Articolo a cura di Barbara Berardi
«Una sfiduciata speranza di non aver capito bene». Le parole dello scrittore e critico letterario Giacomo Debenedetti risuonano sul palco, gravide di orrore, al ricordo del giorno che ha segnato per sempre la storia del nostro paese».
16 ottobre 1943 è la testimonianza letteraria della retata nazista nel Ghetto di Roma, un breve, dolorosissimo racconto di quelle prime ore di una mattina d’autunno, quando la violenza tedesca si abbattè senza preavviso nell’area che sorge attorno al portico d’Ottavia, a pochi passi dalla sponda del Tevere.
Sebbene siano passati ottanta anni da quel “sabato nero”, quando più di mille persone appartenenti alla comunità ebraica vennero arrestate e deportate nei campi di concentramento, la compulsione etica alla memoria e alla testimonianza, fa sì che ancora oggi si tramandi il ricordo di questa tragedia.
Quest’anno la Fondazione Teatro di Roma, in collaborazione con la Comunità Ebraica di Roma e la Fondazione Museo della Shoah, ha scelto di commemorare questa data portando in scena uno spettacolo fatto di storia, immagini, racconti scalfiti nei muri. Ricordi che corrono tra le strade di un quartiere.
Dopo il debutto al Teatro Argentina di Roma, dal 25 al 29 ottobre al Teatro India è andato in scena Quel giorno. Memorie del 16 ottobre 1943, scritto e diretto da Marco Baliani, che sceglie le parole di Debenedetti per dare forma al cuore programmatico del suo lavoro. Uno spettacolo che non vuole essere cronaca, ma che scava tra le macerie dell’animo umano e porta in superficie la necessità dell’autore di donare voce, carne, essenza, a questo terribile evento.
Baliani, noto per il suo impegno come autore, regista, attore in quella corrente denominata “teatro di narrazione”, o “teatro civile”, sceglie di mettere in scena i giorni che hanno preceduto la mattina del 16 ottobre, facendosi portavoce di chi quelle strade le viveva nel quotidiano.
Strade che presto diventarono angoli bui dove nascondersi all’odio del mondo.
In scena due attori, Francesco Villano e Sandra Toffolatti, che incarnano più personaggi piccole figure del quartiere: due bambini, due ragazzi nel fiore dell’adolescenza e infine una coppia di coniugi che nel buio della propria stanza assiste impotente al rastrellamento delle famiglie ebree.
Peppino ha solo 9 anni e anche se non capisce bene quello che sta succedendo intorno a lui, avverte una strana sensazione, che non è la stessa che prova fuori da scuola quando incontra i ragazzi più grandi di quinta. Sa che è una paura diversa: «È una paura peggio che va dentro dentro e storcina in pancia».
Ester è ancora troppo piccola per imparare a fare le faccende di casa, ma ormai sa benissimo che non appartiene più al mondo di prima, quando le bambine ebree della sua età potevano ancora cantare canzoni d’amore, frequentare le scuole e festeggiare il bat mitzvah.
Villano e Toffolatti passano dall’innocenza e la purezza dei pensieri da bambini ai turbamenti e alle consapevolezze di Settimio e Anna, due giovani innamorati, con le viscere in subbuglio e il cuore che batte, che sognano invano un futuro da passare insieme che non arriverà mai.
A questo punto il ritmo e i toni del testo di Baliani cambiano, mentre Anna è fiduciosa, Settimio sente il peso di una vita non realmente vissuta, che lo rende incapace di reagire e impotente di fronte alla minaccia che sente incombere su di loro.
Gli ultimi a prendere la parola sono Renato e Teresa, inermi di fronte alla barbaria dell’essere umano. Non sono ebrei, ma dichiaratamente antifascisti. Proveranno a salvare almeno i loro vicini ma il testo di Baliani ci lascia sospesi e senza risposte, non raccontandoci quale sarà il loro destino.
Tre quadri differenti, tra soliloqui e dialoghi, intervallati da brevi e leggeri interventi musicali. Un inanellarsi di sogni, pensieri e parole in dialetto romano, recitati con estrema cura, attraverso un utilizzo della parola chiaro, e privo di enfasi o di eccessiva carica emotiva.
Ascoltiamo i due attori, e nel mentre vediamo Sara raggiungere Settimio alla Fontana delle Tartarughe con il suo vestito a fiori, ancora umido perché tra i vicoli del Ghetto i panni appesi non riescono ad asciugare: «‘Na fossa de straccetti che fanno strigne il core»; sentiamo l’odore stantio della cantina dove il padre di Peppino ha deciso di far nascondere la sua famiglia; sorridiamo pensando a quanto sia bella l’ingenuità di Sara, con il cuore pieno di vita e i pensieri leggeri: «Come se le nuvole non fossero una cosa meravigliosa da stare a guardare».
Nell’essenzialità del rapporto attore-parola, Villano e Toffolatti finiscono per diventare corpo e voce di queste figure, restituendo al pubblico la loro essenza fisica, sensibile, materiale, ma soprattutto umana.
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