Articolo cura di Cecilia Cerasaro
Non sono passati nemmeno cinque minuti dall’inizio di Affogo e già in sala, allo Spazio Diamante, anche lo spettatore più serio si ritrova a galleggiare leggero fra le risate poco timide di un pubblico molto divertito. L’ilarità è presto spiegata: sul palco Mario Russo, nei panni di Nicholas, sta urlando improperi nel tentativo di convincere una papera di pezza a trattenere il respiro sott’acqua. A sostenere la comicità della scena è il marcato accento lucano, che accompagnerà l’attore per tutta la durata dello spettacolo e che aiuta a collocare gli eventi nella propria ambientazione. Assistendo a questa scena grottesca è difficile rimanere lucidi, viene naturale ignorarla. L’onda di inquietudine, piano piano, dall’epicentro della vasca da bagno piazzata proprio in mezzo alla scena semibuia, si allarga in silenzio, senza lasciare vie di fuga.
In Affogo, una delle tre opere della Trilogia dell’odio, il drammaturgo e regista Dino Lopardo racconta la storia di un’infanzia passata tra le corsie di una piscina comunale, esperienza quotidiana che trova con facilità dei termini di confronto nella mente dello spettatore. Eppure, mano a mano che Nicholas nella cornice del proprio bagno rievoca la lordura materiale e morale di quel centro sportivo pubblico, chi ascolta è indotto a cancellare i falsi ricordi di un’infanzia paesana spensierata, che ora si è costretti a smettere di idealizzare. Ha inizio un cammino verso la disillusione, tanto che quando infine la piscina compare sulla scena, maestosa e limpida come non ci si aspetterebbe, sembra già di poterne sentire la puzza.
D’altronde chi guarda si deve abituare in fretta a una comicità grossolana e fisica da commedia antica, fatta anche di cattivi odori, volgarità, turpiloquio. Dino Lopardo riesce ad appropriarsi dell’umorismo scorretto quanto piatto di una certa tv spazzatura e a riutilizzarlo con fini artistici, infondendo nuova profondità a questo humour nazionalpopolare. Così quei personaggi che ci hanno insegnato a considerare con sguardo bonario come esempi di un’italianità provinciale verace e politicamente scorretta – la zia manesca, il sindaco ladro, l’insegnante di nuoto che si diverte a denigrare i ragazzi – tornano a mostrarsi con l’aspetto demoniaco che non hanno mai voluto tenere nascosto.
Sguazzando nella sicurezza di quel bagno che un tempo è stato il rifugio prediletto del protagonista e del fratello minore, Nicholas rivela tutta la miseria umana di una comunità di cui è disposto a prendersi gioco e a far ridere con amaro cinismo. Sembra divertirsi a scimmiottare i suoi tormentatori di un tempo, a mostrare i muscoli ai bambini che un tempo lo deridevano perché grasso. Pare anche prenderci gusto nel rivelare segreti imbarazzanti e scabrosi, nel descrivere la zia macellaia mentre sgozza un pollo e lo eviscera con lo stesso sadismo con cui alza le mani sui suoi nipoti, oppure il campione di nuoto fallito divenuto istruttore che si apparta con i ragazzini. Ma non c’è serenità in questa gioia, solo ferocia, come non c’è perdono per la violenza – fisica, sessuale e psicologica – subita. Bisogna squarciare il velo di un’ironia forzata ed ecco apparire, alle spalle di Mario Russo, un silenziosissimo Alfredo Tortorelli nei panni cangianti di uno spettro del passato.
Questi di volta in volta, fra i vapori della vasca, prende le sembianze degli zii obbligati a prendersi cura di questi bambini che non amano, di meschini bulletti di quartiere o dello schivo fratello minore, che domina la scena con la sua assenza. Sembra infatti riferirsi proprio a lui e al tragico incidente che, come si lascia intendere, lo ha coinvolto il titolo di questo dramma dall’ironia malata. È qui che si svela la crudeltà di questa vicenda, quando il protagonista si trova costretto a rivolgere verso se stesso tutto l’odio per l’ambiente in cui è cresciuto e a cui suo malgrado ora assomiglia. Il nero sospetto che colpisce lo spettatore mentre la sala si svuota è che sia stato proprio Nicholas, educato alla violenza e alla mancanza di considerazione per l’altro, a provocare la morte dell’amatissimo fratellino.
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