A cura di Cecilia Cerasaro
Far scoprire agli spettatori e alle spettatrici una sensibilità nascente, l’approccio alla vita e all’arte di una nuova generazione teatrale che non può fare a meno di avvertire nelle viscere l’ingiustizia del mondo che la circonda: a questo contribuisce la rassegna Anni Luce nella sezione Powered by REf osservatorio sulle nuove drammaturgie in scena al Mattatoio, a cura di Maura Teofili. Si tratta di spettacoli pensati da artisti tra i venti e i trent’anni, nati da progetti ancora in nuce che la stessa Fondazione Romaeuropa si è preoccupata di prendere per mano e aiutare a crescere, finanziando la ricerca. Il pubblico può così oggi assistere alle opere di giovani performer, autrici e autori coraggiosi, che, nonostante siano spaventati dal cinismo del mondo, rimangono tenaci nel combatterlo. Grazie a questa spinta sono disposti a scavare nella propria biografia e storia familiare pur di mostrare in che modo le storture del contemporaneo.
In questa precisa direzione va La traiettoria calante, il monologo di Pietro Giannini. Il percorso di vita dell’attore-drammaturgo genovese sfiora per un soffio il crollo del ponte Morandi del 14 agosto 2018. Il fantasma di una terribile fatalità scampata finisce per trasformarsi in un pensiero fisso da cui prende le mosse il processo di documentazione e di indagine sulle cause – fisiche, tecniche e soprattutto morali – di quel cedimento del pilone 9, ma anche sulla crepa nelle fondamenta etiche di un intero Paese. Così la volatile paura di una madre che crede per due ore di aver perso l’unico figlio si addensa nella rabbia reale che spinge anni dopo questo figlio e giovane artista sotto i riflettori del Romaeuropa Festival, con l’intento di rendere noti i particolari di una tragedia perfettamente evitabile. Mentre sul fondo del palcoscenico scorrono in video per quasi un’ora e mezzo le immagini dell’autostrada che porta oggi al nuovo viadotto Genova San Giorgio, l’attore ricorda nomi e cognomi dei responsabili del disastro, le società coinvolte, gli errori di progettazione e costruzione, la mancata manutenzione, l’incuria e soprattutto l’avidità che hanno reso orfani figli e distrutto famiglie.
La traiettoria calante è prima di tutto una denuncia impietosa che, pur traendo origine da un doloroso ricordo personale, tenta di spiegare con semplicità e precisione il contenuto di quelle carte che per decenni avevano preannunciato il crollo. Il rumore del tritadocumenti che torna a distruggerle sul palco si fissa nella mente dello spettatore insieme alla verità ora rivelata. Giannini mette, la propria voce e il proprio corpo – ma anche l’umorismo nero figliodi una certa stand up comedy, il teatro di narrazione di Marco Paolini e il grammelot di Dario Fo – a servizio dei parenti delle vittime, consultati in fase di creazione dello spettacolo. Solo in questo modo, quando lo spettatore incontra i loro sguardi sullo schermo a fine serata, può rendersi conto di quanto sia fragile la barriera che separa il proprio destino dal loro.
Di un incontro mancato, nascosto tra le pieghe del passato della propria famiglia, racconta invece lo spettacolo di Giulia Scotti, Quello che non c’è. Daniela, una zia mai conosciuta, riempie con la sua assenza la scena e la vita dell’attrice per tutto il tempo dello spettacolo. Frammenti di racconti, presentimenti, e vuoti di memoria prendono forma grazie alle rare foto e ai molti disegni proiettati sul grande schermo bianco alle spalle di Scotti, surreale ambientazione della battaglia contro l’alcolismo che porta Daniela alla morte. La drammaturga, che non nasconde di aver pensato di raccontare la zia in un fumetto prima ancora che in uno spettacolo, è accompagnata sulla scena da personaggi immaginari appiattiti sullo sfondo. D’altronde figure bidimensionali, inevitabilmente, sono tutte le persone reali quando vengono raccontate da sconosciuti, sebbene appartenenti alla stessa famiglia.
Eppure queste assenze fremono per essere messe in scena, incalzano l’interprete attraverso le vignette, veri e propri agenti maieutici nella narrazione. Non tutto ciò che viene narrato è vero, su ammissione della stessa Giulia Scotti, ma ogni invenzione, ogni aggiunta personale risponde al desiderio ostinato di comprendere questa persona scomparsa e il dolore di chi resta. Anche in questo caso, la ricerca della testimonianza e l’esperienza in prima persona risultano fondamentali: l’autrice ci permette di entrare in un circolo di alcolisti anonimi dove ha cercato di comprendere il significato della dipendenza e soprattutto di ascoltare le proprie conversazioni con suo padre, la vittima collaterale che le è più vicina. In questo modo, mentre cerca sua zia, l’artista trova invece il padre, la fragilità di un uomo che porta una volpe affamata sul petto, un peso che la ragazza adesso può vedere e quindi condividere.
In una serata vanno in scena in uno stesso spazio due storie diversissime, accomunate solo dal bisogno interiore che ha spinto i due performer a sceglierle – o piuttosto ad accoglierle –, a studiarne per mesi ogni causa e risvolto emotivo, a riportarle alla luce affinché generino consapevolezza in chi le ascolta. In entrambi gli spettacoli viene dato al processo di ricerca e creazione dell’opera uno spazio eccezionale. Nella generazione dei ventenni e trentenni di oggi si scopre dunque la possibilità di una drammaturgia “hic et nunc”, che non può mai prescindere dal percorso che porta in scena l’attore-autore ogni sera, che non può acquisire consistenza se non in presenza del pubblico e grazie agli stimoli del reale. Per questo viene da chiedersi se spettacoli come questi possano un giorno andare in scena davvero come opere compiute e risolte, se la loro natura stessa non sia nel non-finito, nel work-in-progress che basta a se stesso. La loro più grande forza, d’altronde, sta nella vicinanza, emotiva quanto temporale, all’esperienza, al vissuto di chi sta in scena. Non possono passare troppi anni tra i fatti e la loro realizzazione poetica: non si può aspettare che termini il processo che accerterà le responsabilità nella vicenda del ponte Morandi, né che le vittime elaborino il lutto, né che Giulia Scotti possa dimenticare l’imbarazzo di quel pianto fuori luogo che l’ha travolta durante l’incontro con gli alcolisti anonimi.
Occorre che la fiamma non si spenga, che il pubblico avverta l’urgenza, che la ferita sia ancora aperta. Non è un caso che tanto Quello che non c’è quanto La traiettoria calante terminino con il sangue, ancora liquido e vitale, che bagna le mani e il corpo di due artisti di una generazione per cui riflettere non è più sufficiente: vuole sanguinare e far sanguinare.
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