Sopraggiunta la notizia della morte di Patroclo per mano di Ettore, Achille esplose in un pianto straziante e così, dalle tende, le donne escono fuori, disponendosi in cerchio intorno ad Achille. Gridano e piangono, con lui, si battono il petto.
[…] Una nube di strazio, nera, lo avvolse:
con tutte e due le mani prendendo la cenere arsa
se la versò sulla testa, insudiciò il volto bello;
la cenere nera sporcò la tunica nettarea;
e poi nella polvere, grande, per gran tratto disteso,
giacque, e sfigurava con le mani i capelli, strappandoli.
Le schiave, che Achille e Patroclo s´eran conquistati,
straziate in cuore, ulularono, corsero fuori
intorno ad Achille cuore ardente; e con le mani tutte
battevano il petto; a tutte, sotto, le gambe si sciolsero.
(Iliade, XVIII, vv. 22-31; trad. di Rosa C. Onesti)
Tutti, nel corso dei millenni, hanno pianto: divinità e profeti, eroi mitici e gente comune. C’è chi trattiene le lacrime, chi non riesce a controllarle e chi se ne serve per allentare le tensioni. Il pianto è il modo in cui l’umanità esprime i propri sentimenti, le emozioni e la fragilità nei confronti del grande mistero della vita e della morte. Dal verbo latino “lugere” che significa “piangere” deriva la parola “lutto”.
Del pianto e dei rituali intorno al lutto parla Stuporosa, un progetto composito, con linguaggi diversi, al quale Francesco Marilungo – performer, autore e coreografo – ha iniziato a lavorare in piena pandemia.
«In quel momento siamo stati messi a contatto con la morte in maniera abbastanza cruda e così ho riletto Morte e pianto rituale di De Martino perché secondo me era urgente la necessità di un rito funebre nel momento in cui veniva privata la possibilità di elaborare il lutto attraverso i codici tradizionali. Mi ha molto colpito il racconto di un’immagine, delle persone anziane che morivano da sole con in mano le foto stropicciate dei nipoti o dei figli».
Questa è stata la spinta da cui ha avuto origine Stuporosa. Non un’esperienza personale specifica o, meglio, non solo una pratica personale, ma una pratica condivisa.
«Credo che l’arte abbia anche una valenza politica e sociale, deve indurre a riflettere, a porre delle domande, deve problematizzare. Ho iniziato nel 2020 a leggere testi sull’argomento, sui rituali funebri sia nelle popolazioni primitive che contemporanee e da lì è iniziata tutta la ricerca teorica. Ho proposto il progetto a Korper, l’associazione che mi produce, e il direttore artistico Gennaro Cimmino ha espresso il suo entusiasmo sul tema. Dopo un anno di studio teorico è iniziata la ricerca in sala per tradurre il tutto il materiale artistico».
Stuporosa è un progetto nato con l’idea di realizzare un lavoro corale, con più corpi in scena – il coro – e con una cantante –il corifeo – integrata con il contesto e con il tessuto drammaturgico. Il canto è una componente fondamentale del lamento funebre.
L’incontro con Vera Di Lecce
«Ho iniziato la ricerca di una cantante che sapesse adattare i lamenti funebri in chiave contemporanea, con la musica techno, con la trance.
L’incontro con Vera è stato un incontro casuale e magico; sembrava che io avessi scritto un progetto per lei. Come se una congiunzione astrale mi avesse permesso di incontrare la persona giusta nel momento giusto. Un giorno sono andato ad un concerto di musica elettronica con una mia amica e un suo amico, il quale era il manager di Vera. Parlando con lui mi ha suggerito di incontrarla. Ho fatto una residenza estiva in Salento e così, in quella occasione, l’ho invitata a venire.
Appena l’ho vista, ho capito che era lei la persona che stavo cercando. Mi ha raccontato che i suoi genitori lavoravano nell’ambito teatrale e si occupavano di tradizione, di canti e danze salentine. Erano una sorta di etnomusicologi, elaboravano i dati che avevano ricercato nel loro territorio in danze e in performance. Vera, nel suo progetto musicale, porta avanti una contaminazione tra tradizione e contemporaneo, elettronica e tradizione. In più danza: sua madre le ha insegnato e trasmesso il patrimonio di sua conoscenza, la pizzica pizzica e altre danze tradizionali. Sul palcoscenico Vera è colei che dirige il rituale coreografico attraverso la musica, il canto e i gesti; è una figura centrale».
«Figlio, perché piangi?»
Stuporosa si avvale di una eccezionale troupe de danse, quattro anime elettriche che incarnano un modello di comunità: Alice Raffaelli, Barbara Novati, Roberta Racis, Francesca Linnea Ugolini. Indossano abiti sontuosi, creati da un collettivo di stilisti milanesi chiamato Lessico Familiare che hanno ripreso un po’ l’abito da lutto vittoriano. Con quelle vesti e sottovesti, veli e velette, le danzatrici-performer camminano, rimangono immobili, cadono, si rialzano, si bagnano il viso, compongono figure, si avvicinano, si allontanano, piangono
Come Achille, il quale si isola per piangere sulla riva del mare, guardando i flutti, e per invocare la madre, Teti, la più bella tra le Nereidi, le ninfe del mare, la quale lo raggiunge, si siede accanto a lui e lo accarezza e gli chiede: «Figlio, perché piangi? Quale dolore ti ha invaso il cuore? Parla, non celarlo […]»
Il Professore di studi classici dell’Università di Edimburgo, Douglas Laidlaw Cairns ha indagato sulla stretta analogia tra la separazione spaziale e la funzione culturale del velamento. Coprirsi con i veli del lutto è un dato, un elemento chiaramente osservabile dal pubblico, ma è nella drammaturgia che avviene un riscontro simbolico. Ricorrendo a una dimensione fortemente iconica, Francesco Marilungo ha interiorizzato un modello compositivo, una drammaturgia ripetibile, utile per mettere lo spettatore nella condizione di porre a sé stesso la domanda «Perché piangi?». Mediante un setting tragico, reiterato con schemi, movimenti e lamentazioni. La ripetizione di gesti viene prima della ripetizione delle litanie. Il silenzio, prima dei suoni.
«De Martino – dice Marilungo- parla di concentrazione sognante, che è la condizione per entrare in un altro tempo, quello del sacro. Un tempo sospeso, diverso. L’intento della performance è quello di fare entrare in questo tempo sospeso anche il pubblico».
La sospensione, la dilatazione del tempo
«Quello che abbiamo cercato con Stuporosa è un tempo rituale, un tempo altro che richiede al pubblico un’attenzione e una concentrazione maggiore, fondamentali per entrare nel rituale del lavoro. Non è casuale che ci sia una prima parte completamente in silenzio e i corpi si frammentano come se fossero sulle tracce di un’antica memoria, nell’atto di recuperare antiche figure archetipiche che tornano anche nell’arte, nell’ iconografia del dolore. I gesti che vengono ripetuti sembrano appartenere ad un contesto quasi religioso ed è quello il momento che secondo me dovrebbe condurre a un tempo sospeso.
Una volta entrati nel lavoro, si entra nel flusso. Tutto quello che avviene in scena sono continui tentativi di sostenere il singolo nel momento della crisi. Un po’ come avviene nella comunità. Il silenzio, la dilatazione del tempo e la “concentrazione sognante” di cui parla De Martino devono averla sia le danzatrici in scena che il pubblico. Magari qualcuno potrà non entrarci o entrare più tardi, ma questo aspetto per me è fondamentale».
In questo stato di sospensione temporale e di concentrazione sognante è possibile riscoprirsi, come Achille, vulnerabili. È probabile che si affrontino le mostruosità del destino e della propria anima, facendo attenzione a non diventare la metamorfosi di tutti quei mostri incontrati. È prevedibile, infine, accettare la condizione di umanità tra dolore, gioia, amore e morte. Stuporosa si nutre di umanità, Francesco Marilungo ha raccolto in un lungo arco di tempo tante testimonianze, aneddoti, suggestioni, racconti di persone che hanno vissuto quei rituali antichi.
Può essere definita scienza la coreografia? Il nesso con l’antropologia
La danza non è solo pratica corporea ma è anche oggetto di studio nel campo dell’antropologia medica e culturale. L’essere umano è il nesso con la scienza, la disciplina che studia l’essere umano. Il corpo viene considerato come soggetto di conoscenza e (non solo) come oggetto di narrazioni sociali, nel lavoro di Francesco Marilungo.
«Ho un approccio scientifico alla teatralità, al lavoro sul corpo. La terminologia che utilizzo quando lavoro è scientifica, legata alla fisica pura, ai corpi che cambiano stato, alla transizione di materia, la materia che diventa altro. Trattare i corpi come materia fisica significa capire come plasmarli. La ricerca, per me, sta nel trovare la modalità per effettuare questa trasformazione, ma è anche tradurre i concetti in forma artistica. Per me ci deve essere una connessione poetica con la teoria.
Nel caso di Stuporosa il nesso consiste nel concetto di mimesi del dolore, la base del lamento funebre, utilizzato senza cadere nel pathos eccessivo e cercando una sorta di stilizzazione del dolore. Mi sono agganciato alle Pathosformel, delle figure di dolore archetipiche tramandate nei secoli. L’essere umano ha manifestato i sentimenti In un modo identico nel corso del tempo. Le forme del dolore sono state codificate, a livello iconografico, nella storia dell’arte.
Siamo partiti da queste forme del dolore basate sul concetto di mimesi e da come il corpo poteva avvicinarsi a queste forme. Abbiamo individuato quella che abbiamo chiamato “qualità della memoria del corpo”, tramite una frammentazione anatomica del corpo, isolando parti specifiche di esso. La forma ritrovata nel processo mnemonico, svanisce successivamente. Il corpo è in continua ricerca di queste forme, come se fosse soggetto ad una sorta di amnesia anterograda. Cerca di ricordare il passato però non riesce ad afferrarlo e, ricordando il passato, non riesce nemmeno a vivere il presente. Si crea una sorta di corto circuito che credo sia anche un po’ uno specchio dell’uomo contemporaneo.
La qualità del movimento ha un nome preciso, si chiama pluriball; volevo che la frammentazione del corpo si sviluppasse su traiettorie circolari. Applico dei principi matematici geometrici per plasmare il corpo, per far dialogare la ricerca con la teoria, trovando dei nessi. C’è anche una creazione, una drammaturgia di immagini in Stuporosa; i rimandi sono rivolti ad alcune tradizioni, come la danza con il fazzoletto. Nel finale compare la componente del sacrificio; essa si manifesta in tutti i rituali funebri e serve a facilitare il distacco dal defunto. Ne è l’esempio il tagliarsi una ciocca o strapparsi i capelli per lanciarli sulla bara.
Anticamente il vestito era il mezzo con il quale si mostrava lo stato del proprio dolore. Il nero è presente in tutte le civiltà occidentali e l’uscita dal lutto corrispondeva ad un cambio di colore del vestito. Si passava in maniera graduale al blu, poi al viola fino ad arrivare al Bianco. Ciò avviene anche in Stuporosa perché nel finale si passa dal nero al banco e rappresenta, per me, l’inizio di una elaborazione che si manifesta nel colore delle sottovesti. La scelta di utilizzare il nero è avvenuta perché c’è sempre stato un rapporto contrastante nei confronti della persona defunta. Da una parte c’è il desiderio che il morto resti per sempre e, dall’altra, c’è la paura che la sua anima possa tornare per tormentare i vivi.
Vestendosi di nero si diventa un’ombra e questo colore dovrebbe impedire, secondo le leggende, nel momento del ritorno, il riconoscimento dei sopravvissuti. Le tradizioni e i colori del lutto, tuttavia, cambiano in base alle popolazioni del mondo. Tutto quello che avviene in scena è stato studiato precedentemente in maniera scientifica attraverso una ricerca su ogni aspetto: dai costumi, alle musiche e ai gesti, alle immagini che vengono realizzate in scena. Si è trattato di un processo ultimato con un metodo a volte deduttivo e a volte intuitivo. Un’altra cosa che ha catturato il mio interesse sono state le dinamiche sociali e di potere che si instaurano nelle comunità poiché anche nei rituali si innesca una tendenza verso l’assoggettamento e la subordinazione».
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.