Antigone arriva prima di Socrate. «Se la questione è grande, irrisolta, appartiene al teatro. Se una questione è risolta, invece, si può scrivere un saggio». Le parole sono quelle di Giovanni Maddalena, filosofo teoretico e drammaturgo, che poco più di un mese fa, il 12 novembre, alle Fonderie Limone di Torino, ha visto debuttare Acqua. Un atto unico scritto dallo stesso Maddalena, da Giampiero Pizzol e da Nicola Abbatangelo che ne ha firmato anche la regia, e portato in scena da Compagnia Bella.
Disinformazione, ideologie, alcuni temi universali emergono dai dialoghi di nove personaggi in scena: nove esponenti di una comunità minacciata dall’acqua, dentro la cornice di una commedia che diventa tragedia. Gli stili si ibridano, si mescolano e cambiano pelle sotto gli occhi degli spettatori: proprio nella mutazione retorica delle nostre personali convinzioni, che facilmente si trasformano in ideologie, false credenze, fake news. Tanti i fili che si intrecciano in questo lavoro sulla complessità, la disinformazione e la violenza sociale, ne abbiamo parlato con Giovanni Maddalena e Nicola Abbatangelo.
Giovanni Maddalena: Io sono un filosofo teoretico quindi solito e in genere mi occupo di logica e metafisica – ha spiegato Maddalena – e i temi che ho affrontato nel testo hanno molto a che fare con gli argomenti oggetto dei miei studi. Ma arrivi a un certo punto nel quale ti accorgi che non si tratta solo di spiegare certe dinamiche, ma occorre riproporle così come sono.
Ecco perché dalla forma alla sostanza, era impossibile esprimersi in senso lineare.
G.M.: Penso che la prima sfida affrontata con questo lavoro sia stata proprio l’ibridazione dei generi, una cifra stilistica che a me piace molto e credo sia stato quello il punto di vista del pensiero drammaturgico che ho posto alla base di Acqua. Ovviamente non l’ho fatto solo per mettere insieme dei generi stilistici, ma perché penso fosse molto funzionale a rendere efficace il contenuto in cui si radica il lavoro. Il nostro obiettivo era quello di lanciare una riflessione sulla formazione e di piccole e grandi ideologie a cui tutti partecipiamo e come queste possano diventare delle gabbie mentali, concettuali ed esistenziali delle quali, alla fine, ci si ritrova a essere schiavi. Sempre sullo stesso piano, abbiamo inserito l’antidoto a questo recinto mentale. In particolare il motivo per cui si resiste all’ideologia è il cuore. Nel racconto, le maschere di una commedia che diventa tragedia, non resistono alle ideologie le persone più intelligenti, ma quelle più affettive.
Le ideologie che conquistano il cervello e il cuore dei personaggi non sono altro che le trappole quotidiane per ogni uomo.
G.M.: Come studioso di Vasilij Grossman e di altri autori che ho studiato, ho sempre indagato come proprio l’ideologia sia una delle tentazioni perenni di ogni uomo. Ma solo il teatro poteva rendere efficace il conflitto che c’è dentro l’anima e la ragione di ciascuno.
Il teatro che emerge in questa tensione interiore diventa in qualche modo anche più forte ed efficace del contrasto tra le classi che si ritrovano costrette, nella piccola comunità, a risolvere le loro differenze di poteri. Saranno i notabili e cittadini, in un lavoro che, appunto, è un po’ commedia, un po’ tragedia e un po’ musical a lasciar emergere le contraddizioni e i limiti umani. Ma in tutto questo, perché non riproporre l’incrocio delle questioni sotto forma di saggio?
G.M.: Penso che su tutte le grandi questioni, nasca prima il teatro poi il ragionamento nel senso che la rappresentazione teatrale secondo me è la forma che assumono problemi di questa portata immensa quando per l’appunto non si hanno ancora le soluzioni. Quando ci sono le soluzioni, allora si può scrivere un trattato filosofico, uno studio analitico, filosofico, di logica, di metafisica, di morale. Se non ci sono soluzioni la forma più efficace è la tragedia. Solo il teatro può, nella sua complessità, restituire il cuore della vicenda, di questa come di altre che sono i grandi temi della vita umana. Nel nostro caso si doveva restituire la tendenza a essere ideologici, così come il desiderio del bene e l’inevitabile caduta nel male.
Nell’ibridazione dei linguaggi che rendono la complessità del reale e dell’ambito che Acqua vuole investigare, Nicola Abbatangelo ha curato la regia. E anche per lui è stato uno scarto di lato rispetto al suo ambito di attività principale, quello della regia cinematografica.
Nicola Abbatangelo: Oltre a riprendere una passione che ho sempre avuto: quella per il teatro, sentivo che il teatro potesse esprimere una forza maggiore rispetto al cinema. Stavamo raccontando una storia che ti parla di dinamiche personali, di nascita di un’ideologia, dove tu a un certo punto ti giri e quello che era il marito o la moglie, improvvisamente può diventare il nemico. Avere tutto vicino, dai personaggi agli stessi altri spettatori che assistono allo stesso racconto diventava davvero un’esperienza molto forte.
Acqua ha dimostrato la sua efficacia nell’entrare dentro le contraddizioni di ognuno, negli interstizi, fin dalle prove aperte.
N.A.: Da quando ho letto il testo di Giovanni Maddalena, con cui condivido l’amicizia da tanti anni, sono stato molto colpito dalla potenza del racconto da un punto di vista visivo, ma allo stesso tempo rappresentava perfettamente le dinamiche che subiamo tutti i giorni. Ecco perché da subito, al contatto col pubblico abbiamo percepito come le persone fossero colpite dalla nostra storia a diversi livelli.
Con nove personaggi in scena, poi, c’è stato il lavoro di messa in scena: quella che richiede attenzioni e limature continue.
N.A.: Il lavoro sul testo è continuato anche durante le prove perché con nove attori in scena era necessario combinare gli archi narrativi di tutti i personaggi gli archi dei personaggi e le dinamiche relazionali tra di loro.
E così la commedia che scivolava in tragedia, ha proseguito la sua metamorfosi narrativa nel teatro dell’assurdo, senza disdegnare qualche digressione nel musical. E tutto questo è diventato Acqua.
Scrivo un po’ per dare notizie e un po’ per raccontare storie. Insegno al master in giornalismo dell’Università di Torino, ho imparato alla scuola civica Paolo Grassi.