Aria di Londra, bugie, videogiochi, killer senza una mano e ossessioni di famiglia: November Trend

Dic 17, 2018

Novembre, mese di intense emozioni, di prime nazionali e di messaggi dai risvolti sociali al Teatro Belli di Roma. Si sono determinate così le condizioni per riflettere su tematiche e miti dei giorni nostri. Presupposti che hanno dato la possibilità di riflettere per trovare similitudini e differenze tra palco e realtà. È emersa tanta vita nelle storie di donne e uomini, negli spettacoli andati in scena nell’ambito della rassegna Trend, nuove frontiere della scena britannica, a cura di Rodolfo di Giammarco.

Not Not Not Not Not Enough Oxygen - regia di Giorgina Pi

Not Not Not Not Not Enough Oxygen – regia di Giorgina Pi

Not Not Not Not Not Enough Oxygen di Caryl Churchill, in scena dal 13 al 15 novembre, interpretato da Aglaia Mora, Xhulio Petushi, Marco Spiga con la regia di Giorgina Pi, risulta quasi profetico e molto aderente con la quotidianità e con il crescente diramarsi di bollettini di allarme meteo. Il pericolo può arrivare, di volta in volta, da forti piogge che fanno ingenti danni o da raffiche di vento che spezzano in due alberi. Quella che nel 1971 aveva immaginato la Churchill, drammaturga di lingua inglese e scrittrice contemporanea, è una distopia, una società spaventosa ambientata in una Londra del 2010, denominata Londre. All’epoca ipotizzava scenari inquietanti per il futuro. Quarantasette anni dopo è un boccone troppo amaro da accettare e da mandare giù. Si coglie una dimensione politica in uno dei tanti effetti di distruzione di massa del capitalismo, del nuovo ordine e di quello che nel frattempo è diventato un vecchio disordine mondiale.

L’aria di Londre è irrespirabile e non è solo una metafora. All’esterno la concentrazione di anidride carbonica ha reso ancora più cupo il cielo londinese. Dentro piccoli e asfittici appartamenti monocamera, per poter vivere e respirare si spruzza l’ossigeno contenuto in confezioni spray per l’ambiente. Possono comprarle solo quelle persone che se lo possono permettere. Quasi come una droga, sicuramente una dipendenza per sopravvivere, effetto di una mutazione compiuta dall’uomo. La città non è afflitta soltanto dall’inquinamento. Il dislivello tra le classi di ricchi e di poveri ha determinato un irrimediabile abisso sociale, per le strade si aggirano orde di fanatici e rivoluzionari. In uno di questi monolocali avviene l’incontro, dopo tanti anni di separazione, tra Claude, famosa pop star e l’anziano genitore, il solitario Mick. Con loro c’è anche Vivian, quarantenne, vicina di casa balbettante che vorrebbe lasciare il marito per trasferirsi in quella casa, ma non c’è spazio né ossigeno per due, in quel perimetro minuscolo e ristretto. Il legame è stretto tra l’ambiente esterno e i mondi interiori, le emozioni, i sentimenti. Risultano inquinati anch’essi da quelle esalazioni tossiche. L’occasione è utile per fare il punto non solo sull’ecologia dell’ambiente, ma anche su una “ecologia dei rapporti umani”.

Ogni conseguenza nasce scaturisce da una causa, una sottotraccia che è la bugia. Mentire per l’essere umano è un meccanismo automatico come respirare. I bambini imparano presto a piangere e a dissimulare per conquistare l’attenzione dei grandi. Gli adulti imparano a mentire per una moltitudine di ragioni e di scopi. Lo fanno i politici, da sempre, e anche i mariti, le mogli, gli uomini e le donne di ogni società.

All The Things I Lied About ha avuto tre repliche al Teatro Belli, dal 16 al 18 novembre. È un monologo che ha vinto il premio Off West End del 2018 per la drammaturgia. L’autrice è Katie Bonna che è attrice, poetessa e scrittrice per il teatro e la tv. Il testo, di cui è stata protagonista e interprete Elisa Benedetta Marinoni, con la regia di Alessandro Tedeschi, provoca e intrattiene il pubblico suscitando divertimento e commozione. Nel testo vengono messe insieme e sviluppate tematiche come la violenza sulle donne e l’amore, la fedeltà e l’infedeltà. Tutto questo per costruire il teorema che la verità va contro gli istinti evolutivi della specie umana. Si può mentire per troppa noia o per il senso di colpa, per l’incapacità nel fare la cosa giusta o nel dire un semplice no. La bugia può agganciarsi fatalmente con la persuasione e la manipolazione dell’altro, fino a diventare aggressione verbale o violenza. I bambini e i ragazzi assorbono l’esempio degli adulti, sviluppando l’abilità ad alterare la realtà, ad ingannare e sopraffare l’altro come se fosse un nemico da abbattere, come se la vita fosse un film. Attraverso un processo di desensibilizzazione e training occulto, le nuove generazioni osservano e imparano, entrano in contatto con la realtà attraversando la porta della televisione e dei videogiochi.

La possibilità di trasferire la ferocia e la brutalità dalla finzione alla realtà è molto alta. To kill in inglese significa uccidere, Killology, il testo teatrale di Gary Owen, andato in scena dal 20 al 24 novembre, parla anche di questo. Di come un ragazzo finisce la sua giovane esistenza dopo lunghe torture, smembrato da una motosega tra le risate dei suoi pari, un branco assetato di sangue che ha deciso di divertirsi in un modo spietato, crudele, perverso. Killology è un videogioco, come viene raccontato nel testo, un nuovo e subdolo videogame che ha persuaso, plagiato e addestrato una generazione di piccoli mostri. Chi gioca ha come obiettivo principale quello di conquistare dei bonus che vengono semplicemente conquistati mediante la tortura delle vittime. In proporzione il punteggio aumenta tutte le volte che la creatività sadica è maggiore. Le fantasie più raccapriccianti nel gioco trasformano in eroe ogni potenziale killer. Questa è una distorsione sinistra con effetti non facilmente determinabili nella vita reale.

Owen è un drammaturgo gallese che, realizzando una carriera significativa, ha vinto numerosi premi. Ha dichiarato di avere scritto Killology sulla base di due spinte propulsive. La prima è stata determinata dalla lettura di un libro “On Killing” dove veniva analizzata l’influenza e i danni derivanti dalle rappresentazioni fittizie della violenza. La seconda, più personale e intima, è stato il suo mettersi in discussione come genitore e padre. Il cast formato da Stefano Santospago, Emiliano Coltorti ed Edoardo Purgatori è stato diretto dal regista Maurizio Mario Pepe. Grazie ad un lavoro di recitazione appassionato ed autentico, il pubblico, numeroso ad ogni replica, ha vissuto la potenza di quel carico emotivo che ha commosso, ma ha anche aperto una serie di riflessioni declinate secondo la sensibilità individuale.

A Behanding in Spokane. Con Denis Fontanari, Alice Arcuri, Carlo Sciaccaluga e Maurizio Bousso.

A Behanding in Spokane. Con Denis Fontanari, Alice Arcuri, Carlo Sciaccaluga e Maurizio Bousso.

La violenza può essere inquietante e al tempo stesso esilarante? Martin McDonagh è un drammaturgo controverso, britannico di origini irlandesi, che riesce a creare dei racconti intrisi di oscurità e umorismo nero. Un uomo bianco sta in una stanza d’albergo. Qualcosa graffia da una superficie, dietro una porta. Esasperato, apre l’armadio e spara con la sua pistola. Si siede sul letto e telefona con ansia alla madre che non ha risposto alle sue chiamate. Questa è la scena d’apertura della commedia A behanding in Spokane.

Carmichael, un sicario di mezza età, è alla ricerca della mano mozzata che ha perso molti anni fa. Incontra così una coppia di truffatori che sostengono di avere quello che lui stava cercando. Un ambiguo concierge, ex galeotto, completa il cast dei personaggi. Martin McDonagh ambienta negli Stati Uniti la sua opera teatrale che al Belli ha visto protagonisti, dal 26 al 28 novembre, Andreapietro Anselmi, Alice Arcuri, Maurizio Bousso, Denis Fontanari, diretti da Carlo Sciaccaluga che ha anche tradotto il testo. Le ossessioni del drammaturgo anglo-irlandese si rivelano in quella stanza di un hotel: violenza casuale e improvvisa, persone disperate e sentimentalismi inaspettati. Il ritratto che realizza McDonagh vede protagonisti persone vendicative, truffatori, razzisti quanto basta, disposti a correre rischi per fare soldi in modo facile e veloce, terrorizzati dall’assumersi la responsabilità delle proprie azioni e sotto sotto, forse, si considerano come degli eroi. È difficile non intravedere, da qualche parte, un tratto comune, vaghe somiglianze, un po’ di noi e di quello che sempre di più stiamo diventando. Come se quei ruoli ci facessero diventare un po’ carnefici e vittime a ruoli alterni. Il tempo passa, i ruoli cambiano e le persone diventano diverse versioni di se stesse.

Harrogate di Al Smith - regia Stefano Patti

Harrogate di Al Smith – regia Stefano Patti

Il debutto di Harrogate di Al Smith, per la prima volta in Italia con la regia Stefano Patti, dal 30 novembre al 3 dicembre, interpretato da Marco Quaglia e Alice Spisa, conclude la narrazione del mese di novembre trascorso a Trend. La storia è quella di un uomo di mezza età. È facile dire di lui che si nasconde dietro una maschera, ma in realtà sono più interessanti le dinamiche della sua lotta interiore, in modo neutro, senza giudizio alcuno.

Forse lui non sta camuffando qualcosa di sé, ma sta facendo i conti con lo scorrere del tempo, il suo passato e quello che non sa gestire più perché nel frattempo è cambiato. È ossessionato dai sentimenti nei confronti della figlia adolescente ed è praticamente estraniato dalla moglie, sia emotivamente che sessualmente. Brama il passato, quando la sua compagna era più giovane, più divertente e, in definitiva, più come la loro figlia che indossa la t-shirt nera dei Ramones. Una battuta recita: “Sogno te giovane. Quando sono addormentato sei giovane quanto la ragazza che ho incontrato.” Il gioco è diviso in tre scene che servono per mostrare le relazioni dell’uomo con le donne della sua vita. Al Smith ha dichiarato che Harrogate è “un gioco su una famiglia, su una crisi e sul controllo delle relazioni al suo interno”.

Vivere con un’ossessione rende le persone incapaci di occuparsi e di preoccuparsi di altro che non sia l’oggetto di quel desiderio. Liberarsene non è impresa facile, può avvenire solo quando si smette di alimentare i nostri incubi, le fissazioni e i tormenti interiori. In fondo poco cambia se si tratta di un impulso di violenza o di sesso, un istinto di sopravvivenza o la patologia nel dire bugie. Quello che forse accomuna tutta questa drammaturgia è la possibilità di entrare in contatto con la parte più mostruosa e angosciante che alberga in ognuno di noi per purificare o fare una tregua con il nostro spirito umano, quello più intimo e iconoclasta.

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