Un Arlecchino irriverente verso la società borghese, come lo ha voluto Goldoni, ma proiettato sul piano del metateatro e immerso nella contemporaneità italiana, quello ricreato e diretto da Marco Baliani e interpretato da Andrea Pennacchi, in scena al teatro Alighieri di Ravenna.
A un anno dal debutto, lo spettacolo, che quest’anno ha raggiunto le 70 serate in giro per l’Italia, continua a divertire il pubblico attraverso la parodia dei classici, Shakespeare in primis, nell’esilarante monologo di Arlecchino che si chiede “Servire o non servire?” e rimanda al riemergere di forme di schiavitù e asservimento sociale. Ma Arlecchino? è anche una sfida all’indimenticabile spettacolo di Giorgio Strehler, come ha raccontato Baliani all’incontro con il pubblico al ridotto dell’Alighieri l’8 febbraio scorso, sollecitato dalle domande e riflessioni dello studioso Gerardo Guccini. Se tanti infatti sono i registi che hanno reso popolare questa maschera della Commedia dell’arte, è stato quello innovativo di Strehler, il più longevo, con i suoi 50 anni di repliche al Piccolo di Milano.
Guccini, docente di storia del teatro e dello spettacolo al Dams di Bologna, evidenzia, a proposito delle due lettere che precedono il testo, quanto siano funzionali alla comprensione che esso procede su un duplice binario. La prima è scritta da Andrea Pennacchi al pubblico e la seconda da Marco Baliani alla compagnia di attori. Mentre Pennacchi pone l’accento sulla condizione di schiavitù che sembra ridiventata attuale oggi e su come il conflitto tra classi sia anche alla base della commedia goldoniana, la lettera di Baliani si concentra invece sulla dimensione laboratoriale che ha accompagnato il lavoro della compagnia sul testo.
L’Arlecchino sovrappeso con le sue goffe prestazioni e la sua ingordigia, l’improbabile travestimento di Beatrice nei panni del fratello creduto morto, l’irascibile facchino e cameriere di colore che parla in dialetto veneto, l’ironia di Smeraldina sull’infedeltà degli uomini. Un affresco irresistibilmente comico, farsesco, assurdo eppure rappresentativo di iniquità sociali e miopie culturali.
Arlecchino è stato scritto nel 1745 a Pisa, periodo in cui Goldoni lavora ancora come avvocato anche se si occupa da tempo di teatro. Acconsente a scrivere l’opera su richiesta dell’attore Antonio Sacchi (o Sacco), di dar vita a un canovaccio che esalti la sua personalità truffaldina e mordace.
“Quasi 280 anni dopo, nel 2024 – racconta Baliani – Andrea Pennacchi, attore tra i più amati da me, mi ha cercato per riportarlo in scena. Ho quindi voluto prima di tutto formare una compagnia di attori veneti, e la prima parte del lavoro si è svolto appunto su di loro. La scelta si è basata non solo sul talento ma anche sulla loro emotività, sulla capacità di relazionarsi tra loro e creare l’atmosfera briosa e leggera che avrebbero dovuto saper trasmettere al pubblico. Soprattutto ho scelto attori che sentissero l’urgenza e l’inevitabilità del loro essere attori, piuttosto che indirizzarmi su interpreti bravi ma freddi, proprio per il carattere ‘operaio’ che traspare da questo lavoro e di cui Pennacchi è maestro”.
Se l’Arlecchino di Goldoni, infatti, è già abbastanza scaltro da tenere il piede su due staffe servendo due diversi padroni di cui riesce a farsi gioco, quello di Baliani spinge affinché il mondo borghese così solido nelle sue opere venga disgregato dalla drammaturgia. Dove la figura del proprietario viene assorbito completamente dall’attore/operaio. L’operazione metateatrale della compagnia scalcagnata che viene ingaggiata dall’impresario Pantalone tramite agenzia interinale, per portare in scena la celebre commedia goldoniana, amplifica questo aspetto, “creando un gioco di scatole che è molto serrato all’inizio. Poi, man mano che si va avanti, si perde per diventare del tutto irriconoscibile, per volontà del regista, e questo significa che funziona”, come spiega l’attore Valerio Mazzacurato che in scena è Pantalone.
Stravolgere l’opera classica era fin dall’inizio nelle intenzioni, ha spiegato Pennacchi: “Andarci dentro, giocandoci, rompendola. È una cosa che ho imparato proprio qui a Ravenna: che i classici li puoi spezzare, rovesciare, stravolgere, perché se sono davvero classici rimangono in piedi lo stesso”. Se però è inevitabile, dice ancora Pennacchi, lottare contro la tradizione che soffoca i personaggi che vorrebbe far volare, questo stravolgimento non deve essere fine a se stesso. La commedia a teatro è una porta, oltre la quale c’è un pensiero”.
Ecco allora che i dialoghi traboccano di battute graffianti su immigrazione, razzismo, sfruttamento economico e disparità di genere, la parola dazi usata al posto della goldoniana dogane perché lo spettatore percepisca quanto il teatro sia sempre agganciato alla realtà contemporanea. “Non è più possibile – spiega ancora Baliani – fare teatro come nell’’800 o nella prima parte del ‘900, perché i tempi sono diversi e perché oggi se non hai la giusta recettività su quel che accade intorno, non puoi fare teatro”.

Insegnante di italiano come seconda lingua, formatasi all’Università per Stranieri di Siena, giornalista pubblicista iscritta all’Ordine laureata in Filosofia e Beni culturali all’Università degli Studi di Bologna, una grande passione per il teatro. Pirandello, De Filippo, Pasolini e le avanguardie del Novecento i preferiti di sempre.