Articolo a cura di Carla Andolina
Altri corpi / nuove danze, edito da Cue Press nel 2019, «[…] si compone di tante voci e tanti sguardi» come preannuncia nei ringraziamenti Andrea Porcheddu, autore del volume, critico e studioso teatrale, realizzando una perfetta sintesi tra forma e contenuto di un testo avente la prerogativa di raccontare la diversità. Si tratta di un’antologia di saggi critici e interviste ad artisti, un percorso dal generale al particolare che approfondisce le ricerche in ambito di danza contemporanea portate avanti da e con performer con disabilità. Partendo dallo sguardo dello spettatore, per poi occuparsi delle testimonianze di danzatori normodotati che hanno ricercato nel campo, fino alle parole di performer con disabilità, si indaga la funzione del corpo nella danza contemporanea, cosa possa ancora comunicare e che coscienza abbia di sé. Per parlare di ciò, si parte per l’appunto dai corpi considerati diversi, non categorizzabili, anomali rispetto a una norma accademica, e dalla danza nuova che hanno sviluppato dagli anni novanta ad oggi.
Roberto Giambrone, critico di teatro e danza, nel saggio intitolato Il disagio di essere sani. Perché la danza ci aiuta a vivere meglio racconta della tendenza del nuovo secolo a riportare la danza a una realtà più quotidiana, non più appannaggio dei soli artisti, ma di corpi non convenzionali che hanno una forte necessità di portare nella scena le loro esperienze di vita. Nella sua testimonianza in conversazione con Flavia Dalila D’Amico, per esempio, Tanja Erhart – danzatrice disabile già membro della Candoco Dance Company – spiega quanto sia per lei catartico e autodeterminante concedere al pubblico di poterla fissare sul palco, permettendole di emanciparsi dai preconcetti che circondano la disabilità e la danza.
È il fondatore della stessa Candoco Dance Company, Adam Benjamin, ad affrontare il problema del pregiudizio nell’intervista di Doralice Pezzola. Nel 1991 crea insieme alla danzatrice Celeste Dandeker la prima compagnia di professionisti abili e non. In un panorama dove a essere applaudita era sempre l’intenzione e mai il lavoro coreografico, Benjamin esplora le possibilità di incontro tra corpi diversi che danzano insieme e sovvertono i ruoli convenzionali: dar voce a un performer disabile non significa scendere a compromessi con la qualità del lavoro.
Il punto di vista di Michela Lucenti, fondatrice della compagnia Balletto Civile intervistata da Porcheddu, è in questo senso trasversale. Partendo dal presupposto che ogni corpo sia in possesso di un certo numero di segni e problematiche, il lavoro con performer disabili è diverso solo in tempistica da quello dei performer normodotati. Per i primi, evidenziare la propria unicità è il solo modo di comunicare qualcosa, mentre i secondi devono combattere contro la tendenza a nascondere le peculiarità per rispettare un canone istituzionalizzato.
Flavia Dalila D’Amico, studiosa nel campo delle arti visive e performative, videomaker e redattrice, nelle sue interviste pone sempre la domanda: «Può la pratica artistica essere uno strumento di autodeterminazione per l’individuo in termini artistici e sociali?». La risposta è quasi sempre un sicuro sì. Come spiega la coreografa Yasmeen Godder, lavorare con il corpo fa emergere attitudini ed emozioni che influenzano la propria prospettiva sulla vita. O come risponde la performer Chiara Bersani, Premio Ubu 2018 come migliore attrice under 35, la pratica artistica presuppone un richiamo a confrontarsi con il mondo.
Un’altra tematica affrontata dal testo è il problema legato alle carenze di accessibilità per performer disabili. Oltre alle immaginabili barriere architettoniche che rendono inaccessibili ancora molti edifici, anche lo spazio scenico avrebbe bisogno di essere incluso nel piano di accessibilità, immaginando un palco, una platea e un dietro le quinte adatti a diverse circostanze.
Altri corpi / nuove danze è un’analisi di quello che la scena contemporanea ci offre, affiancata anche da un ricco compendio di titoli utili ad approfondire il tema a fine libro e una folta galleria di immagini. Un ottimo modo per avvicinarsi alle realtà italiane ed estere che da anni ricercano la materia della danza in quanto comunicazione tra corpi diversi, intrattenimento e condivisione.
Pezzola: Abbiamo bisogno di parole nuove per confrontarci con la diversità?
Benjamin: Non so. Penso però che abbiamo bisogno di una nuova educazione e di un modo nuovo di insegnare. Ci sono molti buoni esempi in questo senso, ma viviamo in un momento in cui l’educazione sta diventando sempre più conservatrice. Non so cosa succeda in Italia, ma nel Regno Unito gli insegnanti subiscono sempre più pressioni perché seguano un determinato programma di studi, e hanno sempre meno tempo a disposizione per incoraggiare nuove modalità di pensiero. Invece, abbiamo bisogno di trovare modi nuovi per insegnare l’empatia. Non attraverso i libri, né attraverso i computer: possiamo insegnare l’empatia solo condividendo lo stesso spazio in tempo reale con persone reali. E le scuole dovrebbero riconoscere questa necessità, rendendola centrale nel percorso educativo. Ma è molto difficile sostenere questa causa, sia nelle scuole che nelle università.Pezzola: Quale potrebbe essere la specificità della danza in questo processo? Benjamin: Quando pensiamo alla danza, di solito ci riferiamo alla danza contemporanea o al balletto. Ossia, alla danza come tecnica. È affascinante, invece, notare quanto la danza contemporanea più recente sia incentrata su come comunichiamo o non comunichiamo. L’allenamento di questi danzatori è spesso molto prescrittivo, hanno studiato duramente la tecnica, e alla fine vogliono lavorare su come «essere differenti». Per nove anni ho dialogato con il sistema universitario ma, appena un anno dopo che me ne sono andato, ho incontrato i miei studenti e mi hanno detto che non facevano più improvvisazione. Certo, l’improvvisazione, così com’è concepita, spesso non insegna molto: insegna invece quando abbiamo a che fare con differenze reali. Ed è qui la bellezza dei lavori inclusivi. Quel che succede, infatti, è che le persone sono costrette a ripensare, a riconsiderare, a guardare alle loro azioni in relazione a qualcosa di reale, piuttosto che, per esempio, fare cose strane, guardare strani edifici per elaborare forme strane, o tentare del floorwork con un oggetto. Anche se ci sono poche persone in grado di praticarla veramente, l’improvvisazione è per me uno strumento di insegnamento straordinario: può dare indicazioni meravigliose non soltanto ai danzatori, ma a chiunque.
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