Articolo a cura di Caterina Giangrasso
10 Giardini da non perdere è un progetto firmato da Ariella Vidach e Claudio Prati che riflette sulle nuove forme di spettatorialità, al fine di innescare un percorso di partecipazione critica e attiva del pubblico, in grado di determinare e trasformare la scena con le sue scelte e la sua presenza. 10 giardini da non perdere si realizza attraverso una performance site specific esperienziale, un happening coreografico collettivo che vede l’attivazione di un pubblico “aumentato”, composto da danzatori, artisti e spettatori.
Come per tutti i lavori di Ariella Vidach AiEP l’apporto tecnologico tout court è parte integrante di un discorso che la coreografa porta avanti da anni, mediante progetti diversi, in autonomia e in collaborazione con altre realtà. Ariella Vidach, con una formazione avvenuta oltre oceano con Trisha Brown, Twyla Tharp, Steve Paxton, Bill T. Jones, inizia la sua attività coreografica negli anni ’80 fino alla fondazione di Ariella Vidach – A.i.E.P. nel 1996. Il suo repertorio è stato presentato in contesti nazionali e internazionali. Nel 2005 nasce il DiDstudio (Danza Interattiva Digitale), centro di formazione, promozione e ricerca sulla danza contemporanea e atelier di sperimentazione e produzione artistica della compagnia in cui Ariella Vidach svolge la sua attività di ricerca e produzione.
Inoltre, Vidach è tra i docenti della Civica Scuola Paolo Grassi ed è in prima linea nella divulgazione della ricerca tra danza e tecnologie interattive con il progetto NAO Nuovi Autori Oggi e Tec Art Eco, di cui è direttrice artistica. In questa fase di ritorno in scena per tante realtà italiane, abbiamo raggiunto Ariella Vidach per un’intervista in cui la coreografa racconta la condizione attuale della sua danza e i suoi progetti futuri.
10 giardini da non perdere è un lavoro che consta di una scelta compositiva particolare. Come nasce questo progetto spettacolare e quanto le limitazioni imposte dal distanziamento sociale ne hanno alterato la struttura?
10 giardini da non perdere è un progetto site specifi, in grado di adattarsi di volta in volta perché esistente nel luogo e nel momento in cui si realizza. In uno spazio chiuso avrebbe avuto una dimensione completamente diversa, lontana da quella originariamente pensata e creata. Si tratta di un concetto base del lavoro che in ogni condizione trova un suo adattamento specifico. La performance ha un ecosistema che include al suo interno anche interventi che permettono alla tecnologia di integrarsi con noi in quanto “esseri tecnologici”.
È quello che accade anche nel nostro quotidiano: si tratta di mettere i corpi in relazione con le immagini, con spazi anche distanti, quelli con cui ci connettiamo via Skype, mediante una webcam, ad esempio. Attraverso questo processo abbiamo accesso ad altri luoghi, diversi rispetto a quelli che abitiamo fisicamente con il nostro corpo.
In occasione della replica a Paesaggi del Corpo lavoreremo utilizzando, oltre che lo spazio, una relazione tra lo spazio stesso e i danzatori. Le proiezioni avverranno sui dispositivi smartphone del pubblico, che avrà modo di accedere a un sito che gli consentirà di “connettersi” con immagini e suoni, mediante una regia creata con Claudio Prati. In questo modo, la relazione con lo spettatore si instaura a un livello più profondo poiché c’è la possibilità di attribuire a uno strumento di uso quotidiano, come lo smartphone, una funzione sociale e collettiva e non più solamente individuale.
L’attenzione e la formazione del pubblico potenziale è un tema sul quale c’è una rinnovata attenzione. In questo lavoro, come in altri del tuo repertorio, possiamo trovare forme di spettatorialità attiva. Cosa è cambiato nel tuo lavoro di creazione? Cosa ti piace trasmettere agli spettatori?
Questa domanda può aprire un capitolo molto articolato. Nel caso di 10 giardini da non perdere si tratta di una performance che presuppone una logica di partecipazione attiva a un evento di spettacolo. Ogni spettatore decide di esserci e “come” esserci, si tratta di una comunicazione che definisco “eterodiretta”. Mi piace pensare agli smartphone utilizzati come dei trasmettitori, e che lo spettatore attivo possa partecipare in modo immediato, senza stratificazioni intellettuali ma rispondendo in maniera naturale alle sensazioni.
L’arte, per me, deve invogliare un comportamento spontaneo in chi ne fruisce. A volte però, la tecnologia impone una necessità di istruzione per permettere il suo utilizzo: tutti noi ci chiediamo infatti come si usa qualcosa quando vi entriamo in contatto per la prima volta. Nel coinvolgimento della tecnologia in queste performance mi piace anche sperimentare come determinate risposte spontanee sia del pubblico sia dei danzatori, possano rivelarsi sorprendenti, interessanti in qualche modo.
Con AiEP abbiamo fatto anche altre sperimentazioni in alcune situazioni di realtà aumentata, consentendo di fruire di una performance sia in una configurazione normale sia in una visione digitale. In occasioni del genere, cerco sempre ricevere una risposta immediata e spontanea, con lo spettatore in una condizione di tranquillità nei confronti dell’evento a cui partecipa.
Nel tuo lavoro la tecnologia è sia soggetto sia oggetto, strumento di indagine e di confronto su più livelli. Cosa ti ha ispirato rispetto al tuo lavoro Exp del 1997 e cosa ti ispira oggi?
La possibilità di interagire con lo spazio mediante la tecnologia continua ad incuriosirmi, è un punto fondamentale del mio lavoro sul corpo e sul movimento. Mi interessa il corpo immerso in uno spazio sensibile a prescindere dalle differenze tecniche – e tecnologiche, appunto – che si sono susseguite negli anni. Il corpo è uno strumento pieno di risorse, reagisce a tutto ciò che lo circonda e mediante le relazioni cresce e si evolve. Con la tecnologia si possono avere delle opportunità di conoscenza talvolta superiori rispetto a relazioni più semplici.
Il corpo danzante poi agisce in base all’educazione che riceve sul movimento, aprendosi all’ascolto in una continua relazione con se stesso, per migliorarsi e adattarsi a diversi contesti. Adesso sto approfondendo la realtà virtuale che, con una dimensione immersiva, può essere ancora più totalizzante rispetto all’apporto di una tecnologia esterna che si inserisce come oggetto virtuale in un contesto reale. Il bello è che c’è sempre una nuova frontiera da esplorare.
Quanto e in che modo l’attuale situazione storica condiziona la tua creazione artistica e la gestione di tutto ciò che c’è dietro di essa?
A parte le limitazioni ovvie devo dire che abbiamo dato una spinta in avanti ad alcuni progetti a cui stavamo già pensando: per noi lavorare in modalità “digitale” non è una novità. Avevo un’idea su un progetto volto alla creazione di una compagnia di danza virtuale che magari senza la situazione pandemica mondiale poteva svilupparsi tra qualche tempo, però trasformando la limitazione in opportunità credo non ci sia momento migliore di quello attuale.
Nessuno può prescindere da quello che succede, in particolare gli artisti che hanno una funzione di filtro, con l’obiettivo di sollecitare le sensibilità altrui. Tutto quello che succede nella società e nel nostro tempo determina quello che facciamo sia come singoli sia come parte di una comunità, a prescindere dalle sue dimensioni. Siamo in un mondo e in un tempo che ci sta dicendo delle cose molto importanti per cui mi auguro che tutti possiamo essere in grado di imparare qualcosa sempre, nel bene e nel male.
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