Chi sono io se non sono io? Quando guardo il mio uguale a me, vedo il mio aspetto, tale e quale, non c’è nulla di più simile a me! Io sono quello che sono sempre stato? Dov’è che sono morto? Dove l’ho perduta la mia persona? Il mio me può essere che io l’abbia lasciato? Che io mi sia dimenticato? Chi è più disgraziato di me? Nessuno mi riconosce più, e tutti mi sbeffeggiano a piacere. Non so più chi sono!
Queste sono alcune delle domande che tormentano sia i protagonisti dell’Anfitrione, scritto da Plauto più di 2000 anni fa, che molti di noi oggi. Il doppio, la costruzione di un’identità fittizia, il furto dell’identità, la perdita dell’identità garantita da un ruolo sociale, sono i temi che Plauto ci consegna in una forma nuova, da lui definita tragicommedia, perché gli accadimenti riguardano dei, padroni e schiavi. In essa il sommo Giove, dopo essersi trasformato nelle più svariate forme animali, vegetali, naturali, decide, per la prima volta, di camuffarsi da uomo. Assume le sembianze di Anfitrione, lontano da casa, per potersi accoppiare con sua moglie, la bella Alcmena, e generare con lei il semidio Ercole. Giove-Anfitrione durante la notte d’amore, lunga come tre notti, racconta ad Alcmena, come se li avesse vissuti personalmente, episodi del viaggio di Anfitrione.
Durante il racconto il dio provò, per la prima volta, un’ilarità che poi si premurò di lasciare in dono agli uomini. “Abbandonato il regno delle metamorfosi, si entrava in quello della contraffazione” Incipit Comoedia (R. Calasso). “Aprite gli occhi spettatori, ne vale la pena: Giove e Mercurio fanno la commedia, qui” (Plauto). Da quel momento nelle rappresentazioni teatrali il comico e il tremendo avrebbero convissuto e avrebbero specchiato le nostre vite mortali ed imperfette. Dopo Plauto in tanti hanno riscritto l’Anfitrione e ciascuno l’ha fatto cercando di ascoltare gli stimoli e le inquietudini del proprio tempo. Ho provato a farlo anch’io.
Sei attori e un musicista per creare una coralità multiforme e tragica che però agisce come un contrappunto grottesco e farsesco in uno spazio che disegna doppi mondi: divino e umano. Un andirivieni continuo tra un sopra e un sotto, tra luci e ombre. Realtà e finzione, verità e illusione, l’uno e il doppio, la moltiplicazione del sé, l’altro da sé e il riesso di sé, si alterneranno in un continuo gioco di rimandi, attraverso la plasticità dei corpi degli attori, le sequenze di movimento, i dialoghi serrati e comici.
Teresa Ludovico
Quali rappresentazioni di classici sono rimaste particolarmente impresse nella tua memoria di spettatrice?
Da circa 45 anni sono spettatrice assidua di teatro, oltre che artista. Ho visto migliaia di spettacoli belli, sia in Italia che all’estero. Difficile scegliere! Ho visto al Globe di Londra uno straordinario Macbeth del Royal Shakespeare dove il pubblico, che di solito assiste in piedi davanti al palco, sbucava con la testa da un grande telo ed entrava al momento giusto nel dramma come un campo di teste mozzate! E un Otello, ambientato in una sala da gioco, con attori danzatori strepitosi. A Tokyo, un indimenticabile Amleto prodotto dal Setagaja Public Theatre, teatro dove ho lavorato per circa dieci anni, ambientato nel Giappone del periodo Edo.
Hai curato regie in Inghilterra e in Giappone: quali differenze riscontri tra la direzione degli attori in Italia e all’estero?
In Giappone il lavoro dell’attore conserva ancora una certa “sacralità” , nel senso che chi sceglie di fare teatro sceglie una “via”. Gli attori sono molto preparati, si allenano quotidianamente e si affidano al regista. Per noi occidentali questo “affidarsi” è spesso considerato debolezza o mancanza di personalità. Invece, a mio parere, questo lasciarsi andare, che ha origini nelle loro pratiche religiose e marziali, esprime forza, potenza, come quella dell’acqua che dolcemente si insinua in ogni dove e vince. Da 18 anni lavoro nel paese del Sol Levante e l’incontro con tanti straordinari artisti e maestri, di diverse generazioni, ha influenzato la mia poetica e visione del teatro. Negli ultimi dieci anni ho diretto diversi spettacoli in UK, prodotti dal Birmingham Repertory Theatre, e ho avuto la possibilità di lavorare con molti attori danzatori e acrobati inglesi. La maggior parte di loro era in grado di recitare, danzare e cantare e, spesso, anche suonare uno strumento. In Inghilterra il teatro si studia e si pratica sin dalle scuole materne e, inoltre, ci sono ottime scuole di recitazione che preparano gli attori per ogni stile di teatro. Gli attori sono ottimi professionisti che rispettano il regista. Dirigere gli attori italiani è un piacere, sopratutto, quando sono molto bravi, preparati e dotati di quel talento “tutto italiano”.
Il tuo Anfitrione è ambientato a Napoli nei giorni nostri, tra clan malavitosi e ritornelli neomelodici. Ritieni che l’attualizzazione sia un processo indispensabile nella riscrittura di un classico?
Un classico è tale quando, come nel caso di Plauto, dopo duemila anni ci pone domande che ci riguardano. Tuttavia un testo antico, per poterci parlare, ha bisogno di ritornare in vita e confrontarsi con il pubblico del nostro tempo. Anfitrione, nel testo originale, è un condottiero che uccide Elettrione, il padre della sua amata, appartenente ad una fazione avversaria, e poi la vuole in sposa. Nella mia trasposizione i fatti sono rimasti identici, il condottiero è diventato un malavitoso che invece di uccidere Elettrione con una spada ha usato una pistola. Di conseguenza anche la lingua, i costumi, la musica sono stati adattati al contesto .
Se dovessi dirigere un Anfitrione in Giappone o in Inghilterra, in quale contesto ambienteresti la storia?
Userei lo stesso contesto, perché l’ambiente malavitoso è uguale in tutto il mondo.
Non solo nello spettacolo trovano spazio il tormentone estivo Riccione dei The giornalisti e citazioni dal programma Made in Sud: in occasione di una replica per le scuole, chiacchierando con gli studenti nel foyer, hai rubato l’espressione “iè can” (“è bellissimo” in gergo giovanile, ndr) e l’hai inserita nello spettacolo: qual è il rapporto con il pubblico? Quale l’apporto, quali le reazioni? È lo spettacolo che deve andare incontro allo spettatore e, all’occorrenza, abbassarsi, o viceversa?
Anni fa ho frequentato un laboratorio di drammaturgia condotto da Antonio Tarantino, un autore che amo molto e che ho più volte messo in scena. Il maestro diceva che per costruire una lingua per la scena bisogna nutrirla di espressioni vive, gergali, di modi di dire e, a questo proposito, si annotava, ovunque andasse, espressioni tipiche e ci consigliava di farlo. Così faceva Plauto. Non ritengo che ci sia uno standard dello spettatore. Per me è importante contattare lo spettatore attraverso uno spettacolo vivo, uno spettacolo in grado di stimolarlo, di fargli sorgere domande, di provocargli dubbi e riflessioni, di renderlo partecipe di un rito collettivo.
[embedyt] https://www.youtube.com/watch?v=NWsQU3UFIsU[/embedyt]
Anfitrione
drammaturgia e regia di Teresa Ludovico
con Michele Cipriani, Irene Grasso, Demi Licata, Alessandro Lussiana, Michele Schiano di Cola, Giovanni Serratore
musiche dal vivo Michele Jamil Marzella
spazio scenico e luci Vincent Longuemare
costumi Cristina Bari
cura del movimento Elisabetta Di Terlizzi
assistente alla drammaturgia Loreta Guario
produzione Teatri di Bari