Armando Punzo, per un teatro oltre il logos

Mar 25, 2024

La prigione come metafora della condizione umana e il teatro come spazio di apertura alla dimensione che trascende il principio di realtà. Armando Punzo, regista e drammaturgo, fondatore della Compagnia della Fortezza nel carcere di Volterra, fa tappa a Ravenna il 22 e 23 marzo. Prima in dialogo con la giornalista e scrittrice Rossella Menna, co-autrice della sua autobiografia Un’idea più grande di me, edita da Luca Sossella Editore. Poi è in scena con una nuova edizione di Il figlio della tempesta, accompagnato dal musicista e sound designer Andrea Salvatori in una trascinante rivisitazione iconografica ed emozionale della sua esperienza nella Fortezza.

Un viaggio onirico, scandito da versi mordaci e intermezzi umoristici, con un pubblico confuso e divertito dalle sue incursioni verso gli spettatori e la scenografia surreale che rimarca la visionarietà del regista vincitore del Leone d’Oro alla carriera nel 2023. Suo il merito di aver iniziato per primo a praticare il teatro in carcere, nel 1989, quando a 30 anni e con un futuro incerto, decide di giocarsi il tutto per tutto in un laboratorio nel carcere di massima sicurezza della città toscana, diretto da Renzo Graziani. 200 ore iniziali che sono diventate 1500, poi una vita intera, come racconta durante l’incontro con Menna, convinto che “il teatro sia uno spazio dove si può agire con dinamiche inedite rispetto alla vita ordinaria”.

L’intento del suo teatro in carcere, quindi non è mai stato quello rieducativo, anche se questa componente del lavoro è presente e ha fatto scuola nel corso dei decenni. Troppo rassicurante; si legge infatti nel libro: “è mille volte più semplice pensare al teatro come strumento di rieducazione”. In breve come uno strumento che riattivi nella persona deviante gli elementi adattivi e lo faciliti nel trovare il suo posto nel mondo una volta espiata la pena. Aniello Arena, uno dei suoi detenuti a Volterra, è rimasto con lui 16 anni, ora lavora per Matteo Garrone. I suicidi e l’uso di psicofarmaci, secondo i dati forniti dai report dell’Associazione Antigone, sono allarmanti nella maggior parte delle carceri italiane, mentre a Volterra le percentuali sono scese sempre di più nel corso degli anni fin quasi ad azzerarsi. Ma le ricadute in termini di benefici sociali, appunto, non esauriscono il concetto di teatro portato avanti da Punzo che ha sempre dichiarato di avere scelto il carcere di proposito per sviluppare un teatro di ricerca.

La cella penitenziaria come “giardino incolto che attende di fiorire, di cambiare pelle”, infatti, non è solo il ristretto spazio materico in cui è confinato il recluso ma quello in cui più o meno consapevolmente dimora ciascun essere umano. “Nella nostra quotidianità – ha spiegato – ci pieghiamo a tutto, pur di soddisfare i nostri bisogni primari. Ma il teatro, che io intendo come faceva Jerzy Grotowski, al pari di una pratica spirituale, queste beghe non le accetta. Ci apre a una dimensione trascendente, che anticipa persino quella che è la narrazione ed è il miracolo di essere davvero presenti a se stessi. Quando accade ci si commuove, ci si diverte, si vive veramente”.

Fin dall’inizio, inoltre, Punzo ha rifiutato (ad eccezione de Il corrente del 1992) drammaturgie proposte da altri: “Le parole sono il mio punto di partenza e il mio strumento di lavoro, è inconcepibile che un altro le scelga per me. Devo scoprirle io, insieme agli attori, perché devo scoprire contemporaneamente cos’è uno spazio e cosa ci può avvenire dentro” (p.193). Da 35 anni, quindi, il processo creativo si dispiega nello spazio angusto di 3 metri per 9, in cui insieme si lavora per mesi, lasciandosi attraversare da un’idea “fino a sfuggire di mano a se stessi”, senza che in questo venga mai meno l’aspetto concreto del fare teatro: leggere, confrontarsi, parlare, ascoltarsi, fino a quando emerge la vera e propria epifania, l’intuizione che colloca ogni elemento nel posto e al momento giusto e lo spettacolo può iniziare a vivere come momento di condivisione e di attenzione collettiva.

Ma, chiede Rossella Menna, non c’è il rischio che il teatro in carcere, una volta istituzionalizzato, divori l’entusiasmo iniziale? Qual è il tuo rapporto con le istituzioni carcerarie? “Il rischio che ognuno rimanga chiuso nelle proprie esperienze c’è – risponde Punzo – . È un aspetto che spesso mi dilania; le istituzioni sono persone esse stesse e al contempo sono il ruolo che rivestono; i ruoli a volte sono a volte parti dell’essere senza luce. Per questo il rapporto può essere a volte un vero e proprio corpo a corpo. Ho dovuto travolgere chi mi ostacolava e viceversa sono stato travolto. Ma non è mai venuto meno il tentativo di relazionarmi con le istituzioni, di spiegarmi e di creare proprio attraverso l’arte, spazi di incontro in grado di contrastare la naturale chiusura che connota il penitenziario in senso fisico e figurato. Io ho avuto la fortuna di incontrare un direttore del carcere, Renzo Graziani, e un’amministrazione penitenziaria aperti alle mie proposte, ma a fine anni’80 il clima era comunque diverso e ci sono voluti almeno due anni per conquistarmi la fiducia sia degli agenti che dei detenuti”.

Dal primo lavoro andato in scena, nel 1989, La Gatta Cenerentola, sottolinea la Menna, fino al più recente Naturae la valle della permanenza nel 2022,c’è un percorso continuo di riscrittura della realtà e di rottura con il teatro di Shakespeare e dei classici. “Senza negare la grandezza di Shakespeare – precisa Punzo –  ritengo rappresenti una fase dell’umanità e che oggi sia necessario un superamento. Non si tratta più di narrare una storia, ma di essere tesi verso una direzione, senza credere che sull’uomo sia già stato detto tutto”. Shakespeare, si legge nel libro, “racconta la vita come un terrificante noviziato alla morte” tanto è definitivo il suo giudizio sulla natura dell’uomo. Così Punzo, dopo aver letto i suoi 36 testi teatrali e i sonetti, ne ha immaginato uno segreto, nascosto, cercato da chi come lui non si arrende a questa cupa visione antropologica ed è nato così Dopo la tempesta. L’opera segreta di Shakespeare del 2016, preceduto dallo studio Shakespeare Know well, sviluppatosi intorno a centinaia di frammenti di testo da cui Punzo ha sviluppato la visione di un’isola in seguito al fortunale.

Qui gli spettatori sono collocati su una passerella di legno mentre a fianco giace una collina di croci simile a quella della città lituana di Vilnus. Sono gli affanni, gli intralci, ma anche i simboli e punti di riferimento che sono il nostro rifugio e che il teatro del regista napoletano vuole scardinare. Ma anche in lavori precedenti come Hamlice e Mercuzio, sia pure mantenendo le strutture esistenti della narrazione shakespeariana, aveva raccontato il tentativo dell’uomo di affrancarsi dalle azioni già scritte, perché scaturite da una profonda conoscenza della natura umana, dal logos appunto. Per andare oltre, alla ricerca di un orizzonte altro, ignoto, ma non per questo più assurdo di quanto lo sia il rispecchiarsi in personaggi sanguinari e destinati ad entrare in guerra con se stessi e tra loro. Il rischio, ha detto ancora durante l’incontro, è quello di rimanere fermi evolutivamente, ripetendo sempre gli stessi errori, come ci dimostra l’attualità.

La presenza del bambino in scena nel finale di Dopo la tempesta indica proprio questo desiderio di dispiegare energie nuove, incontaminate nello sguardo, ma anche di scoprire spazi irraggiungibili dalla fagocitante realtà. Nel libro si racconta di quanto sia stato determinante in questa ricerca l’universo letterario di Borges, dove l’uomo sulla soglia “è l’esempio più preciso di cosa accade in chi vive una vera esperienza estetica”. Così come altri personaggi quali l’uomo grigio, l’antiquario sono figure che non appartengono all’immaginario collettivo. Le persone non vi si ritrovano, come avviene, al contrario, con quelle di Shakespeare. Ma ritrovarsi, ha spiegato il drammaturgo e regista, è un’esperienza rassicurante e in fondo, un autocompiacimento. Mentre io sono più attratto dall’esperienza del perdersi”. Un sogno, un incanto, ma anche la prefigurazione di un passaggio antropologico, dall’homo sapiens all’homo felix. Un altro aspetto che Rossella Menna ha messo in luce è stata l’evoluzione scenografica dei suoi lavori, come si evince confrontando gli scatti di Buscarino degli inizi, con corpi svestiti, tatuati, spesso con bruciature e cicatrici, con i sontuosi costumi e l’eleganza scenografica delle più recenti rappresentazioni. “Ad un certo punto – spiega Punzo – ho sentito il bisogno di far sparire i detenuti attraverso il costume, un’operazione estetica che mi ha permesso, paradossalmente, di liberare il loro corpo dalla prigione in cui il pubblico a fine spettacolo, sia pure in senso figurato, avrebbe voluto rimetterli. Per molte persone, infatti, assistere al loro spettacolo, per loro stessa ammissione, non era altro che voler vedere gli animali in gabbia. Molte di loro, poi, sono venute personalmente a scusarsi perché in realtà lo spettacolo a cui avevano assistito era tutt’altro”.

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