“Io sono dentro ognuno di voi”. Parola di Charles Manson, condannato quale mandante della strage di Cielo Drive, in California, che avviene tra l’8 e il 9 agosto 1969 in cui muoiono l’attrice Sharon Tate, 26 anni, incinta all’ottavo mese e altre 4 persone presenti nella villa. Alla controversa figura di Manson, musicista mancato, figlio di una prostituta, iniziato al crimine fin dall’adolescenza e fondatore della setta religiosa Manson Family, a cui appartengono gli esecutori materiali del pluriomicidio, Fanny & Alexander, compagnia teatrale fondata nel 1992 dal regista Luigi De Angelis e dalla drammaturga Chiara Lagani, hanno dedicato lo spettacolo Manson. Protagonista Andrea Argentieri, lo spettacolo è andato in scena al Teatro Rasi nell’ambito della Stagione curata dal centro di produzione Ravenna Teatro.
De Angelis e Lagani scelgono un impianto narrativo di forte impatto, un radiodramma sonoro in 3d che, nel buio della sala, scandisce sinteticamente le fasi in cui il delitto avviene, per poi consegnare la figura di Manson, seduto su uno sgabello e immerso nella potente luce rossa, al pubblico in sala, nella veste inedita di giuria postuma.
Anche questa volta, come già in I sommersi e i salvati, Argentieri si fa medium, corpo che viene attraversato dal personaggio. È il Manson istrionico, scomposto e ferino, farneticante, a volte grottesco, persino comico nelle sue smorfie. Iperbolico, capace di cambiare aspetto man mano che gli ci si avvicina, pericoloso, proprio in forza di questa ambivalenza perché capace di attrarre e disorientare.
Il pubblico dovrà fare a Manson le stesse domande che gli sono state rivolte nel corso delle interviste che ha rilasciato durante la sua lunga detenzione, durata 45 anni. Lui risponderà in lingua inglese, con il marcato accento dell’Ohio. Se le risposte di Manson-Argentieri saranno le stesse date quando lui era in vita, a cambiare sarà invece il modo del pubblico di stare a teatro. Attraverso le domande che pone, infatti, esce dalla modalità passiva tipica dello spettatore, ed è chiamato a interrogarsi esso stesso su ciò a cui sta assistendo.
La modalità interattiva, come dichiarato più volte da De Angelis e Lagani nel corso delle interviste in questi ultimi anni, permette a chi assiste di scegliere il modo in cui porsi di fronte allo spettacolo e al tempo stesso di essere consapevole dell’irrevocabilità di quel gesto, decidendo di porre una domanda anziché un’altra nella lista che viene consegnata agli spettatori prima dell’inizio dello spettacolo. Una decisione su cui non si potrà più ritornare. Si accentua così la dimensione di evento irripetibile.
Ma riguardo Charles Manson, che sfida rappresenta per un attore portare in scena un personaggio così oscuro? Ne abbiamo parlato con Andrea Argentieri.
Da quali fonti hai attinto per conoscere il personaggio di Manson? Libri, articoli di giornale, testimonianze, biografie…?
Andrea Argentieri: Lo spettacolo Manson è basato sulle interviste che Charles Manson ha rilasciato durante il corso della sua vita in carcere, quindi il mio principale materiale di studio sono state le sue interviste, ho osservato molti video e soprattutto ascoltato a lungo la sua voce.
In più mi è stata molto utile la lettura di Your Children, così intitolata la stesura della sua dichiarazione integrale al processo che lo condannò alla pena di morte il 25 gennaio 1971, che poi fu abolita nel 1972 dallo Stato della California, condannando Manson all’ergastolo. Oltre a questo testo ho letto anche Helter Skelter di Vincent Bugliosi, avvocato dell’accusa e Manson in his own words, libro scritto dallo stesso Charles Manson insieme all’autore Nuel Emmons.
Queste sono state letture salienti, ma il fulcro della mia concentrazione è stato rivolto all’osservazione e all’ascolto dei materiali video presenti su fonti on line, come ho già fatto per altri progetti di mimesi, come ad esempio Se questo è Levi.
Come ti sei preparato ad interpretare il personaggio? Ho letto che per la voce sei stato affiancato da un coach dell’Ohio e che hai seguito una metodologia Actor’s Studio per affrontare la parte. Quali le difficoltà, sia tecniche che psicologiche? In cosa ti sei sentito invece agevolato? Ad esempio avevi già recitato in lingua americana o inglese?
A.A.: Manson è nato grazie all’ospitalità e alla collaborazione di un luogo che ho nel cuore, l’ex Istituto Psichiatrico Paolo Pini di Milano, nel quale per oltre due settimane intense mi sono immerso nella grana della voce di Charles Manson. Questo con non poca difficoltà. Quando si affronta un personaggio del genere bisogna fare i conti non solo con lui, ma anche con se stessi. Dai primi ascolti della sua voce ho intuito subito che non sarebbe stato un attraversamento semplice.
Sarebbe stato facile saltare sul cavallo dell’istrionismo e fare il matto, specialmente durante i suoi momenti di euforia o agitazione, ma sarebbe stata una caratterizzazione, mentre la mia intenzione da subito è stata quella di lavorare sulla questione del bassorilievo, secondo cui mi faccio veramente tramite della voce di Manson connettendomi intuitivamente alla sua esigenza di parlare.
Nel momento in cui il corpo e la mente fanno spazio a un’altra voce succede una cosa strana: la voce cambia, il corpo si muove diversamente, ma senza una perdita totale del controllo. Avviene come una sedazione dalla quale appare Manson, ma in cui sono presente anche io e il risultato è simile a quello di una scultura nella quale le figure sono rappresentate su un piano di fondo con un rilievo ridotto rispetto alle sculture ad altorilievo e a tuttotondo.
Tramite il metodo dell’eterodirezione della compagnia Fanny & Alexander io ascolto la voce di Manson, e me ne faccio tramite all’istante sia fisicamente che vocalmente attraverso quella che io chiamo una possessione controllata. Questa volta al fine di avvicinarmi il più possibile alla figura di Manson ho anche cercato di modificare il mio aspetto fisico nella vita di tutti i giorni, facendo crescere barba e capelli e seguendo una dieta ferrea per perdere peso e impersonare al meglio un corpo abituato alla vita in carcere. La divisa da carcerato che indosso durante lo spettacolo è un dono dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini; era una delle uniformi che indossavano gli ex pazienti psichiatrici, questo per me ha avuto molto significato. Il viaggio di Charles Manson è un viaggio nella psiche.
Manson era una persona estremamente intelligente ed anche estremamente manipolatoria, sicuramente molto complessa mentalmente, anche per via delle esperienze di vita, per la sua infanzia e soprattutto per il carcere. Di termini a riguardo se ne potrebbero facilmente usare, come schizofrenico o bipolare, ma a me personalmente non hanno mai interessato le definizioni dirette della psiche umana, perché la reputo più ampia.
Ad ogni modo per me non è stato facile muovermi all’interno del suo labirinto, perché il rischio è che da un labirinto non è sempre facile uscire, ma in questo mi hanno aiutato le parole di un caro amico e bravissimo psichiatra che da anni lavora all’ex Istituto Psichiatrico Paolo Pini: Thomas Emmenegger, il quale afferma che del labirinto non bisogna avere paura, bensì accoglierlo. Dunque mi sono addentrato nel labirinto.
Sviscerare la lingua inglese è stato fondamentale. Al fine di incarnare al meglio il dialetto dell’Ohio, parlato da Charles Manson, ho avuto l’occasione di lavorare con un musicista americano, David Salvage, originario di quelle zone, e sua moglie Gabriella Gruder Poni, che mi hanno aiutato a muovermi nei meandri della lingua di Manson. Per fortuna l’inglese è una lingua che ho sempre sentito molto vicina per vari motivi e che ho sempre parlato fin dall’infanzia avendo anche parenti americani. All’inizio non è stato facile perché la lingua parlata da Manson non era proprio lineare, ma dopo poco non ho avuto problemi con l’aggancio mentale.
Che cosa rappresenta il personaggio di Manson nel tuo percorso artistico? Tu hai interpretato ad esempio Primo Levi, che al contrario è un personaggio di grande coraggio e forza per la sua testimonianza sulla Shoah: è importante per te la versatilità?
A.A.: Manson rappresenta una tappa fondamentale nel mio percorso artistico. Per fortuna è arrivato ad un punto della mia carriera d’attore e di performer in cui ho acquisito una consapevolezza scenica maggiore, perché per affrontare Charles Manson in scena bisogna essere molto saldi. Per me ha rappresentato il mettermi seriamente in gioco a livello psichico. La versatilità è molto importante. Sicuramente Levi e Manson sono due figure molto lontane fra loro, ma comunque affrontano un tema comune: il male, indagando e interrogando le forze che spingono l’uomo a commetterlo.
Vuoi descrivere le fasi della realizzazione dello spettacolo? Quale è stato il punto di partenza?
A.A.: Il punto di partenza è stata l’intuizione del regista Luigi De Angelis, che come nel caso di Se questo è Levi, ha capito che avrebbe potuto lavorare con me su Charles Manson. Insieme abbiamo deciso che non c’era altro luogo se non l’ex Istituto Psichiatrico Paolo Pini per farlo nascere. Abbiamo fatto una residenza dove abbiamo effettuato vari esperimenti fino ad arrivare al risultato finale, grazie anche all’intervento drammaturgico di Chiara Lagani.
Durante quel periodo la colonna sonora delle mie giornate era il White album dei Beatles, molto amato da Charles Manson, che ancora oggi ascolto in camerino in fase di preparazione prima di ogni replica di Manson. Lo spettacolo ha debuttato proprio lì, al Teatro La Cucina.
La parte interattiva dello spettacolo, con cui il regista De Angelis rende partecipe il pubblico con le domande in diretta, rende il lavoro ancora più difficile, perché immagino che le stesse domande vengano fatte ogni volta in ordine diverso…
A.A.: Per me fa tutto parte del vincolo di verità. Sono felice che il pubblico crei la drammaturgia delle domande a seconda di come se la sente, ogni volta l’andamento è diverso, proprio come se realmente Manson incontrasse una giuria diversa ogni volta.
Cosa dice il personaggio di Manson al mondo di oggi?
A.A.: “Am I responsible for your children?” (“Sono io responsabile dei vostri bambini?). Credo che Charles Manson potrebbe rispondere in questo modo a questa domanda. Ovviamente gli omicidi commessi dalla “Family” di Manson non possono essere trascurati e infatti è anche il punto di partenza dello spettacolo di Fanny & Alexander.
Lo scopo delle domande del pubblico però non sono solo le risposte di Manson, ma anche le risposte che diamo a noi stessi. Prima di diventare degli assassini i suoi seguaci erano i figli dei propri genitori, cosa gli è successo per commettere tali omicidi, e cosa è successo a Charles Manson? È lui il vero mostro? Dal labirinto di cui ho parlato prima ho appreso che è anche una questione di contesto e non solo del singolo individuo.
Fra l’altro per me c’è una grande riflessione sulla situazione delle carceri di tutto il mondo, Manson ci ha vissuto tutta la vita e sicuramente ciò ha condizionato la sua esistenza profondamente. A cosa serve veramente il carcere se vissuto come un luogo di sofferenza, tortura e perdizione fisica e mentale? Tutta questa sofferenza cosa genera veramente? In questo momento nel mondo stanno avvenendo vicende atroci, basti pensare ai conflitti in Libia, o la situazione in Palestina che sta raggiungendo delle vette di morti inaudite. Cosa stiamo facendo noi per impedire veramente tutto questo?
Qualsiasi crimine va condannato, ma purtroppo ce ne sono tanti nel mondo di cui i grandi potenti della terra non se ne stanno veramente occupando, o peggio ancora sono loro gli stessi artefici di tali atrocità.

Insegnante di italiano come seconda lingua, formatasi all’Università per Stranieri di Siena, giornalista pubblicista iscritta all’Ordine laureata in Filosofia e Beni culturali all’Università degli Studi di Bologna, una grande passione per il teatro. Pirandello, De Filippo, Pasolini e le avanguardie del Novecento i preferiti di sempre.