendi conto di quanto sia sempre attinente alla realtà grazie a un linguaggio che, pur essendo diverso dal nostro, esprime concetti disarmanti mediante la voce di alcune figure femminili, interessanti casi di studio. In Otello ci sono sia Desdemona sia Emilia, quest’ultima è una donna forte portatrice di un femminismo che difende strenuamente – in questo senso è paradossale notare come all’epoca del Bardo, nel teatro Elisabettiano, i ruoli femminili fossero interpretati dagli uomini. Quindi com’è possibile che un personaggio come Emilia sia definito con caratteristiche così forti? Questo è uno dei motivi che ci ha spinto a scegliere di mettere in scena l’opera Shakespeare.
Danilo Franti
In Otello i rapporti tra i personaggi sono molto più lineari e attuali rispetto ad altre opere come Giulietta e Romeo dove vengono narrate situazioni e problematiche legate al contesto storico, ad esempio le diatribe fra le famiglie dei Montecchi e dei Capuleti. In Otello si parla di un esercito che possiamo trovare oggigiorno in qualsiasi situazione bellica. Si prenda la gelosia, l’invidia e nel caso di Iago anche la malvagità che porta una persona a ingannare gli altri per il suo profitto personale: questi sono gli aspetti emotivi e le caratteristiche psicologiche dei vari personaggi su cui lavoriamo. In questo senso la nostra visione dei fatti in Otello viene rappresentata artisticamente attraverso la prospettiva di Iago, personaggio invidioso e malvagio, del quale cerchiamo di mettere in risalto la condizione esistenziale universalizzando la sua umanità.
Venanzio Amoroso
Quando abbiamo pensato di mettere in scena Otello, l’abbiamo collegato alla possibilità di portarlo in scena in castelli, in borghi e in altri luoghi di grande interesse storico-culturale. Quindi questo ci ha vincolato nella scelta della sua resa scenica. È certamente una riscrittura: abbiamo scelto di vedere tutta l’opera attraverso gli occhi di Iago che è un manipolatore, questa decisione deriva dalle location in cui mettiamo in scena lo spettacolo che ci permettono di restare fedeli all’Otello sia nei costumi sia nelle scelte stilistiche. Oggi nei vari settori della società civile di manipolatori è pieno, riscontriamo nella quotidianità tantissimi Iago che incontriamo durante la nostra vita. Questo è quello che viene apprezzato dal nostro pubblico pur non avendo noi marcato questo aspetto. Ecco perché Shakespeare, anche quando lo si porta in forma classica, è vincente. Noi andiamo a sviscerare, seppur in maniera leggera, l’opera permettendo allo spettatore di comprenderla. Questo è il miracolo di Shakespeare.
L’esigenza di adottare testi classici nasce nel momento in cui abbiamo capito che questi sono dei calderoni di meccanismi umani, di emozioni e di sentimenti che hanno un valore universale. Scegliere Otello e averlo reso scenicamente più fruibile ci ha consentito di negare il tabù della pesantezza del teatro classico anche per dimostrare che il teatro classico, e Shakespeare in particolare, possono essere compresi da tutti. La nostra riduzione cerca di mantenere l’opera originale facendo dei tagli legati alla fluidità e alla comprensione del testo per mantenere i rapporti e le emozioni presenti nell’opera. Non abbiamo la presunzione di pensare che alcune delle parti che ha scritto Shakespeare non servano, però abbiamo dovuto operare una riduzione senza però intaccare il significato dell’opera.
Otello di Controtempo Theatre
Genesi ed evoluzione dell’otello itinerante
La scelta di Otello nasce da qualche nottata di pensieri e di parole da parte di tutti e tre e arriva in un giorno caldissimo d’estate dopo esserci confrontati con Pasquale Candela che ha preso a cuore il progetto e firmato la regia con Lilith Petillo. Eravamo in un periodo critico della nostra vita artistica, sentivamo di essere invasi da una serie di sensazioni ed emozioni positive che però non riuscivamo a canalizzare non capendo quale fosse la direzione giusta da prendere. Dopo aver letto diversi testi drammatici, ci siamo trovati d’accordo su Otello perché il vissuto di ogni personaggio sembrava rispecchiare quello che stavamo vivendo in quel momento. Otello ci ha bloccati e ci ha fatto capire che forse dovevamo affrontarlo in modo più approfondito.
Rispetto allo sviluppo, avendo avuto l’opportunità di provare molto al Castello Lancellotti di Lauro, in questo spettacolo molte cose sono nate spontaneamente nel momento in cui abbiamo vissuto lo spazio. Tutto andava liscio, una volta entrati nel castello ci siamo resi conto che a destra c’era la casa di Brabanzio che è il padre di Desdemona; un grande arco con una porta dalla quale abbiamo immaginato Iago e Roderigo sbucare e nel giardino abbiamo riconosciuto il luogo dove far svolgere il matrimonio segreto fra Otello e Desdemona. Così il testo ha preso vita entrati nella location. Tutto ci diceva che lì si doveva mettere in scena Otello. Abbiamo fatto un sopralluogo a fine agosto 2016, a metà settembre abbiamo cominciato a lavorare con il cast e l’1 e il 2 Ottobre siamo andati in scena. Per questo primo appuntamento ci siamo serviti della professionalità di attori che hanno la nostra stessa forma mentis, infatti lavoravamo dalla mattina fino a tarda notte: una fucina di idee.
Da sempre sia stati abituati a svolgere diverse mansioni contemporaneamente: in quei giorni alcuni lavoravano su delle scene, altri montavano le luci o andavano a vedere i costumi. Di questo spettacolo in particolare ricordiamo un’atmosfera molto serena dove si respirava un’aria di creatività. Il lavoro con gli altri attori è stato molto interessante perché anche per noi era un primo esperimento di conduzione registica nonostante avessimo un po’ più di esperienza rispetto agli spettacoli itineranti grazie ai lavori precedenti che ci hanno visto protagonisti. Cercavamo di trasmettere agli attori quella che era la nostra idea, in un scambio artistico di dare e avere.
quali sono state le scelte stilistiche che caratterizzano lo spettacolo?
Abbiamo cercato di rappresentare un’opera itinerante dove gli attori sono sempre a stretto contatto con gli spettatori. Noi ci troviamo in sale o spazi all’aperto, con il pubblico in piedi a tre metri dall’attore. Un tale rapporto di vicinanza e di prossemica ci porta a dover recitare in maniera più naturalistica cercando di trasmettere tutti quei concetti che noi reputiamo importanti. Il personaggio di Iago, per scelte registiche, rompe la quarta parete in molti momenti, parla spesso col pubblico e lo trascina da un ambiente all’altro: l’esigenza di mobilitare gli spettatori deriva dalla volontà di introdurre pienamente il pubblico nello spettacolo.
In generale, l’elemento decisivo, al di là, della rottura della quarta parete, è che il pubblico si sente parte integrante della scena. Quando sei in teatro lo spettatore è seduto in poltrona mentre gli attori si esibiscono sul palcoscenico, ne consegue un distacco tangibile anche nel momento ipotetico in cui il performer si rivolge direttamente al pubblico. Nei nostri spettacoli non c’è mai questo distacco: addirittura succede che il pubblico passi accanto all’attore e lo tocchi. Ha l’esigenza di uno scambio comunicativo quindi di entrare in empatia con gli artisti. Siamo tutti sulla stessa barca, gli attori, i personaggi, l’autore e il pubblico: è come aprire un testo e immergervisi completamente. Anche il fatto di parlare al pubblico con le lacrime agli occhi oberati di tutto il tragico carico di Otello aumenta esponenzialmente la portata drammatica dell’opera.
Certamente la location è determinante in questo processo di immedesimazione ma anche la nostra attenzione al lavoro fisico all’interno attraverso le dinamiche di contatto fra combattimenti, schiaffi, baci, abbracci gioca un ruolo fondamentale in questa direzione. Una volta, al Castello di Torre Alfina, un posto molto bello dove siamo stati, giunti al momento del suicidio di Otello, dove è presente uno fra i monologhi più struggenti dell’opera, si creò talmente tanta empatia che una signora esclamò prima dell’atto finale: “No, Otello, non lo fare!”.
Emilia Romagna Teatro Fondazione realizza l’operazione Masterclass per la Scena Contemporanea 2025 – Rif. PA 2024-23069/RER, finanziata con risorse del Programma Fondo sociale europeo Plus 2021-2027 della Regione Emilia-Romagna e approvata con Deliberazione di Giunta regionale n. 2287 del 09/12/2024. Nell’ambito dell’operazione “Masterclass per la Scena Contemporanea 2025”, Emilia Romagna Teatro Fondazione promuove un percorso gratuito di Alta formazione per giovani attrici/tori, danzatrici/tori, coreografe/i e performers fisici: Danza e scritture. Masterclass con Marco D’Agostin (prog 2).
I corsi di Alta formazione della Scuola di ERT perseguono l’obiettivo di mettere in relazione giovani artiste/i con maestre/i che le/i aiutino ad affinare le arti apprese e in alcuni casi a metterle in discussione. Lo strumento principale è il workshop pratico, strutturato secondo precise scansioni di tempi e contenuti, sottoposto a una continua verifica critica a cura dell’artista che guida il corso. I corsi di Alta formazione di ERT vogliono essere un luogo di didattica applicata, tra pedagogia e sperimentazione teatrale.
Nel quadro del focus di drammaturgia fisica Carne, fortemente voluto dal Direttore Valter Malosti e affidato alla coreografa e danzatrice Michela Lucenti, fondatrice di Balletto Civile e artista associata di ERT, la Fondazione propone a Modena il corso gratuito di Alta Formazione Danza e scritture. Masterclass con Marco D’Agostin, un’iniziativa pedagogica della durata di due settimane focalizzata sul Teatro fisico, con particolare attenzione alla commistione di linguaggi e alla multidisciplinarietà (tra il teatro e la danza, tra l’uso del corpo e della voce, tra la recitazione e il movimento), tipici della Drammaturgia fisica, genere innovativo, multiforme e in continua sperimentazione artistica al centro della rassegna Carne.
“La Drammaturgia Fisica è tesa ad arrivare alla scrittura di veri copioni tra parole, suono, immagini e danza per raccontare un oggi più complesso e sfuggente. Questa nuova narrazione totale e libera a partire dal corpo diventa un’azione di testimonianza ancora più urgente a sostegno della coscienza politica e di un’affermazione fisica che risponda all’oppressione e al vergognoso limite che al corpo viene dato alle porte delle nostre frontiere. La rivoluzione è a partire dal corpo, il narrare ha bisogno di un nuovo corpo sociale, di una comunità di interpreti e pubblico che sia testimone della coscienza politica e come affermazione fisica che quest’oggi complicato e violento richiede”.Michela Lucenti
Le/i frequentanti saranno guidate/i nell’approfondimento delle tecniche e dei linguaggi della danza e del teatro, in un’ottica di sviluppo di un linguaggio comune e multidisciplinare attraverso il quale esplorare le varie possibilità d’interazione con gli altri, al fine di rispondere all’urgenza di artiste/i, performers, interpreti e creatrici/tori della scena contemporanea che trovano nel corpo il primo strumento per la propria indagine e creazione artistica, alla ricerca di una propria nuova identità.
Nel corso e al termine della Masterclass saranno possibili momenti di dimostrazione pubblica del percorso pedagogico, nell’ambito del programma della Rassegna Carne.
Il bando Brave Actions for a Better World 2024-2025 di OTB Foundation supporta organizzazioni non profit con sede in Italia, USA e Regno Unito che promuovono l’inclusione sociale, l’empowerment delle persone e le pari opportunità a livello globale.
Il programma finanzia iniziative coraggiose e di impatto che migliorano la vita di donne, giovani e persone con background migratorio, favorendo un cambiamento sostenibile a lungo termine.
FINANZIAMO
Supportiamo progetti innovativi, coraggiosi e d’impatto che facciano davvero la differenza, promuovendo l’uguaglianza e creando nuove opportunità attraverso:
Inclusione sociale ed economica, aiutando donne, giovani e persone con background migratorio a superare le barriere all’occupazione, essere parte attiva della società e raggiungere l’indipendenza economica.
Empowerment e sviluppo delle competenze, contrastando le disparità educative attraverso l’accesso a formazione di alta qualità, sviluppo delle soft skills e opportunità di crescita personale.
Innovazione: proporre delle soluzioni non comuni, attraverso progettualità nuove, inesplorate, fuori dagli schemi con particolare attenzione a donne, giovani e persone con background migratorio.
CHI FINANZIAMO
Il bando è aperto a organizzazioni non profit formalmente costituite, con sede in Italia, USA o Regno Unito. Per tutti i criteri di eleggibilità, si prega di consultare il Regolamento completo.
DETTAGLI
Contributo stanziato: 200.000€
Durata del progetto: i progetti devono durare almeno un anno.
Territorio del progetto: i progetti possono essere realizzati in qualsiasi parte del mondo.
Alle Ortiche invita artisti/e e collettivi a candidarsi alla residenza artistica in programma dal 18 al 27 giugno a Genova, in vista della settima edizione di “Alle Ortiche Festival“. La residenza è curata da Alle Ortiche, in collaborazione con Florìda e ife collective.
Il tema
Il festival indaga il tema dei rit·m·i, esplorando la ciclicità, l’ordinario e l’eccezionale, lo scandire del tempo e come il ritmo possa tradursi in rituale, caratterizzandosi socialmente e contribuendo alla formazione di comunità, legando il vissuto umano alle altre specie e al contesto contemporaneo.
Le artiste e gli artisti selezionati saranno invitati a prendere parte ad una residenza di dieci giorni e a partecipare attivamente ad un programma comunitario, che include incontri, dialoghi e attività con i membri dell’associazione e della comunità locale. Avranno la possibilità di esplorare e approfondire il contesto culturale e territoriale, per sviluppare la loro pratica, rafforzare e consolidare i loro intenti progettuali.
Come partecipare
Possono candidarsi persone con più di 18 anni di tutte le nazionalità e in diverse fasi di carriera, con particolare attenzione alle pratiche sperimentali nelle arti visive, nei nuovi media, nella teoria culturale, nella performance e nella curatela. È richiesta una buona comprensione e capacità di dialogo in linguaitaliana.
La partecipazione è gratuita. Alle Ortiche offre un alloggio per la durata della residenza e una fee di 700€lordi comprensivi dei costi di produzione, trasporto e vitto. La quota di produzione sarà trasferita all’artista tramite bonifico nei primi giorni di residenza.
Per partecipare è necessario compilare il modulo onlineentro venerdì 9 maggio alle 23:00. Maggiori informazioni sulle modalità di candidatura e sulle opere ammesse sono disponibili all’interno del bando completo.
La Biennale di Venezia ha nominato Willem Dafoe Direttore Artistico del Settore Teatro per il Biennio 2025-2026. Nell’ambito delle attività teatrali da lui dirette, Willem Dafoe presenta un laboratorio intensivo, denominato L’Enciclopedia delle Emozioni, condotto dal regista Davide Iodice, che si terrà dal 29 maggio al 2 giugno 2025. Questo laboratorio è il primo passo per la selezione di un team che affiancherà il regista nella creazione di un’opera teatrale site-specific che debutterà nell’edizione 2026 della Biennale Teatro.
È indetta una selezione per i partecipanti al laboratorio.
Il progetto “L’Enciclopedia delle Emozioni” è un ciclo di laboratori modulari condotti da Davide Iodice che nasce nell’immediato post-pandemia, dalla considerazione che oltre alla tragicità della malattia e della morte reale, si è sperimentato che senza una possibilità di espressione, senza la relazione, senza socialità, senza bellezza, le case possono essere le tombe della nostra identità. Una città, un quartiere, l’intero Paese può diventare una tomba; un deserto. Quella uscita dal lungo periodo pandemico è una società convalescente, ancor più fragile e bisognosa di aiuto, disorientata in un vero e proprio “dopoguerra delle emozioni”. Si è avvertita allora come più che mai urgente, la necessità di ritrovare l’originaria forza catartica del teatro, la sua qualità di Pharmacon, rinnovandola nella contemporaneità; risignificando la funzione terapeutica e sociale per cui quest’arte è nata. È apparso fondamentale da un lato ricodificare l’evento performativo, spettacolare come dispositivo di partecipazione e incontro con una comunità o un gruppo sociale, dall’altro rimettere al centro del processo l’artista teatrale come specialista delle emozioni e della relazione, aspetti quanto mai centrali per il superamento del trauma e per la ricomposizione della frattura psicologica, relazionale e sociale che ne è derivata.
Temi e pratiche
Il laboratorio si pone l’obbiettivo di sollecitare nei partecipanti la capacità di risonanza con il proprio e l’altrui spettro emotivo; di favorire la capacità empatica e di presa in carico dell’altro; la qualità dell’ascolto; la disponibilità a creare dinamiche relazionali non stereotipe; ed infine l’autonomia nello strutturare il materiale esperienziale progressivamente emerso. La natura dell’attore, la persona del dramma, la partitura scenica, l’oggetto di scena come ‘anima in forma esterna’, la MASCHERA, sono alcuni degli orientamenti tematici di questo artigianato totale che si apre ai linguaggi come agli esiti più diversi.
A chi è rivolto
Il laboratorio intensivo è aperto a un massimo di 20 partecipanti (attrici, attori, performers maggiorenni residenti o operanti in Veneto) con particolare vocazione alla pedagogia, a un teatro di prossimità e ad azioni culturali partecipate e comunitarie.
Obiettivi
Il laboratorio ha come obiettivo principale la selezione di una equipe artistico-pedagogica che avrà il compito di sviluppare un nuovo processo di ricerca e creazione site-specific, sul tema del corpo, della fragilità e della cura. In particolare, il laboratorio intende:
Sviluppare una risonanza emotiva attraverso il contatto con esperienze personali e collettive.
Favorire l’empatia e la qualità dell’ascolto, promuovendo un ambiente di creazione inclusivo e non stereotipato.
A conclusione del laboratorio, i selezionati per la fase successiva affiancheranno il regista Davide Iodice e il suo team per sviluppare una drammaturgia e un linguaggio teatrale attraverso l’interazione diretta con persone anziane e le loro storie di vita. Un invito a esplorare la potenza trasformativa del teatro e della relazione umana, e a diventare parte di un processo creativo collettivo che si rivolge direttamente alla comunità.
Il processo di creazione si estenderà fino alla produzione dello spettacolo finale alla Biennale Teatro 2026 attraverso una fase di attività laboratoriali che si svolgeranno tra settembre 2025 e aprile 2026 (con cadenza da definire), per culminare in una residenza creativa nel maggio-giugno 2026, seguita dal debutto dello spettacolo finale a giugno 2026, allo scopo di:
Creare una drammaturgia collettiva che si basi su racconti, vissuti e frammenti di vita condivisi dai partecipanti.
Esplorare il teatro come strumento di cura sociale, operando a stretto contatto con la comunità e utilizzando la maschera e il corpo come amplificatori emotivi.
Modalità di partecipazione al laboratorio
La partecipazione al laboratorio è gratuita e comporta l’obbligo di frequenza per l’intera durata (dal 29 maggio al 2 giugno 2025).
Requisiti di partecipazione Gli interessati a partecipare al laboratorio dovranno inviare la seguente documentazione:
· Curriculum Vitae completo di dati anagrafici, recapiti telefonici e indirizzo e-mail. · Lettera di presentazione in formato libero (testo, audio, video, foto), che evidenzi la motivazione per la partecipazione al laboratorio e il proprio interesse per il progetto artistico.
Le candidature devono essere inviate entro il 4 maggio 2025 compilando il FORM ONLINE L’ammissione al laboratorio avverrà su insindacabile giudizio del regista Davide Iodice.
MARCHE TEATRO lancia un’audizione per la creazione di una Compagnia dei Giovani formata da attrici e attori professionisti. Una Compagnia formata da Giovani che vanno da diciotto ai trentacinque anni possiede in sé il senso di una nave pronta a salpare per il futuro, dove formazione, ricerca e conservazione della tradizione, reclutamento di nuovi talenti e valorizzazione e affinamento di quelli in crescita contribuiscano a rendere salda e sempre innovativa la rotta maestra di MARCHE TEATRO.
Una compagnia di supporto dunque, che sperimenti, ma conservi, tracci nuove vie ma persegua anche i dettami di una Direzione del Teatro, che lavori sui testi, sugli attori, sui registi, scenografi, costumisti e musicisti che si riconoscono nei valori concreti dell’azione di questo Teatro marchigiano.
Quattro i principi che dovrebbero ispirarla: Tradizione, Innovazione, Popolare, Identità.
L’Avviso (on line dal 7 aprile) è finalizzato ad individuare da n. 8 a n. 12 attrici e attori marchigiane/i (nati nelle Marche o residenti o domiciliati nelle Marche da almeno 2 anni).
La costituzione della Compagnia dei Giovani, avverrà dopo una accurata preselezione su curriculum vitae, seguita da una selezione finale su audizione in presenza, ad opera del Direttore Giuseppe Dipasquale.
La domanda di partecipazione alla prima selezione dovrà essere inviata all’indirizzo e-mail info@marcheteatro.it specificando nell’oggetto: “selezione Compagnia Giovani di MARCHE TEATRO”, entro il 15 maggio 2025 alle ore 14:00. Tutte le info necessarie da allegare alla domanda su www.marcheteatro.it
Da più di 10 anni il collettivo che anima la direzione artistica di Strabismi, interviene in maniera sostanziale sull’offerta culturale umbra. Diverse sono le attività condotte da Strabismi, associazione nota per la realizzazione di spettacoli e per l’organizzazione di un festival multidisciplinare che nel corso del tempo ha fatto emergere e sostenuto il percorso di talenti oggi affermati sulle scene nazionali. Questo processo di cura, però, si estende ben oltre il periodo festivaliero e caratterizza tutte le iniziative proposte, segno di una sensibilità artistica che intercetta nella proposta culturale uno strumento fondamentale per lo sviluppo della comunità e del territorio di riferimento.
Rafforzare il senso civico e lo spirito critico delle giovani generazioni e creare concrete opportunità per percorsi artistici in fieri sono le matrici del nuovo corso inaugurato da Strabismi: da un lato il ritorno del Festival che inaugurerà a Perugia la sua XI edizione con una conformazione del tutto rivoluzionata, dall’altro un progetto di scoperta delle arti performative rivolto a studentesse e studenti delle scuole medie.
Ne abbiamo parlato con Alessandro Sesti, regista, performer, direttore artistico di Strabismi.
Perché avete scelto di connotare il vostro lavorocon una simile visione curatoriale, cosa significa assumersi la responsabilità di un simile intervento?
Quando abbiamo dato vita a Strabismi nel 2015 eravamo molto giovani, per il panorama teatrale italiano direi dei bambini, ma nonostante ciò avevamo percepito un vuoto nella nostra regione per ciò che riguardava cura, sostegno e programmazione di giovani artisti. La nostra intenzione iniziale fu di riempire quel vuoto creando un contenitore per ospitare e dare l’occasione di mostrare il proprio percorso artistico a tutti gli artisti emergenti che faticavano a trovare un’occasione quando muovono i primi passi. Pertanto tutte le nostre iniziative, da lì in avanti, hanno avuto tale unico vettore. Ci siamo resi conto, edizione dopo edizione, che limitare il concetto di “emergente” al confine anagrafico dei 35 anni fosse un errore in quanto il percorso artistico non è sempre direttamente proporzionale all’età. Allo stesso modo ci siamo a lungo interrogati su cosa dovesse essere Strabismi in termini di ricaduta sociale sul territorio dove operavamo.
Dopo i primi anni un po’ nomadi, finalmente abbiamo trovato casa in un piccolo paese umbro e lì abbiamo potuto esprimere al meglio ciò in cui credevamo: abbiamo dato vita a progetti di Direzione artistica Partecipata, progetti scolastici come StraBimbi, abbiamo creato un focus sui “giovani maestri” ovvero su quegli artisti che nonostante la giovane età hanno già un percorso artistico ben definito e soprattutto abbiamo potenziato il sostegno ai giovani artisti attraverso residenze autosostenute – Strabismi non ha mai fatto parte delle residenze artistiche nazionali – e collaborazioni con molte realtà artistiche del territorio nazionale.
Una delle parole chiave che associo a Strabismi è continuità, proprio perché credo sia la grande assente per la nostra generazione. Siamo cresciuti e continuiamo ad invecchiare coscienti che “oggi sei utile, ma domani ci occorre qualcosa di più nuovo del nuovo”. Ogni anno assistiamo ad una proliferazione di bandi che cercano opere nuove, lavori inediti, concorsi che chiedono esclusive, insomma un meccanismo fagocitante dove a farne le spese è l’artista che probabilmente è stato confuso per una macchina a gettoni. Come si può costruire un percorso artistico di reale ricerca se cerchiamo sempre qualcosa di nuovo? Ed ecco che nascono e muoiono i famosi progetti “da bando” dove anche l’artista è costretto a perdersi per avere occasioni.
Con Strabismi vogliamo che l’artista percepisca un senso di certezza, seppur piccolo, che lo spinga ad andare avanti sapendo che l’anno successivo presenterà ancora un suo lavoro nel nostro festival in Umbria, con un cachet adeguato e operatori partner per intercettare nuove occasioni. Anche per questo motivo abbiamo interrotto il meccanismo del bando e iniziato un processo di recupero di tutte le compagnie che avevano catturato il nostro interesse, ma che non eravamo riusciti a programmare.
Crediamo che, oggi come oggi, assumersi questa responsabilità sia necessario. Dare fiducia e occasioni a quelli che mi piace immaginare come “maestri del futuro” è però, credo, anche una vocazione: sull’under 35, da parte del Ministero abbiamo visto più e più volte delle modifiche nei piani organizzativi, ma se la mission è di sostenere i giovani vai avanti lo stesso, offrendo un servizio fondamentale per le nuove generazioni, perché sei cosciente che questo “non è un paese per giovani”.
A proposito del Festival Strabismi. Le ultime edizioni hanno segnato un cambio di passo importante. Con lo spostamento dalla storica location di Cannara, il Festival ha assunto una nuova conformazione pur mantenendo le specificità che lo connotano fin dalla sua fondazione. In occasione della prossima edizione avete costruito il festival intorno a una serie di nuclei tematici di grande rilevanza sociale. Perché questa scelta e quali sono le aspettative riguardo all’impatto di queste iniziative sulla comunità perugina?
Le ultime due edizioni sono state di transizione, le abbiamo realizzate con l’ospitalità del Piccolo Teatro degli Instabili di Fulvia Angeletti e di Fontemaggiore, che ringraziamo. Abbiamo cercato di mantenere la nostra azione di sostegno alle giovani compagnie, ma altro non potevamo prevedere. Da quest’anno abbiamo potuto riprendere ad immaginare il futuro grazie alla collaborazione con Spazio Mai – Movement Art Is, che ci ha accolto nei propri spazi, in un progetto di residenza permanente. Spazio Mai è una realtà che da molti anni opera su Perugia e con la quale abbiamo trovato grande sintonia. Quindi possiamo finalmente dirlo, che dopo due anni di incertezze e difficoltà, oggi Strabismi Festival rinasce nel capoluogo della Regione, Perugia. Il motivo per cui abbiamo trasformato il festival in qualcosa di differente è relativo al territorio di riferimento, ma anche agli anni di Strabismi. Diciamo che ci eravamo dati come obiettivo quello di svecchiare il festival e di provare a immaginare qualcosa di differente in primis perché ciò che funzionava a Cannara, con ogni probabilità, non funzionerebbe a Perugia, ma soprattutto perché un festival di teatro (sia anch’esso multidisciplinare) inteso come una rassegna di eventi compressa in pochi giorni, oggi come oggi, a mio avviso è anacronistico e non in ascolto con il cambiamento che stiamo vivendo.
Ciò cui abbiamo assistito negli ultimi 15-20 anni è stato un progressivo aumento di “festival vetrina” che sono certamente utili, ma non possono essere l’unica possibilità. Sono aumentati esponenzialmente anche i concorsi e i famigerati bandi per residenze e sostegni produttivi. Ciò che abbiamo perso nel tempo è il contatto con lo spettatore, ma non inteso come cittadino che acquista un biglietto e assiste a ciò che proponiamo, ma come fruitore attivo dell’offerta culturale. Abbiamo dimenticato la necessità di intendere il teatro come un veicolo utile a ricostruire una comunità di cittadini attivi e partecipi. Non ci sono colpe, è una constatazione dei fatti. Giriamo festival da artisti o da operatori e ci ritroviamo, ci riconosciamo fra di noi. Sono rari e preziosi gli esempi di luoghi dove questo non accade. Perciò abbiamo cercato di creare un progetto che mantenga il sostegno alle giovani realtà, ma che richiami a sé la cittadinanza e soprattutto i giovani, di cui Perugia è grande attrattore essendo anche un’importante città universitaria.
Quindi dopo il momento dedicato agli emergenti che prende il nome di Exotropia, inizierà il festival vero e proprio che avrà una durata di circa tre mesi, con eventi lontani fra loro nel tempo. Poiché crediamo anche che, al netto delle condizioni economiche sempre più precarie nel nostro Paese, c’è anche l’aspetto della mancanza di tempo per se stessi, che le nuove generazioni percepiscono molto chiaramente. Non siamo più disposti a “sospendere” la nostra vita per rincorrere una programmazione bulimica di eventi, questo credo valga per ogni manifestazione, non solo per il teatro. Riguardo i contenuti dell’XI° edizione di Strabismi festival, la prima a Perugia, abbiamo deciso di affrontare il tema dell’inquinamento ambientale e del cambiamento climatico, l’aumento dei casi di depressione e suicidi nei giovani adulti, la violenza di genere e la dipendenza affettiva e infine il bullismo e il bullismo omotransfobico nella dimensione scolastica.
Di volta in volta intorno a questi argomenti costruiremo delle conferenze, dei panel in cui cittadini, studenti universitari, associazioni di categoria e rappresentanti delle amministrazioni cittadine e regionali possano confrontarsi, avere un dialogo, realizzare un documento utile a portare un cambiamento concreto nella dimensione sociale. Facile? Non lo credo affatto, ma se non puntiamo a qualcosa di ambizioso, in fondo, perché lo stiamo facendo? Per entrare nello specifico della programmazione aspettiamo ancora un po’, ma una cosa possiamo già anticiparla. A Giugno, grazie alla collaborazione con Dance Gallery, storica realtà della città di Perugia, realizzeremo una Strabismi Festival Preview dove ospiteremo lo spettacolo vincitore del Premio Cantiere Risonanze 2024.
Proprio con il Festival Strabismi avete avviato da diverso tempo un percorso di Direzione Artistica Partecipata che affida a giovani spettatori e spettatrici la selezione di alcuni degli spettacoli programmati, ma che si sostanzia soprattutto in un processo di avvicinamento alle arti performative. Avete poi esteso questa traiettoria a studenti e studentesse delle scuole di diverso grado del territorio. Qual è l’obiettivo principale della Direzione Artistica Partecipata (DAP) e come si è evoluta nel tempo, in particolare con l’inclusione degli alunni delle scuole medie nel processo di selezione e valutazione degli spettacoli?
Le DAP sono uno strumento che ormai tantissimi festival creano, curano e rendono parte integrante della propria progettualità. All’interno di Risonanze Network di cui Strabismi è partner, sono tantissime le realtà che considerano le DAP la normalità. Noi stessi l’abbiamo creata dopo aver conosciuto e visto questa pratica già attiva in altri festival come ad esempio Dominio Pubblico a Roma. Anche la DAP, purtroppo, è stata vittima del nostro addio a Cannara, poiché nel pieno di un processo di cambiamento obbligato non riesci a dedicare la giusta cura a un progetto così stratificato e complesso, ma ora siamo già a lavoro per costruire un nuovo gruppo che unisca i membri veterani con uno proveniente dal territorio perugino.
L’idea di estendere il progetto di DAP ai giovani delle scuole medie mi è venuta durante la pandemia. Allora c’era un grande affanno, tutti a trovare il modo di continuare a fare pur di non fermarsi. Ho vissuto quel periodo con particolare confusione e senso di inadeguatezza. Non mi sentivo a mio agio nel parlare di teatro attraverso un dispositivo, né tantomeno a chiamarlo con il suo nome. Quella cosa è stata un’altra cosa.
Però, e qui l’idea, ci sono stati dei giovanissimi che hanno in un certo senso “saltato” due anni scolastici ritrovandosi catapultati dalla quinta elementare, in seconda media. Questi studenti appartengono alla Glass generation o alla Z generation, sono nati nell’epoca in cui tutto è smart e a differenza nostra non hanno vissuto il passaggio dall’analogico al digitale. Non è un caso o un lapsus il fatto che spesso chiamino “film” uno spettacolo visto attraverso uno schermo. Da questi pensieri e ragionamenti ho strutturato un progetto di “Educazione alla visione”, che trasforma le alunne e gli alunni delle classi seconde nelle direttrici e nei direttori artistici della rassegna che sarà realizzata nella loro città.
Il meccanismo è semplice: i giovani vedono una serie di spettacoli, di volta in volta, dopo la visione, si crea un dibattito in merito alla tematica, agli aspetti più tecnici e logistici legati all’ospitalità di quel progetto. Al termine sono chiamati a selezionarne uno o più, a seconda delle disponibilità di Strabismi, e qui entriamo in gioco noi garantendo loro un rischio di impresa “protetto”. Loro scelgono come fossero dei direttori, ma è Strabismi a investire nelle loro scelte e offrire alla città quegli spettacoli, in replica mattutina per le studentesse e gli studenti e in replica serale per la cittadinanza.
Qual è il ruolo curatoriale degli studenti nella scelta degli spettacoli da portare in scena, e in che modo questa partecipazione attiva contribuisce a rafforzare il loro senso di appartenenza alla comunità?
Credo che un simile processo crei un senso di responsabilità importante nei giovani e che soprattutto li porti a scoprire i meccanismi con cui si organizza una stagione teatrale o un festival, a dare meno cose per scontate e anche se il mondo gli ricorda ogni giorno che devono correre ed essere al passo con la “società dello spettacolo” possono anche fermarsi e confrontarsi per trovare “il meglio” da offrire alla propria città, ma in tempistiche lente e dilatate. Gli spettacoli selezionati infatti vengono poi portati dal vivo nel successivo anno scolastico, per necessità logistiche, ma anche per contrapporre il teatro alla pessima abitudine del tutto e subito.
Quest’anno stiamo già operando su Norcia, presso l’istituto De Gasperi – Battaglia (con il quale stiamo curando anche un progetto di teatro, legalità e musica, ma ne parlerò più in là) e stiamo sottoponendo loro spettacoli legati ai temi d’attualità più critici, notando, di anno in anno, quanto i giovani siano molto più consapevoli e inclusivi rispetto le generazioni precedenti.
Il Festival Internazionale “La Escritura de las Diferencias” rappresenta uno spazio dedicato a dare visibilità e forza alla voce delle donne nel teatro. Da 25 anni s’impegna a combattere l’esclusione delle donne artiste dai teatri e a trasformare la realtà della produzione teatrale. Quest’anno, si reinventa come evento itinerante, oltrepassando i confini e connettendo artiste dell’America Latina e Cuba, Spagna e Italia sotto l’egida di un concetto potente: Transmigrare. Lo stesso funzionamento del festival, che prevede che le opere siano dirette da registe di paesi differenti, nasce dalla necessità di riconoscere che oggi è sempre più comune che le persone abbiano identità culturali multiple. Il Teatro transmigrante riflette questa realtà. Parafrasando Calderón de la Barca: la vita è sogno… e i sogni, sogni sono... ma non affondano più le radici in un solo paese. In un mondo pieno di barriere, “La Escritura de las Diferencias” risponde facendo comunità, rendendo visibile il lavoro di drammaturghe e registe attraverso rappresentazioni, letture e workshop.
Cosa propone il festival? Promuovere scenari favorevoli alla creazione femminile: in ogni paese, stimoliamo la partecipazione di artiste teatrali del luogo, dando visibilità alla produzione artistica di donne del teatro di 13 paesi iberoamericani: Argentina, Brasile, Centro America Zona Nord (El Salvador, Guatemala, Honduras), Cile, Cuba, Ecuador, Perù, Repubblica Dominicana e Uruguay, ed europei: Spagna e Italia.
Incentivare drammaturgia e regia femminili: Favoriamo la creazione e la scrittura da una prospettiva critica che renda visibili le preoccupazioni e le esperienze delle donne, con l’obiettivo di promuovere l’equità in un campo in cui le loro voci sono state e sono storicamente sottorappresentate.
Costruire ponti: Il festival funge da spazio di trasformazione e scambio culturale, creando un “luogo” che consente la trasformazione e la riscoperta di identità e realtà, rendendo possibili nuove modalità di fare e creare.
La Rete internazionale di donne del mondo del teatro Sin dalla sua nascita, il festival ha rappresentato il motore per la creazione della Rete internazionale, una comunità dinamica che collega drammaturghe, registe e artiste dell’America Latina, Cuba, Italia e Spagna. Oggi, la Rete conta con 154 partecipanti impegnate nel riequilibrio di genere nel teatro. Progetti come il programma radiofonico “Confinamiento Colectivo”, il testo collettivo Garúa e la nostra partecipazione a festival internazionali come l'”Encuentro de Mujeres” a Quito sono solo alcuni esempi del nostro operato.
Abbiamo, inoltre, appoggiato o promosso iniziative politiche significative: dalla presentazione di un progetto di legge in Argentina, emendamenti alla Legge dello spettacolo in Italia, fino alla creazione di reti nazionali come “Illumina” in Italia, “La Colectiva de Autoras” in Argentina e “Dramaturgia Femenina” in Spagna.
Un festival in movimento Per questo il nostro festival si trasforma in un evento itinerante, che si svolge in diversi paesi, attraversando le frontiere, tessendo Reti. Per la prima volta, lo facciamo con un tema specifico: il teatro transmigrante. A un mondo che ci vuole divise, rispondiamo facendo comunità; all’esclusione, rispondiamo occupando la scena; la resistenza non si mendica, si esercita.
Il sipario si apre sulla scena illuminata da una luce calda, mentre un’atmosfera contemplativa si addensa intorno a quattro corpi che si preparano, pian piano, al proprio exploit.Rua da saudadedi Adriano Bolognino riflette sull’intraducibilità di questa parola portoghese e indaga l’estrema difficoltà di guardarsi dentro. Sebbene in italiano “saudade” sia spesso resa con “nostalgia”, questa traduzione è riduttiva. Comunque, che si tratti di nostalgia o malinconia, di rimpianto o di ricerca di ciò che, pur se assente, appare ancorato al presente, la performance prende le mosse dalla volontà di rappresentare con una visione uno stato d’animo incomparabile.
A esibirsi nel Teatro Nuovo di Napoli è un ensemble di quattro danzatrici: Rosaria Di Maro, Noemi Caricchia, Roberta Fanzini e Cristina Roggerini. Ognuna di loro ha un’acconciatura differente e un morbido tailleur di colore diverso — rosso, giallo, verde e blu — a sottolineare l’individualità che non si annulla nell’insieme. La profonda autonomia emotiva si concretizza grazie nella consueta partitura ritmica del coreografo, che mette in scena performer in grado di armonizzarsi con la musica e riempire i silenzi con i passi.
Per questo spettacolo Adriano Bolognino si ispira alla teoria dell’eteronimia di Fernando Pessoa, uno degli scrittori più complessi del ventesimo secolo. Gli eteronimi sono le diverse personalità letterarie assunte dallo scrittore nel corso della sua vita e le quattro danzatrici di Rua da saudade rappresentano ciascuna una di queste identità da lui create. L’idea della frammentazione delle personalità letteraria dà vita, nell’universo di Adriano Bolognino, a questa creazione coreografica dinamica e in costante evoluzione che sa stupire attraverso sfumature di colori e una corretta alternanza di musiche e silenzi. Al debutto dello spettacolo nel settembre del 2022 al Torino Danza Festival, ad esempio, le performer indossavano tailleur a manica lunga e una di loro vestiva un colore diverso rispetto a quello adottato in seguito.
Il battito delle mani sul corpo, perpetuo, permette l’instaurazione di un vero e proprio dialogo danzato che scuote lo spettatore. I colpi dei pugni chiusi, stretti, sono un leitmotiv che non s’arresta con le note: incessanti, raccontano un’autobiografia non scritta. I corpi vibrano come corde di violino, le braccia tagliano l’aria e i virtuosismi tecnici rendono la performance completa. La muscolatura delle danzatrici non cede in nessun momento e permette al pubblico di osservare figure in costante tensione, fisica ed emotiva. Si alternano sequenze in cui un solo corpo è in riflessione con sé stesso mentre attorno continua la danza. Da quell’apparente immobilità lo spettatore è rapito, sentendosi forse parte di quelle scosse, di quegli scatti veloci che precedono importanti respiri, i quali non solo segnano il ritmo, ma liberano il corpo, guidandolo verso nuove transizioni. Salti leggeri, impeccabili articolazioni di braccia e gambe, incastri coordinati alla perfezione sono parte di un’operazione complessa che tende verso un obiettivo: dare ordine al turbine esistenziale attraverso la consapevolezza che forse questa armonia è solo illusoria.
Rua da saudade di Adriano Bolognino rompe l’atmosfera creando uno squarcio che forse non è necessario sanare: apre spiragli di riflessione in cui il movimento entra e rientra senza interruzione. L’intento è proprio questo: dare vita ad un’irripetibile danza che si fa esperienza attorno all’io. La performance conduce ciascuno a riflettere sulla propria saudade mentre osserva quella dell’altro. La scelta di esplorare l’intraducibilità della parola e il suo legame con l’emotività e il corpo rende la performance un’esperienza profonda di riflessione esistenziale. La danza diventa un atto di resistenza e di rivelazione che racconta una silente lotta interiore e un desiderio che non può essere colmato.
A Leonardo e Maddalena bastano pochi secondi per far calare nella sala dello Spazio Diamante un silenzio carico di disagio: Il bambino dalle orecchie grandi si apre con un vivido e dettagliato resoconto del brutale omicidio di una donna, fatta a pezzi e chiusa in uno zaino dall’uomo. L’incredibile coincidenza con i recenti fatti della cronaca nera di Roma lascia a bocca aperta e, sebbene non ci voglia molto prima che diventi chiaro che il protagonista sta solo riportando alla donna appena conosciuta quello che ha sognato quella notte, apre in un secondo un’imprevista chiave di lettura, di certo fuorviante rispetto all’evoluzione della pièce di Teatrodilina, ma che introduce con efficacia il pubblico alla sensazione di straniamento che segnerà lo spettacolo nella sua interezza.
Ci troviamo all’interno della casa della ragazza, una scenografia minimale fatta di cubi che fungono da tavoli ricoperti da oggetti e sparsi nel salotto. I due attori indossano vestiti antiquati dai colori smorti come l’anima dei personaggi che, almeno all’apparenza, non si accende e non si lascia trasportare con facilità in slanci passionali. L’imbarazzo e la freddezza mostrati da Leonardo Maddalena e da Anna Bellato, che interpreta la controparte femminile nella coppia in procinto di formarsi, l’atmosfera appena riscaldata da timidi sorrisi, gli argomenti di conversazione inconsistenti e spesso fuori luogo rendono bene l’imbarazzo che contraddistingue i primi giorni o mesi di una relazione. Ma mano a mano che la conoscenza tra i due progredisce, l’impaccio e la mancanza di comunicazione tra questi bizzarri personaggi nevrotici e repressi sembrano solo aumentare.
È a questo punto che nasce nella coppia il sospetto di essere finiti insieme per caso, di essere stati attratti quel giorno alla pensilina dell’autobus ognuno dalle orecchie troppo grandi dell’altra, unico elemento che li accomuna: quel dettaglio privo di significato potrebbe aver fatto prendere alle cose una piega diversa, imprevista, sbagliata. La riflessione su casualità e destino è uno dei pochi argomenti chiari, definiti ad emergere nel marasma di considerazioni e ostentazioni maniacali che aggiungono tensione nella coppia. La donna è infatti convinta di aver già incontrato quell’uomo misurato e forse un po’ noioso in una vita precedente.
Quella che poteva apparire nelle prime scene la rappresentazione realistica, forse caricaturizzata appena per esigenze comiche, di una comune storia d’amore acquisisce ben presto, nella drammaturgia di Francesco Lagi, i tratti del teatro dell’assurdo. Non si tratta più solo di portare sul palcoscenico l’elemento ricorrente del racconto onirica – come il sogno raccontato dalla protagonista di cui è protagonista il bambino con le orecchie grandi che dà il nome allo spettacolo, con ogni probabilità il futuro, ipotetico figlio della coppia – ma di mostrare, ad esempio, i due innamorati che si alternano, di comune accordo, nel fingersi morti suicidi per capire quale effetto quella perdita avrebbe nel proprio animo, per sincerarsi della forza dell’amore, salvo poi realizzare che anche per loro è impossibile credere fino in fondo nella farsa di cui erano già a conoscenza.
Questa sensazione corrisponde alla contemporanea impossibilità di un’empatia reale da parte del pubblico nei confronti dei protagonisti e di quei loro problemi così lontani da ciò che potremmo vivere ogni giorno, come la fissazione dell’uomo per il cibo di colore viola o i suoi sforzi nel mettere insieme una compilation di rumori di oggetti che si rompono, sforzi a cui lei si oppone perchè vorrebbe invece vorrebbe sentire il suono “delle cose che si aggiustano”.
È solo quando la tendenza della donna a non rimettere i tappi ai barattoli fa esplodere l’uomo in un attacco di rabbia incontrollato che lo porta a distruggere una stanza che la sensazione di insicurezza generata dalle prime batture torna con prepotenza sul palco e in sala. Il bambino dalle orecchie grandi si chiude senza un lieto fine per questo nuovo amore, ma con un nuovo inizio: la storia si riavvolge e ricomincia da capo, come in quel tanto millantato incontro in una vita passata in cui le cose si sono svolte allo stesso modo, solo a parti invertite.
La drammaturgia contemporanea è un riflesso della società, delle sue contraddizioni, dei suoi slanci e delle sue inquietudini: uno strumento per interpretare il mondo che abbiamo intorno. La scrittura per la scena in Italia sta dimostrando la capacità di affrontare temi rilevanti nel dibattito socio-culturale e di misurarsi con l’esplorazione di nuove forme narrative. Supportare l’emersione delle voci e delle opere più interessanti del panorama nazionale, corrisponde a rafforzare la conformazione archetipa del teatro quale luogo di scambio, dialogo e riflessione critica.
Theatron 2.0, in collaborazione con il Teatro Bellini di Napoli,presenta la terza edizione del Premio nazionale di drammaturgia Omissis. Il Premio Omissis è concepito come un osservatorio destinato a scoprire e divulgare opere originali e a testimoniare la diversità di esperienze e linguaggi, facilitando il confronto tra autori, operatori e pubblico.
Il bando si rivolge ad autrici e autori under 40, principale novità di questa edizione, introdotta allo scopo di estendere ulteriormente l’azione di promozione della drammaturgia contemporanea e di sostegno alla comunità artistica.
Il bando avrà validità a partire dal 16 aprile 2025 con scadenza il giorno 30 giugno 2025.
In cooperazione con enti di programmazione attenti alla nuova drammaturgia, si conferma la circuitazione della lettura scenica del testo vincitore, per la prima volta presentato in forma integrale, che sarà inserita nella programmazione 2026 di Kilowatt Festival (AR), Festival Dominio Pubblico (RM) e Teatro Fontana (MI).
Anche in occasione della terza edizione del Premio Omissis, si rinnova la partnership con una rete di case editrici specializzate, composta da Cue Press, Luca Sossella Editore e SuiGeneris. I tre testi finalisti saranno inviati in lettura alle case editrici coinvolte che potranno scegliere autonomamente di avviare una collaborazione editoriale con le autrici e gli autori segnalati. A partire da quest’anno, annoveriamo tra i nostri partner Eurodram – Rete internazionale per la selezione e traduzione di opere di drammaturgia contemporanea. I tre testi finalisti saranno inoltre promossi presso il comitato italiano della rete.
La giuria è composta da Giorgio Andriani (Cranpi); Mimmo Borrelli (drammaturgo, attore, regista); Ivonne Capece (Teatro Fontana); Lucia Franchi (CapoTrave/Kilowatt); Jovana Malinarić (Outis – Centro Nazionale di Drammaturgia Contemporanea); Antonino Pirillo (Cranpi); Ornella Rosato (Theatron 2.0); Daniele Russo(Teatro Bellini di Napoli), Alessandro Toppi (La Repubblica Napoli, La Falena).
Per rafforzare l’azione di promozione della drammaturgia contemporanea presso un target di giovani lettori e lettrici, inoltre, sarà costituito un comitato di studenti e studentesse universitari under 30, che prenderà in esame i cinque testi finalisti del premio, decretati dalla giuria di esperti. Al comitato giovani sarà affidata la scelta di un’opera cui assegnare un premio in denaro.
La serata conclusiva e la cerimonia di premiazione della 3° edizione del Premio nazionale di drammaturgia Omissis avrà luogo nell’autunno 2025 presso il Teatro Bellini di Napoli.
Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti per garantirti la migliore esperienza sul nostro sito. Se continui ad utilizzare questo sito noi assumiamo che tu ne sia felice.
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. These cookies ensure basic functionalities and security features of the website, anonymously.
Cookie
Durata
Descrizione
cookielawinfo-checkbox-analytics
11 months
This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookie is used to store the user consent for the cookies in the category "Analytics".
cookielawinfo-checkbox-functional
11 months
The cookie is set by GDPR cookie consent to record the user consent for the cookies in the category "Functional".
cookielawinfo-checkbox-necessary
This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookies is used to store the user consent for the cookies in the category "Necessary".
cookielawinfo-checkbox-others
11 months
This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookie is used to store the user consent for the cookies in the category "Other.
cookielawinfo-checkbox-performance
11 months
This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookie is used to store the user consent for the cookies in the category "Performance".
viewed_cookie_policy
The cookie is set by the GDPR Cookie Consent plugin and is used to store whether or not user has consented to the use of cookies. It does not store any personal data.
Functional cookies help to perform certain functionalities like sharing the content of the website on social media platforms, collect feedbacks, and other third-party features.
Performance cookies are used to understand and analyze the key performance indexes of the website which helps in delivering a better user experience for the visitors.
Analytical cookies are used to understand how visitors interact with the website. These cookies help provide information on metrics the number of visitors, bounce rate, traffic source, etc.
Advertisement cookies are used to provide visitors with relevant ads and marketing campaigns. These cookies track visitors across websites and collect information to provide customized ads.