Di Nicolas Toselli
L’articolo fa parte del secondo numero della rivista “LO SCANDAGLIO” dedicato alla violenza in scena.
Questo corpo è un uomo è la formula che Lucia Amara ha selezionato per titolare l’antologia italiana da lei curata e tradotta dei Cahiers di Antonin Artaud. Edito da Neri Pozza nella collana La quarta prosa diretta da Giorgio Agamben, il volume raccoglie 21 dei 404 quaderni redatti da Artaud dal 1945 fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 1948 mentre soggiornava da un paio di anni a Ivry, presso la clinica diretta dal dottor François Achille-Delmas.
Evocando l’errore in cui possiamo imbatterci navigando sul web quando l’indirizzo digitato non è reperibile (error 404), il numero complessivo dei quaderni annuncia curiosamente la natura sfuggente del materiale di partenza – ogni tentativo di accostarsi alla figura di Artaud deve infatti preventivare un certo grado di insuccesso. Anche a questo problema sono dedicatela prefazione di Évelyne Grossman che inaugura il volume, Mangiare la lingua, e la seguente introduzione di Lucia Amara, Ceci n’est pas une traduction. Quest’ultima fornisce inoltre un’accurata descrizione del materiale manoscritto di partenza, insieme ai criteri adottati per operare la selezione e la traduzione dei testi nell’edizione italiana – comunque condotta sulla base delle pubblicazioni Gallimard comprese nelle Œuvres complètes: quella a cura di Paule Thévenin, Cahiers de Rodez e Cahiers du Retour à Paris (quaderni dal 1° al 232°); e quella di Évelyne Grossman, Cahiers d’Ivry (quaderni dal 233° al 404°).
Nella maggior parte dei casi, spiega Lucia Amara nell’introduzione, i Cahiers sono ordinari quaderni scolastici su cui Artaud scrive a matita o a penna, senza però rispettare l’ordine spaziale e progressivo che presuppone il formato: «non riempiva quasi mai la pagina di un quaderno per intero, e in certi casi ne scriveva più di uno alla volta e lasciava pagine bianche che riempiva successivamente; a volte cominciava il quaderno dal mezzo, e riprendeva in seguito per scriverlo dall’inizio».
Dalle testimonianze dirette veniamo a sapere che l’autore, nell’atto di scrivere, gesticolava, quasi danzava, mentre batteva «con un martello o un coltello su un ceppo di legno»; inoltre, «la scrittura tremolante tipica di molti quaderni fa pensare che spesso scrivesse anche in posizione supina, o nell’oscurità durante le ore notturne»; cosicché, i vari gradi d’intensità della scrittura, lasciano sul supporto cartaceo come una traccia sindonica del corpo dell’autore.
Occorre aggiungere che il testo è spesso intarsiato da disegni, figure antropomorfe, forme geometriche, ritratti e autoritratti; altre volte «si tratta di macchie di inchiostro nero e denso che conferiscono alla pagina uno speciale spessore, una consistenza materica che crea un rilievo sulla carta».
Descrivendo accuratamente gli originali Cahiers, Lucia Amara permette di figurarci la dimensione espressiva del materiale di partenza, che sembra veicolare non tanto un testo, quanto piuttosto l’ombra di un’esperienza, o, se vogliamo, il residuo di una performance teatrale. Per questa ragione, fin dalle prime pagine appare evidente che la riproduzione editoriale di un così singolare manoscritto nasca sotto il segno del fallimento, qualora per “riuscita” intendessimo una pubblicazione fedele in termini mimetici e rappresentativi.
Per quanto riguarda il problema della traduzione, i Cahiers sono redatti in un francese che si articola nei più diversi registri: dal filosofico allo scientifico, dalla coprolalia alla blasfemia, ma folgorati qua e là da frammenti di una lingua d’invenzione nei quali si possono rinvenire accostamenti ritmici di fonemi o segmenti di lingue naturali (il latino, l’italiano e, soprattutto, rileva Amara, il turco e il greco «parlati a casa Artaud»). Tra i due estremi del francese e della glossolalia, ricorrono, opportunamente segnalati dalla traduttrice, neologismi, onomatopee, omofonie e parole composte, «tutti stadi della parola, a volte non nettamente distinguibili tra loro, capaci di mettere in travaglio la lingua». Così, l’annosa questione intorno al tradurre come inevitabile tradimento, nel caso dei Cahiers risulta tragicamente aggravata.
Tuttavia, secondo una logica paradossale, l’operazione di Lucia Amara appare rigorosa, se consideriamo che, come ricorda lei stessa, quando Artaud si accingeva a stendere una versione francese di Theme with Variations di Lewis Carroll, dichiarava «Ceci n’est pas une traduction», in quanto l’impresa era volta a «raggiungere in spirito l’autore […] non nel seno di questa poesia ma nel seno della poesia». È dunque nella capacità di indicare i limiti dell’operazione editoriale e delle scelte di traduzione che la pubblicazione risulta accorta e rigorosa, confermando nella strutturale manchevolezza che la riguarda l’intuizione dello stesso Artaud vergata nel Quaderno 32 compreso nella raccolta: «La materia quando è buona è riluttante e rifiuta di compiersi finché il suo essere non sia soddisfatto, il suo essere corpo nella moralità».
Se finora abbiamo posto l’accento sui limiti connaturati all’operazione editoriale, è perché l’intera opera artaudiana, mirando a “essere corpo nella moralità”, si scontra ripetutamente con il fondo inattingibile del proprio proposito. Questa è infatti anche la parziale conclusione a cui giunge Jacques Derrida in Le théâtre de la cruauté et la clôture de la représentation, anteposto alla storica edizione Einaudi de Il teatro e il suo doppio, dove, dopo avere elencato il teatro certamente infedele alle indicazioni artaudiane, il filosofo francese conclude: «non si tarda a comprendere che la fedeltà è impossibile […] E da questo punto di vista non ci sarebbe da fare eccezione per i tentativi promossi da Artaud in persona».
Bisogna però osservare che proprio negli anni Sessanta, mentre Derrida pronuncia il suo discorso a Parma in occasione del XIV Festival internazionale del teatro universitario, si andavano affermando esperienze artistiche già introdotte al Teatro della crudeltà – basti citare il Living Theatre, il Teatro Laboratorio di Grotowski, Peter Brook, l’Odin Teatret e Carmelo Bene. Se consultassimo ora le indicazioni afferenti al linguaggio teatrale del Primo manifesto, le riconosceremmo infatti quali dati acquisiti di un certo teatro di ricerca consolidato e tuttora diffuso: l’immagine del geroglifico, che esemplifica un linguaggio scenico esprimentesi in formule che vanno oltre il binomio significante/significato, e quindi la rinuncia a un certo logocentrismo prevalente all’epoca di Artaud, è oggi una prassi espressiva, se non maggioritaria, riconosciuta istituzionalmente nella dicitura scrittura scenica.
Eppure sappiamo che, al di là delle contingenze tecnico-linguistiche, l’obiettivo polemico di Artaud è il teatro in quanto rappresentazione, il quale, ne era ben consapevole, scaturisce dal paradigma rappresentativo che informa l’intero complesso culturale dell’Occidente – politica, economia, arte, religione; ogni articolazione del vivere. Dal momento che «la vita intera nella sua illimitata pienezza appare inquadrata e circoscritta solo e soltanto nel teatro», usando un’espressione benjaminiana desunta dal Programma per un teatro proletario dei bambini, è questo il luogo strategico, anche secondo Artaud, di dove sferrare l’attacco al suddetto paradigma: «Il teatro non è mai stato fatto per descriverci l’uomo e quello che fa, ma per costituirci un essere d’uomo che ci possa permettere di avanzare sulla strada di vivere», Quaderno 119.
È per via dello specifico obiettivo polemico, e dell’apparato culturale e civile in cui prospera, che Derrida, sempre nella nota prefazione, indica essere «questa l’affermazione più ostinata di Artaud: la riflessione tecnica e teatrologica non deve essere trattata a parte. Il decadimento del teatro ha inizio senza dubbio nella possibilità di una simile dissociazione». È il problema della separazione e della conseguente organizzazione delle parti che attanaglia Artaud, e che in Per farla finita col giudizio di dio propone di risolvere “rifacendo” l’anatomia all’uomo: «Quando gli avrete fatto un corpo senza organi, / l’avrete liberato da tutti gli automatismi / e restituito alla sua vera libertà». Da questo testo destinato alla trasmissione radiofonica Deleuze e Guattari ricavano il concetto di Corpo senza Organi che, sottolineano, non ha come nemici gli organi in sé stessi, bensì l’organizzazione degli organi: si tratta di «strappare il corpo all’organismo», per costituire un piano d’immanenza dove il desiderio possa esercitarsi sperimentalmente e fluire senza interruzioni – scrivono in Mille piani.
Ma nella costruzione di un Corpo senza Organi occorre agire con prudenza, ovvero, diremmo con Artaud, «passo a passo e per gradi come un muratore davanti al suo muro o un contadino dietro il suo aratro», Quaderno 32. Nel teatro che l’ha reso celebre, crudeltà significa infatti «rigore, applicazione e decisione implacabile», ma è proprio da questa lucida operatività che scaturisce il sangue, nella misura in cui un teatro che sappia essere necessario, cioè vivente e non rappresentativo, comporta, come ogni vita, «la morte di qualcuno» – Lettere sulla crudeltà.
«Ma basta con la filosofia» (Quaderno 4). L’esempio concreto di un Corpo senza Organi ce lo forniscono gli stessi Cahiers, quaderni redatti in apparente disordine, un impasto grafico di scrittura e disegno dove confluiscono memorie e bestemmie, vette di umorismo, fonemi liberi e scritti teorici. Un testo indisponibile alla lettura lineare e sul cui corpo è stato impresso quello dell’uomo che l’ha prodotto. Come il CsO deleuziano sovverte il corpo sociale, i Cahiers sovvertono l’industria editoriale, mettendola nella condizione di ribadire i suoi limiti e la sua contingenza. Questa è anche la violenza che ogni nuova generazione di teatranti è chiamata a esercitare in nome di Artaud: lavorare a uno spettacolo che non si riduca all’organizzazione teatrale del proprio tempo.

La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.